Note sul concetto e pratica dell’usura nel Medioevo Alla fine - TopicsExpress



          

Note sul concetto e pratica dell’usura nel Medioevo Alla fine del XV secolo, mentre alcuni umanisti prendevano coscienza di se stessi come avanguardia di una nuova fioritura culturale ed andavano raffigurando i secoli precedenti come un tempo di oscurantismo ed immobilità, altri umanisti cercavano una definizione di sé in quanto uomini. Descrissero la natura umana - con quella semplicità quasi scontata che è tipica delle scoperte geniali - come uno stadio intermedio tra la bestia e Dio, indissolubilmente partecipe delle bassezze animali e della trascendenza più sublime. Era l’epoca instabile, felice ed ottimistica in cui l’Umanesimo non aveva ancora partorito il Rinascimento: una primavera dell’anima alla vigilia di un apogeo culturale, ma anche di quell’infinito carnaio della storia che furono i due secoli successivi. Alberti, Salutati, Bruni, Ficino, Pico, Poliziano, Lorenzo, umanisticamente innamorati della propria umanità, seppellirono per qualche decennio il moralismo medievale sotto una languida indulgenza autoassolutoria, tesa a riconoscere connotati di necessità anche agli aspetti meno nobili della vita. Pico della Mirandola scrive che le bestie e Dio non conoscono il peccato, la meschinità e l’aberrazione, ma nemmeno il progresso: sfiora la blasfemia, ma riconosce – come nel Medioevo non sarebbe mai stato possibile – che qualunque evoluzione procede anche dalle quotidiane bassezze. L’usura è un’attività che, sicuramente, non ha mai contribuito al miglioramento del mondo; tuttavia le trasformazioni intervenute nella concezione e nei metodi con cui la si praticava nel Medioevo denotano alcuni cambiamenti sociali, psicologici e culturali leggibili in funzione dello sviluppo della sensibilità collettiva che accompagnò e segnò l’uscita dal Medioevo stesso. Com’è noto, la prassi allora definita come usura ha poco a che vedere con quella attuale, dato che consisteva, essenzialmente, nel prestito di denaro ad un interesse quasi mai tanto alto da distruggere l’attività economica dei debitori. Dal secolo XII sono abbastanza numerosi i casi documentati in cui dei contadini abbiano dovuto cedere la proprietà di alcuni appezzamenti (situazione che talvolta comportava l’approdo ad uno status sociale servile) per assolvere a debiti eccessivi. Ma si tratta di circostanze che potevano verificarsi solo in regioni ed in periodi del tutto affrancati da qualunque sistema di governo feudale (in cui, naturalmente, il dominus è l’unico padrone o fruitore delle terre e degli immobili) e che, rispetto alla diffusissima necessità da parte dei coloni di contrarre debiti, dovevano essere piuttosto rare (o, almeno, scarsamente documentate). In realtà l’usura si è sempre connotata come una prassi prevalentemente cittadina e, pertanto, le vittime erano soprattutto piccoli commercianti, lavoratori del settore manifatturiero e bottegai di ogni genere, che prendevano frequentemente il denaro in prestito, ma, a giudicare dalla documentazione storica, non erano praticamente mai costretti a pagare cedendo la propria attività. L’unica spiegazione plausibile è che i tassi di interesse a cui gli usurai concedevano il credito dovevano essere, in genere, abbastanza ragionevoli da permettere l’estinzione del debito senza ricorrere a misure drastiche: in pratica, l’usuraio medievale mirava ad un’accumulazione costante di beni piuttosto che alla distruzione economica dei debitori. Si tratta di un atteggiamento giustificato anche dal fatto che l’usuraio era quasi sempre in prima persona impegnato in attività commerciali e che, se i pagamenti dei crediti in beni immobili potevano essere accettati come fonti di rendita (sia i campi che le abitazioni venivano concessi in affitto), un’attività da maniscalco o da locandiere non era di alcun interesse. La figura dell’usuraio, quindi, per quanto derivi proprio da un’idealizzazione che ne venne fatta nell’immaginario medievale, di per sé non esisteva. Il creditore a interesse era un personaggio abbiente, con discrete possibilità di denaro liquido ed esperto delle dinamiche economiche, ossia era un mercante. Il prestigio sociale di chiunque si dedicasse al commercio era estremamente scarso: la sua ricchezza destava invidia e malevolenza, la sua onestà e coscienziosità ispiravano seri dubbi morali. I teologi stilavano liste di professioni impure in cui il commercio figurava accanto alla prostituzione, ricordavano che secondo i Padri della Chiesa “è difficile che nei rapporti di compravendita non si insinui il peccato”, condannavano moralmente l’acquisto della merce ad un prezzo e la rivendita ad uno più alto come lucro iniquo ed ingannevole. Anche nel Basso Medioevo, in una società ormai fortemente urbana, gli ordini mendicanti continuarono a condannare ogni mercanteggiamento e San Tommaso d’Aquino, pur riconoscendo l’utilità sociale del commercio, riteneva che “avesse in sé qualcosa di vergognoso”. Il prestito del denaro a interesse, cui molti mercanti ricorrevano come forma sicura di moltiplicazione del capitale accanto ai rischiosi viaggi commerciali in terre straniere, divenne la pratica contro cui si manifestò il più profondo disprezzo della società medievale. Il divieto del 1179, con cui la Chiesa proibì ufficialmente l’usura, rende ragione dell’importante ruolo svolto da alcuni ebrei nella vita economica dell’Occidente, ma le prediche e le continue condanne ufficiali denotano che, naturalmente, gli “infedeli” furono sempre un’esigua minoranza rispetto agli usurai cristiani. Nella predicazione bassomedievale (quella meglio attestata) è contenuta una recisa critica sociale che coinvolge chiunque, ma che raggiunge l’acme dell’acredine nelle minacciose invettive lanciate contro gli usurai. Negli exempla, ossia nei brevi aneddoti mutuati dal folclore o dalla letteratura popolare inclusi nelle prediche, li si dipingeva come mostri morali. Si ricorreva spesso alla storia della scimmia che, durante un viaggio in mare, si sarebbe arrampicata sull’albero maestro con la borsa dell’usuraio e avrebbe riconosciuto dall’odore le monete guadagnate ingiustamente, per poi scaraventarle in mare. Si raccontava che, al funerale di uno strozzino, il peso della maledizione della sua anima fosse tale da impedire ai parenti di sollevarne la bara; mentre al funerale di un altro, la salma sistemata sul dorso di un asino sarebbe stata scaricata in terra sconsacrata (destinazione cui era comunque destinata) per volere dello stesso animale. Ma vigeva una spiccata preferenza per gli aneddoti che paventavano la condanna alla dannazione eterna, come quello dell’usuraio tormentato dai demoni in sogno e che, rinfrancatosi dopo il risveglio, venne afferrato da diavoli che procedevano su una nave senza pilota; un altro, addirittura, viene descritto mentre, in punto di morte, tenta di persuadere l’anima a non abbandonarlo promettendole oro e argento ma, di fronte al proprio fallimento, la manda esso stesso all’inferno. Molti exempla presentano come momento centrale della vita cittadina lo smascheramento disonorevole dell’usuraio. Una storiella narra di un sacerdote che avrebbe dimostrato l’abiezione dell’usura provando a tutto l’uditorio che nessuno osava riconoscersi pubblicamente in una simile attività: a tal fine avrebbe proposto di impartire l’assoluzione ad ogni categoria lavorativa, ma al momento in cui sarebbe toccato agli usurai, nessuno di loro si sarebbe mostrato, preferendo nascondersi dallo scherno generale. Talvolta il riconoscimento avveniva addirittura per intervento divino: una storia raccontava come a Digione, nel 1240, un usuraio fosse morto sulla porta della cattedrale con la testa squarciata dalla borsa di pietra staccatasi dalla statua di uno strozzino raffigurata sul portale occidentale della chiesa, inserita in una straziante scena di Giudizio Universale che si può tutt’ora ammirare. Proprio la borsa divenne, nell’immaginario medievale, un attributo costante del creditore a interesse, quasi un segno della sua degradazione: in questo senso il ritratto più chiaro e tremendo è dato dal castigo che gli usurai patiscono nel terzo girone del diciassettesimo cerchio infernale in Dante (Inf. XVII, vv. 28-78). Costretti alla posizione che era loro consueta in vita, acquattati a covare il denaro sul “sabbione ardente”, sono raffigurati con una borsa-marsupio che ormai fa anatomicamente e mostruosamente parte di loro (immagine forse suggerita dalla Summa virtutum ac vitiorum del domenicano francese Guglielmo Peraldo). Tanta insistenza nelle prediche contro gli strozzini è impossibile da ridurre soltanto a ragioni dottrinarie, ma deve essere letta, piuttosto, come una giustificazione scientifica dell’odio sociale contro i creditori, nella ricerca di un obiettivo adatto a canalizzare uno sfogo per i diffusi malcontenti economici. E il soggetto più adeguato ad attrarre odio non può essere che il diverso. Le persecuzioni ed i continui pogrom contro gli ebrei contemplavano sempre, tra i vari pretesti addotti dai bandi, la loro dedizione all’usura. In realtà, in stati che, per legge, vietavano loro la maggior parte dei diritti economici e civili, impedivano spesso di avviare attività artigianali e rendevano la stessa permanenza entro i confini estremamente insicura, alcuni ebrei si dedicavano al prestito del denaro a interesse come ad una professione quasi obbligata: era un mestiere di forte rischio economico e non godeva di alcuna protezione (soprattutto in una società in cui i primi e maggiori debitori erano i sovrani), con il vantaggio, però, di trattare denaro liquido, facilmente trasportabile in caso di persecuzioni. A tal proposito, la Cronaca di Strasburgo (fine XIV - inizio XV secolo), pur fortemente antisemita come quasi ogni opera medievale che citi gli ebrei, offre squarci di sconcertante sincerità: “Se i Giudei fossero poveri e i Signori non fossero indebitati con loro, non li brucerebbero”. Ma anche gli italiani del Settentrione e della Toscana, che costituivano una delle comunità mercantili più dinamiche d’Europa, erano famosi come usurai. Un cronista della prima metà del XIII sec., Matteo da Parigi, scriveva dei “Lombardi” – come venivano chiamati Oltralpe gli italiani – che “sono furboni, traditori e impostori; divorano non solo gli uomini e gli animali domestici, ma anche mulini, castelli, terre, prati, macchie e boschi, tengono in una mano il foglio di carta e nell’altra la penna, con cui pelano la gente degli argenti e degli averi e li divorano come lupi bastardi che ingrassano sui bisogni altrui, e riempiono le borse”. Gli eccidi di usurai italiani in Occidente, in particolare in Francia, nel corso dell’ultimo quarto del XIII e nel XIV secolo sono un fenomeno frequente quanto i pogrom contro gli ebrei. Se l’arcivescovo di Firenze, Antonino (tra XIV e XV sec.), nei suoi trattati teorici si dimostra abbastanza accondiscendente nei confronti dell’attività finanziaria (che nella Toscana di quel periodo aveva raggiunto il suo massimo sviluppo), i predicatori popolari si irrigidiscono sempre di più. Bernardino da Siena delinea un quadro impressionante del momento del trapasso dell’usuraio, con tutti gli elementi del creato, le potenze angeliche, i concittadini, la sua stessa casa ed il letto di morte che gli gridano la condanna ai supplizi infernali; mentre il francescano tedesco Bertoldo da Ratisbona sostiene che un usuraio può anche acquistare le indulgenze liberando il Santo Sepolcro, morire in guerra e farsi seppellire nella tomba di Cristo, ma la sua anima è comunque persa. In particolare erano due i punti di vista da cui muoveva l’odio contro i creditori a interesse: uno di natura dottrinaria, l’altro legato al senso comune. Sul piano religioso si considerava l’usuraio ripugnante innanzitutto perché il suo è l’unico peccato che non concede mai riposo: i libertini, gli assassini, i bestemmiatori, gli spergiuri non sono permanentemente impegnati nelle loro colpe, mentre lo strozzino continua ad accumulare capitale anche mentre dorme, mangia o ascolta la predica, negando il “naturale” avvicendamento del lavoro e del riposo. Si vedeva nell’usura, perciò, la rottura del legame tra l’uomo ed il suo lavoro, che Dio ha imposto di esercitare, contrariamente a quanto fa l’usuraio, con il “sudore della fronte”. Il senso comune di un mondo fortemente gerarchico e socialmente immobile, invece, apprezzava in primo luogo la nobiltà di lignaggio e le doti cavalleresche che tutta la letteratura cortese enfatizza. Il cittadino, per quanto ricco, era oggetto del disprezzo nobiliare perché avvezzo ad un vile rapporto diretto e quotidiano con il denaro. Risulta illuminante in questo senso un poemetto anonimo composto alla metà del XIII sec. in Inghilterra: Una nuova breve disputa tra l’Accumulatore e il Dissipatore. Si tratta di una sorta di rilettura medievale della favola della Formica e della Cicala, con il mercante usuraio nel ruolo del primo personaggio ed il nobile nei panni del secondo. Gli argomenti usati dai due protagonisti sono praticamente gli stessi della storiella di Esopo: l’Accumulatore è previdente, vive in modo austero e si preoccupa della vecchiaia; il Dissipatore veste in modo stravagante, mangia di continuo (la lista dei piatti serviti ad un suo banchetto è una sorta di trattato culinario), insiste sulla vanità delle ricchezze che, se non vengono utilizzate, imputridiscono e sono preda dei ratti. Nel racconto, però, tutto è rivolto a suscitare l’avversione del pubblico nei confronti dell’Accumulatore-Formica: la sua previdenza è mostrata come grettezza, la sobrietà come l’egoismo di chi non vuol condividere con gli altri i beni materiali e, naturalmente, gli si rimprovera di non essere nato ricco, ma di esserlo scandalosamente diventato. Sarebbe sbagliato ritenere che simili accuse lasciassero indifferenti gli usurai: la coscienza della contraddizione tra un’attività tanto vantaggiosa e la sua valutazione moralmente infima comportava un forte sdoppiamento nella sfera spirituale. Il testo norvegese (primo terzo del XIII sec.) noto come Speculum regale si apre con le istruzioni che un mercante usuraio impartisce al figlio: per poter almeno sperare di non dannarsi l’anima “una parte del profitto deve essere sempre devoluta a Dio onnipotente e alla Santa Vergine Maria e ai santi cui sei solito chiedere aiuto”; per poter acquisire prestigio sociale “la cosa migliore sarà sottrarre agli affari due terzi del capitale e investirli in un solido possesso terriero, dato che al nobile il rispetto viene alla terra”. Ma soprattutto viene ripetuto ininterrottamente un ammonimento: “Non lasciar passare nemmeno un giorno senza apprendere qualcosa di utile per te: devi imparare sempre”. I primi due suggerimenti sono l’essenza dei tentativi da compiere per la promozione di sé da parte dell’arricchito: acquisire quei beni immobili che distinguono l’aristocrazia e fare sostanziose offerte. In una società schiacciata dal senso di colpa le donazioni raggiunsero modalità mecenatesche: i mercanti e gli usurai finanziavano la costruzione di chiese e la produzione di opere sacre, come l’oratorio padovano che Enrico Scrovegni fece affrescare da Giotto tra il 1303 ed il 1305. Tuttavia l’insistenza sull’importanza dell’apprendimento rappresenta un principio di sconcertante modernità. Saper leggere e scrivere è la condizione per condurre gli affari ed i crediti, che necessitano di libri contabili. Non c’è nulla di sorprendente che dall’ambiente dei mercanti emergano gli autori delle prime “cronache familiari”, in cui la grande storia e gli eventi epocali convivono con le vicissitudini personali degli uomini d’affari, con le entrate, le spese, l’interesse minuzioso per la statistica e gli aumenti dei prezzi. È indicativo il titolo di una di queste opere: Libro di Giovenco Bastari, di tutti i suoi fatti, creditori, debitori e ricordanze notevoli. È il segno irrevocabile dello sviluppo di un’autocoscienza individuale, familiare e collettiva da parte della classe sociale più agiata ed evoluta. Soprattutto nella Toscana del XIII e XIV secolo si sviluppa un sistema di scuole mercantili, che si affianca all’elitario corso di studi del Trivio e Quadrivio proponendo insegnamenti di tipo specialmente matematico, ma senza tralasciare l’aspetto letterario della formazione se un poeta come Dante vi imparò il latino e la poesia antica. Il dinamismo di mercanti ed usurai, perciò, influì sulla diffusione della cultura e sull’evoluzione dell’etica comune. In Paolo da Certaldo, un mercante usuraio amico di Boccaccio, la morale non ha più alcun timore di confrontarsi con il denaro, che si deve saper guadagnare in modo onesto, senza applicare prezzi esosi alle merci o interessi eccessivi ai crediti, ma che soprattutto è importante saper spendere in modo assennato. Per la prima volta si assiste ad una rivalutazione etica del lavoro: Certaldo insiste su termini come “operoso”, “solerte”, “tenace”, loda la ricchezza acquisita con i propri sforzi e non rinuncia alla propria religiosità, che è una spinta ad essere sempre pronti alla morte tenendo costantemente in ordine i conti, così da lasciare ai figli un’esistenza serena e poter serenamente fare i conti anche con Dio. La dicotomia tra le esigenze della vita quotidiana e gli ideali religiosi si risolve senza drammi anche nelle numerose lettere che il pratese Francesco Datini invia alla moglie: le note relative agli affari stanno accanto alla preoccupazione per la salute di un figlio, alle preghiere rivolte a Dio ed ai complimenti indirizzati alla consorte. Lo stesso approccio al mondo ed alla spiritualità si riscontra nelle note che Bonaccorso Pitti stese fino al giorno della morte parlando fieramente in prima persona, con un “io” narrativo egocentrico e ormai umanistico. L’evoluzione della concezione dell’usura segna la maturazione di tempi fortemente diversi ed impregnati da una libertà sconosciuta al Medioevo, coltivata proprio da una classe sociale che seppe affrancarsi dall’abiezione e dal disprezzo generale. Un predicatore francese del XIII secolo sintetizzava l’ascesa ed i guadagni di un usuraio nella successione dei titoli con cui veniva chiamato (da “Martinus scabiosus”, ossia “tignoso”, al semplice “Martinus”, fino al “meus dominus Martinus”), per poi precipitarne l’anima all’inferno. Nell’autunno del Medioevo italiano (ma anche delle Fiandre e di alcune zone francesi) si rivendicò l’importanza delle doti cui simili ascese erano dovute e si iniziò ad accettare il prestito del denaro come un mezzo utile alla mobilità economica dell’intera società. Ma solo con l’Umanesimo si poté iniziare ad affrontare l’accusa che vedeva nel creditore a interesse un mostruoso ladro di tempo. Leon Battista Alberti riconosceva solo tre beni del tutto inalienabili all’uomo: l’anima, il corpo e “la cosa più preziosa, più mia di queste mani e questi occhi: il tempo”. Solo il riconoscimento dell’assoluta libertà personale permise di iniziare a non colpevolizzare quanti commettevano il mortale peccato di impiegare il tempo come fosse denaro. (parados.it)
Posted on: Fri, 18 Oct 2013 09:34:44 +0000

Trending Topics




© 2015