L’emigrazione nel secondo dopoguerra (1946-1976) - TopicsExpress



          

L’emigrazione nel secondo dopoguerra (1946-1976) L’EMIGRAZIONE NELL’ITALIA DA RICOSTRUIRE Alla fine del secondo conflitto mondiale l’emigrazione dall’Italia riprende con vigore. Si va via perché non c’è lavoro e il paese è distrutto dalla guerra, perché ci si è rimasti bloccati durante la guerra, come tanti figli di emigranti con passaporto estero che ora chiedono di tornare là dove i genitori erano emigrati, perché si proviene dai territori italofoni dell’Adriatico balcanico, perché si è considerati fascisti e si teme per la propria vita oppure perché si è bollati come socialisti e comunisti e, quindi, con poche possibilità di lavoro dopo la sconfitta elettorale del 1948 e il fallimento dell’occupazione delle terre. Si arriva nei paesi di destinazione perché questi hanno bisogno di manodopera, perché accettano “profughi” per motivi umanitari (gli istriani in Australia e in Canada) o politici (i fascisti nell’Argentina peronista, i comunisti nella Cecoslovacchia). In questo periodo le nuove mete degli Italiani sono il Canada, l’Argentina, il Venezuela e l’Australia, sostitutive degli Stati Uniti, da tutti sognati, ma ancora chiusi. Per quanto riguarda l’Europa, va segnalata la sua assoluta preponderanza come meta privilegiata degli italiani che, allo stesso tempo, si muovono all’interno della stessa Penisola. Nei trent’anni in questione il 68% dell’emigrazione si muove in Europa, mentre il 12% raggiunge il Nord America, il 12% il Sud America e il 5% l’Australia. Contemporaneamente le migrazioni interne, soprattutto dal Sud al Nord, raggiungono numeri importanti e cambiano la geografia umana del paese: la campagna e la montagna sono così abbandonate e ingenti masse si spostano dal Sud e dal Nord-Est verso il triangolo industriale e la capitale. Inoltre alcuni emigrano verso le frontiere settentrionali, perché là, continuando a risiedere in Italia, possono recarsi ogni giorno a lavorare in Francia, nel Principato di Monaco, in Svizzera o in Austria (i cosiddetti lavoratori frontalieri). A partire dagli anni 1970 decrescono tutte le migrazioni, interne ed estere: persino il movimento frontaliero si contrae progressivamente. Crescono quindi i ritorni facilitati dal fatto che è più semplice rientrare dai paesi vicini: i dati rivelano che in questo periodo i rientri sono pari a 4,3 milioni contro 7,5 espatri, ma già dal 1973 i rientri superano annualmente le partenze. Tuttavia restano, dove si sono trasferiti, coloro che hanno optato per spostamenti interni alla Penisola, anzi costituiscono dei nuclei che ciclicamente attireranno loro corregionali verso alcune regioni settentrionali e verso la metropoli romana. LA NUOVA POLITICA DELL’EMIGRAZIONE Riprendendo la strategia fascista, nel dopoguerra si assiste a una serie di accordi bilaterali tra Italia e gli Stati europei che richiedono manodopera per la ricostruzione: 1946, Francia e Belgio; 1947, Cecoslovacchia, Svezia e Gran Bretagna; 1948, Svizzera, Olanda e Lussemburgo; 1955, Germania. Nel frattempo si siglano accordi anche con paesi extraeuropei: Argentina, Brasile e Uruguay, Australia e Canada. Come negli anni del fascismo, il governo italiano scambia lavoratori contro materie prime e contemporaneamente approfitta delle migrazioni per garantirsi una valvola di sfogo. Sono fatti partire fascisti e comunisti, ma anche i profughi delle ex colonie e dei territori italofoni passati ad altri Stati, come gli istriani; inoltre il Primo ministro De Gasperi si serve dell’emigrazione per ammorbidire lo scontro nel Trentino, dove una parte della popolazione aveva optato per la nazionalità tedesca e ora è per questo discriminata. Nonostante la volontà governativa non tutti i partenti sfruttano le possibilità offerte dagli accordi. Molti non si fidano e preferiscono affidarsi all’iniziativa personale o alle reti familiari o amicali. Altri vogliono comunque andare in paesi che non li desiderano (i comunisti che cercano di entrare nelle Americhe o i fascisti che optano per la Francia). D’altra parte la clandestinità è per gli emigranti italiani una condizione antica, tanto è vero che si calcolano in almeno 4 milioni quelli che sono partiti senza documenti dopo il 1876. Negli Stati Uniti Alberto Anastasia, boss di Cosa Nostra, dichiarava negli anni 1950 di aver fatto entrare clandestinamente almeno 60.000 connazionali, evitando loro qualsiasi controllo. Dopo la Seconda guerra mondiale il percorso è meno rocambolesco ed è in genere affidato ad una rete di guide e contrabbandieri che fanno scavalcare le Alpi, per poi giungere in Francia, Svizzera, o Belgio. A fronte dei 20.000 minatori previsti dal primo accordo italo-francese del 1946, altri 10.000 immigrati arrivavano autonomamente solo a Parigi fra il gennaio e il maggio e alla fine dell’anno i clandestini italiani in Francia risultano 30.000. Tre anni dopo sono raddoppiati. Infatti, le lungaggini burocratiche erano tali che molti si rassegnavano a espatriare in modo illegale, favoriti in ciò dagli imprenditori francesi che consideravano i clandestini come una manodopera più ricattabile e in definitiva meno costosa. Anche le autorità amministrative paradossalmente favorivano gli ingressi illegali degli italiani, ritenuti preferibili a quelli legali degli algerini. L’emigrazione clandestina attraverso le Alpi verso la Francia era un percorso seguito dagli emigrati italiani, non solo piemontesi, ma anche siciliani, come illustrato da Pietro Germi ne Il cammino della speranza. Nel 1962, 87 italiani trovarono la morte al “Passo del diavolo” presso Ventimiglia per recarsi clandestinamente in Francia. Ancora a metà degli anni 1970 circa 30 mila bambini italiani erano tenuti nascosti in casa («non ridere, non piangere, non far rumore») dai loro genitori emigrati in Svizzera che temevano di essere rimpatriati perché il governo elvetico proibiva ai lavoratori stagionali di farsi accompagnare dalla famiglia. LE METE DELL’EMIGRAZIONE: LAVORO E CONDIZIONI DI VITA L’esodo verso l’Europa conosce fasi alterne, legate all’andamento economico dei singoli paesi e degli accordi stretti fra questi e l’Italia. Il flusso verso Francia e Belgio, assai intenso nei primi anni 1950, decresce nella seconda metà del decennio e tocca il suo minimo dopo il 1963. L’esodo verso la Gran Bretagna non decolla mai completamente. Nel frattempo cresce l’emigrazione verso la Svizzera e la Germania, che, però, acquista caratteri quasi esclusivamente stagionali. Nello stesso periodo gli spostamenti interni sopravanzano l’emigrazione verso l’estero, in particolare quelli dal Sud al Nord, che portano addirittura allo spopolamento di alcune aree del paese. Le Americhe restano un sogno, ma in quella meridionale ci si scontra con crisi economiche e politiche, mentre in quella settentrionale, molto più sicura, non è facile entrare, se non dopo complicate manovre burocratiche. Molti optano dunque per una prima emigrazione verso Paesi europei, il Belgio per esempio, dai quali poi chiedere in un secondo tempo il permesso di passare oltre Atlantico. Le condizioni lavorative sono in genere dure non solo in Italia, ma anche in Europa, nelle Americhe e in Australia. Il lavoro è pesante e non sempre ben pagato, inoltre si vive in una condizione di continua emarginazione. Soprattutto agli inizi i lavoratori, in larga parte maschi, sono ospitati in veri e propri baraccamenti, che talvolta sono gli stessi usati per la reclusione durante la guerra. Inoltre i diritti non sono garantiti, perché il governo italiano non ha le capacità di difenderli e i sindacati locali vedono gli immigrati come una minaccia per l’occupazione dei nazionali. La posizione migliore è forse quella dei lavoratori agricoli nella Francia del Sud-Ovest, perché gli stessi francesi considerano favorevolmente questa emigrazione: ai loro occhi è infatti di gran lunga migliore di quella offerta dagli algerini o da altre popolazioni coloniali. Per il resto del continente il lavoratore italiano è uno stagionale, sfruttabile a piacimento e destinato agli impieghi più duri e pericolosi nelle fabbriche siderurgiche, nelle miniere e nell’edilizia. Tale situazione è confermata da alcune tragedie eclatanti. A Marcinelle, in Belgio, l’8 agosto 1956 un carrello uscito dai binari e finito contro un fascio di cavi elettrici ad alta tensione lasciati senza protezione causa l’incendio nella miniera del Bois du Cazier che uccide 262 persone di cui 136 italiani. A Mattmark, in Svizzera, il 30 agosto del 1965, 88 operai, di cui 55 italiani, che lavoravano in un cantiere collocato, senza nessun accertamento, sotto il ghiacciaio svizzero dell’Allalin che aveva già dato segni di smottamenti, sono sepolti da una frana. Si potrebbe pensare a circostanze casuali, ma è d’obbligo ricordare che in Belgio 867 italiani muoiono in miniera tra il 1946 e il 1963. LE MIGRAZIONI INTERNE Sino al 1958 il grosso dell’esodo meridionale si dirige verso l’Europa, le Americhe e l’Australia e la migrazione interna è costituita dal tradizionale movimento dalla campagna verso la città e dal Veneto verso il triangolo industriale, oltre che dalla forte attrazione della capitale e dal definitivo popolamento delle aree bonificate nel Lazio e nella Sardegna. Tale spostamento è comunque notevole se si tiene conto che nel 1950 la popolazione attiva impegnata nell’agricoltura è al 40% e nel 1957 è scesa al 35%. Nel quinquennio 1958-1963 i trasferimenti interni si trasformano in un massiccio movimento da Sud a Nord, che si stempera successivamente per poi riprendere nel 1967-1969. Nello stesso tempo la costruzione di poli industriali nel Meridione e nelle Isole porta a un ulteriore abbandono delle zone di montagna o campagna e all’affollamento attorno ai nuovi impianti. Gli anni 1960 costituiscono dunque assieme agli anni 1930 il momento di massimo spostamento interno e cambiano la geografia umana di alcune regioni. Allo spopolamento di molte aree corrisponde la nuova intensità demografica delle grandi città, dei centri industriali e dei settori prediletti dai lavoratori frontalieri, come il nord della Lombardia o il Ponente ligure.
Posted on: Fri, 02 Aug 2013 21:36:39 +0000

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