PIETA’ FIGLIALE – seconda parte Amedeo Friàbile si - TopicsExpress



          

PIETA’ FIGLIALE – seconda parte Amedeo Friàbile si costituiva in sé stesso come una pastasfoglia di emulsioni liofilizzate, stupendo, lui per primo, di poter riuscire a muoversi ‘liberamente’. E la sua motilità era asfaltica: bisognavangli, ciò era, le strade: perché solo per le strade riusciva a impostare traiettorie di sé medesimo. No, non correva, camminava: ma aveva una tal piena percezione del suo corpo, del suo peso (e, soprattutto, ‘sentiva l’aria’) da riuscire a poter cercare il ‘punto di corda’ nelle curve, a lui congeniali, laddove odiava i rettilinei. Così eucaristicamente sentendo, gli batteva forte il cuore per la rasentata doppia transustanziazione: lui istradandosi o la strada illuiàndosi. Alle corte: nel corso di una di queste passeggiate bitumoso-egotiche, trovossi la sbarra stradata. Sì, il mese gli tornava, e l’anno pure, lì stampigliati: ma il giorno, il giorno non era successivo all’attuale? E quella sbarra che ci stava a fare? Indicava, forse, un livello di passaggio. A uno stato alterato di coscienza. Ecco, ma che cos’è uno stato alterato di coscienza? Qui mi fermo, la definizione essendone impossibile (fra l’altro, ogni stato di coscienza non può se non aumentare l’entropia), e riporto quanto sta avvenendo, in ‘tempo reale’ (sic). Dire non è mestieri quanto i suoi occhi, già abbondantemente lesi, restassero abbarbagliati da quei ‘ciuf ciuf’ che passavano, staccati da terra per virtù elettromagnetiche, a trecentomila chilometri al secondo dietro la sbarra, la monorotaia fumigandone, e stridendo come i denti nella Geenna. Passò oltre, lasciandosi alle spalle un corridoio di nebbie, un vapore che accompagnava la ‘strada ferrata’. Di là, l’abituale paesaggio riprendeva, con altra vegetazione, altri scoiattoli: e l’unica cosa fissa era lui; ma quanto poteva restare sé stesso (ah, Leo Buscaglia!) a onta delle diversità che andava affrontando col coraggio dell’incoscienza? La spendita biologica, nell’esistere, non può non produrre debiti, con tassi da usura, con l’anatocismo, pensava il Nostro, mettendo finalmente in pratica ciò che aveva studiato: la forza viene dalla terra, il principio motore nasce nell’addome, si trasla alle anche e da lì si diparte in due direzioni opposte, una che spinge in basso, e una che spinge in alto. Questo, per strano che sembri, alleggerisce i piedi, tanto da produrre l’illusione che sia possibile camminare sull’acqua. L’idrovora del Serengeti, nascosta e sempre in moto – e non si sa chi paga – andava insavanando il padule verso cui era diretto, e s’incrociava col barlume dell’idea di camminarci sopra, rendendo tale fantasia non impossibile, ma altamente disonesta. Creature verdi-marron (alberi, dicono) asseveravano coi loro cangiamenti di famiglia, genere e specie questa permutazione, sempre in fieri, seppure non in modo così evidente. Come potremmo noi essere impermeabili a essa permutazione? E come sarebbe possibile che non fossimo sempre stati, se siamo adesso? Più che labile, inesistente il discrimine fra passato e futuro, inclassificabile il presente. Basti così, non siamo scienziati e dobbiamo fare solo il nostro mestieruccio di camerieri, di cronachisti. Quell’’omo’ cui fu tolta la ‘h’ ( togliendogli l’onor, secondo Ariosto); quello nel magro volto del quale ben si ravvisa la ‘emme onciale’: e che porta nel palmo delle mani le chiare linee di un’altra emme, quella della Morte, zampiga tuttavia percettivamente, quasi formica dispersa, protrudendo invisibili antenne: quest’uomo, Amedeo, andava sempre più convincendosi che ogni infinitesima frazione del cosmo è ologrammatica, riproduce cioè in sé, nel suo microcosmo, alla Bela Bartok, il macrocosmo; e per le deformazioni che tuttavia riscontrava, più che a risultanze, sebbene presenti, di immagini da specchio, tendeva a concepire un’isteresi (nel senso di riacquisto fisiologico delle proprie dimensioni di ogni corpo sottoposto a spinte o trazioni, riacquisto che però tiene conto di tutte le deformazioni precedenti), un’isteresi, appunto, ologrammatica. E intendeva la vita come fosse quella piccola deformazione, quella deformazione in più, eredità in ritardo, ben conosciuta dai giardinieri quando piegano l’alberino oltre la verticale: perché, liberato dopo un certo tempo, raggiunga appunto essa verticale. Così ragionando camminava, riandando ai graditissimi sogni di moto (lui, bocconi sull’asfalto, che impostava le curve in discesa senz’alcuna sofferenza da attrito; lui che si sentiva talmente alleggerito da sollevarsi a una ventina di metri d’altezza, sopra le cime degli alberi, per atterrare a volontà su morbidi pratoni; lui, ancora, che, quasi sciasse, si buttava in cortoraggio giù da dirupi, scivolando sulle suole, senza mai spostare le gambe, e riducendo la velocità con lo smuovere ghiaia). Laddove serpenti e uccelli gli confacevano pei primi due casi, per l’ultimo faceva fatica a trovare riscontri: lo stambecco, forse, ma esso si giova di quattro punti d’appoggio: “Certo,” diceva fra sé: “noi siam venuti dopo rocce, piante, muschi, licheni e animali. Engrammato in me c’è questo ricordo: altro che rivivere il trauma della nascita, o addirittura il concepimento: si può andare più indietro. E che altro fanno gli sciamani, e i Cinesi nelle loro antichissime discipline del corpo?” Da queste considerazioni rampollava una domanda: “Dove sono gli impulsi di pensiero, formatisi attraverso la facoltà immaginativa e caratteristici degli esseri umani, revenienti da intenzioni, progetti, desideri, ossessioni? Freud dice che sono virtualmente immortali: si tolga il ‘virtualmente’: tutta ‘sta roba da qualche parte c’è e, reperita, può essere utilizzata come combustibile e comburente per viaggiare nel tempo.” “Bravo Berlicche!” la brezzolina deroga dall’eolico arpame, si articola, còmpita, scandisce sillabe, laringe naturale e preternaturale al tempo stesso. La promenade prosegue, come in “Quadri di un’esposizione”: il mento leggermente rientrato, le ginocchia un po’ flesse, la zona lombosacrale piena, lo sterno che rientra, il completo rilassamento delle spalle, il sincipite idealmente tirato verso l’alto e la respirazione inversa (l’unica corretta, se non si è fermi – e tralascio le attività natatorie, delle quali nulla so) conducono tosto non già a uno stato di coscienza alterato (ovvero, sì alterato: rispetto al precedente, che era sbagliato) ma alla percezione naturale della Natura, e della natura propria. Ne testimoniano i tricipiti della sura, pieni e trofici ma mai irrigiditi, il bicipite femorale, che fa il lavoro in genere, ahimè, demandato al fratello cattivo, il quadricipite; le rotule libere, la scomparsa di ogni contrazione muscolare che non sia isotonica o pliometrica. Così, inarcadiandosi come un Silvano e quasi verdeggiando sul grigio dell’asfalto, il Nostro procedeva, percependo, e seminando percezioni di sé nelle coinvolte strutture di quel che lo circondava. Lo circondava, e non occorron lacrime per terminanda sua peregrinatio, terminanda per stigma della morte. Fra il diaframma toracico ed il pelvico, uno stantuffo pulsa, stantuffo di motore circolare, che agisce in tutte e sei le direzioni. Il duende cinetico ne ha origine, né abbisogna di danze o acrobazie: sufficiente è suonare la chitarra. Ora, lettore che seguito m’hai, ti puoi tuffar di piedi nel prosieguo: vieni a giocar con noi, ampio è il cortile, anzi è un giardino grande come il mondo. Incelluliamo i pensieruzzi ed ingeriamo una microspia: ma è quello che facciamo tutti i giorni. Ma avete idea di che cosa s’intracheisce in noi? Ma non avete mai visto tutta quella roba che un raggio di sole rivela in casa vostra? Ce n’è di spie, lì dentro! E poi, spia? Ma quella ‘roba’ è, è di per sé, ha una funzione che noi non possiamo conoscere, o possiamo non conoscere. Allora, chi vogliamo impiccare? Ogni frammento, ogni particola, ogni molecola, ogni particella ha ‘intelligenza’, nel significato di intelligence in inglese: ci informa e ci forma, informandosi e formandosi. Quanto a una funzione fisica del pensiero (a parte quella psico-telecinetica degl’imbecilli metapsichici e/o parapsicologici, che vanno sempre a sbattere sullo ‘spiritualismo’, che è poi spiritismo, ‘studiando sedute’ dove esseri umani, riuniti, chiamano forze esterne perché impauriti del loro stesso esistere), quanto a una funzione fisica, dicevo, non vedo come si possa dubitarne, nel momento stesso nel quale ne cambia la percezione. Pizzicotto nel sedere: tua moglie lo passa: identico pizzicotto, in autobus, da sconosciuto: oh, se cambia! Ricordiamoci di Rashomon. O pensiamo alle bande musicali di paese: a volte i ragazzini si piazzano davanti ai suonatori di fiati con mezzi limoni, e li succhiano: ciò produce scialorrea, e lo strumento si ingorga. Ma non è necessaria la presenza fisica dei ragazzi, basta che il suonatore, che sa che non deve farlo e proprio perciò è vulnerabile, pensi al mezzo limone che il fenomeno avviene. Che cosa c’è di più fisicamente pregnante della percezione, la quale sostanzia il pensiero? Cammini sull’asse a 20 cm da terra tranquillamente, mettila a 20 metri e non lo fai più. Queste raffazzonatissime considerazioni non portano da nessun’altra parte se non da quella che avevo in mente fin dall’inizio dell’orrida compilation, essa parte essendo semplicemente quello che mi va di scrivere, nel caso non si fosse capito, ed essendo incerto anche quello, quello che voglio: difatti attendo la transmutatio maxima, per potermi rimproverare di esser riuscito a congratularmi meco. Ciononostante, follia è illudersi di scrivere ciò che si ha mente: imbratta carte e le parole se ne vanno, come molossi tenuti da un bambino, dove pare loro, seguendo leggi …. Ecco, seguita a leggere. E per concludere: chi scrive scrive cose difformi dai suoi progetti, chi legge legge cose che lo scrittore non sa affatto di avere scritto. Non solo: nel tempo le cose scritte cambiano per lo scrittore e mutano per il lettore: manco fossero vive. E vive sono, per forza, per forza di pensiero e d’inchiostro. Dunque Amedeo - avendo ridotto, nello spazio, l’attrito al minimo - si trovò a poter comprimere il tempo, per scoprire che esso andava dilatandosi. La coincidenza di tutti gli istanti dell’universo gli toglieva il fiato; il rintuzzarsi su sé stesso lo espandeva nel Tutto, lui guardalinee arbitro giudice legiferatore demiurgo. Ma la godutamente temuta deflagrazione non ebbe luogo, gli fu largito privilegio di pista, nel cosmòdromo. Così guardava, senz’addarsene, compilato di brume in un risveglio crepuscolare, ogni corpuscolo intorno a lui eiettando intenzioni e negando agnizioni, tutti significativi di alcunché: sesquipedali e pretenziosi, a volte; a volte minimi ma pregnanti come particelle locative o pronominali, con bengala di perifrastiche e grancassa d’avverbî. Una dermofania con endoscheletro, un bel lavoro in pelle direbbero in Blade runner, stava uscendo dal cinema parrocchiale: aveva appena goduto della mimica di Louis de Funès: l’impatto dell’approccio (ohi!) fu abbastanza neutro: “Quo vadis, Qubrècer?” “Al cinema, a vedere “Quo vadis?”” (ma no! già mentiva): “Che cosa vuol dire?” “Dove vai?” “Al cinema,” ripose pronto Amedeo, perfettamente conscio dell’intrusa metonimia, della traslazione in itinere personae, perché lì lo voleva, il duplice assassino, per fargliela pagare, a lui che uccise, e che adesso faceva il santarellino. Presolo sottobraccio (e avvertì resistenza lieve: ma che cosa credeva?) cominciò così il suo dire, con leggere oscillazioni deambulative, paterno, fraterno, e molto stronzo: “Qubrècer, ignoto non m’è il tuo operato. E non intendo dar corso a nessuna azione che non sia di, ehm, chiarimento. Dimmi, caro, dimmi (e la resistenza aumentò, sì che il passo gli si appesantì), come è possibile che tu abbia scritto a Resoarcér firmandoti Qubrùcidam e a quest’ultimo con la firma di lei? Certo la missiva era al Fermo Posta, l’hanno letta, hanno risposto per accordarsi sull’appuntamento da Oloferne: come è possibile che entrambi abbiano fatto accenno, nei loro riscontri, a una lettera che non avevano mai scritto né spedito? Ad esempio: “Ricevo con piacere la Sua del 27 c.m., protestandomi pronto ad incontrarLa ….”” Capì, dal parossismo contrattile del braccio di Qubrècer sul suo, che lui lì stava sagomando una manovra d’addio, e gli lasciò esso braccio, come bisogna fare quando te lo torcono: se spingono, tira; se tirano, spingi. Tutte le dediche degli abusi enterici parvero esulcerarsi nella cavità glenoidea, ma Amedeo sapeva che prima o poi la pressione di Qubrècer , raggiunto l’apice, avrebbe subito la sua onda di ritorno, lui, senza sforzo, limitandosi a mantenere il centro e una lieve pressione in cinque direzioni: la sesta era quella sulla quale si concentrò e verso la quale, letteralmente, Qubrècer decollò, vittima di sé stesso, accompagnato da un’ampia espirazione con protrusione dell’addome di Amedeo. Al quale non parve vero di cogliere l’occasione per ‘nasare’ le clorofille, le brattee, i sepaluzzi, gli stigmi e i pistilli: rendendosi conto che, magari, certe piante erano nate dalla popò dei cavalli di Tamerlano, o, magari, da esse discendevano: per quanto le piante – che io sappia, a parte e in parte il Salice Piangente – non discendano ma ascendano, verso la luce: con quella doppia forza che le rende così forti, difficillime da sradicare, talora, anche se piccolissime: le radici che tirano in giù, il fusto che si erige. Non so quanta volizione ci fosse nelle delega volativa che aveva degeato l’Orfano, il quale ebbe a sdrumar di parole il Nostro: “Dài, vieni su anche tu: è bellissimo! …. Grazie, grazie ….” Detto fatto: Amedeo inalò ritraendo l’addome, spinse idealmente con la testa il cielo, alleggerì ancora i piedi: e si trovò a una ventina di metri d’altezza, a fianco dell’Uccisore; e, notate bene, non doveva stare parallelo al terreno, volava ‘in piedi’, con l’intenzione, senza la minima fatica. L’egemone sandalìa di Qubrècer, gaudente dei proprî polpacci, cic-ciaccava l’aere con ‘nacchere pedagne’ ma incelestite: il tallone battendo sulla suola, e i piedi flettendosi ed estendendosi ritmicamente: in ispirito di fricassea, quasi volesse infrizzulare l’atmosfera. Le cimase degli alberi di calcestruzzo (che altro sono le case?) erano sotto di loro e, più con cenni che con pizzicotti, Qubrècer fece capire all’altro che bisognava una ricognizione in terris . Senza ordini secchi, militareschi, ma semplicemente suggerendoselo, arrivarono in “un borgo a sé stante, scandito da giardini, che sembra in vacanza perenne”: qui Qubrècer, l’indice sulle labbra, mostrò dove attettarsi planando: si trattava della casa di Qubrùcidam, il Defunto: e qui scesi, i due principiarono dar corso alla loro mission di intelligence: dal terrazzo nel quale culminava l’edificio, attraverso la porticciola di ferro che menava al locale tecnico dell’ascensore e al vano scale, si trovarono davanti la porta dell’appartamento del ‘Fu’. A Amedeo, non per ostentare indifferenza, ma perché gli ultimi avvenimenti lo avevano proprio cotennato, inanestetito alle emozioni, non riuscì di stupire quando Qubrècer si chinò verso la porta e soffiò nella serratura, poi accennando una nenia, e quella si aprì. Polvere e ragni; la luce non funzionava; si riuscì ad alzare qualche tapparella cigolante: lama di sole illustrò parcamente una scrivania, sòpravi, carte: borotalcate di grigio. Tolto a manate il quale, i nostri eroi videro disegnati, contraddistinti da cifre e lettere, varî luoghi circonvicini: postazioni d’alberi e marcapiani, con date e annotazioni (“tuta blu”; “sta caricando la pistola”). Poi una foto di Qubrècer, ma a parete, con la sovrascritta “Wanted: ti stiamo cercando noi, figliolo.” Sul bovindo senza vetrate, un mortaio tutto ruggine, con i proiettili ancora intonsi in una cassa a fianco, ben protetta da un foglio di plastica spessa. Nel bagno, sul bordo della vasca, l’ingiallita brochure che decantava gli hors d’oeuvre d’Oloferne. Ecco che un pocolino di stupore prese piede in Amedeo, tanto che, derogatosi dalle estremità inferiori e serpentinamente arrivato alla bocca, gliela atteggiò in apertura, quasi fosse un mangiatore, sazio, di aria. Ed egli, con la crudele, dissoluta irruenza degli adolescenti – non aveva mai superato l’adolescenza – ‘diede gas’, pretese il pleroma: chiamò, implicitamente, gli eoni. Se sollevarsi dal suolo era stato così facile, perché non poter vedere, a 360°, tutte le cose: sute, enti, essende (salve, ovviamente, quelle oggetto della presente ricerca: non sarebbe elegante)? Mal gliene incolse, come vedremo: ma intanto andiamo avanti. Un neutrino con due sifoni gli apparve, a lui titolòttico all’infinitamente piccolo: si produsse in una riverenza alla ‘Girofflino, girofflè’, lo osservò come un gatto appena entrato in casa , e cercava di offendere. La chiropiattonata sifonòfora di Amedeo lo traslò alla sogliola, alla sogliola di càsula. Qubrècer, intanto, recalcitrava a non mettere per iscritto tutto quello che ancora non aveva scoperto di Resoarcér, sua madre: sebbene nessuno glielo avesse chiesto, lui sapeva bene di ignorare di non dover fare alcunché: gli pareva di essere in Puglia, e non riusciva a farsene regione. Uno sparvuglio di amebe principiava fastidirlo: riuscì a farle litigare con un gruppetto di follicoli oofori, disinteressandosi poi di loro e cercando di localizzare l’abitazione della madre, ridotta com’era la sua lucidità da quella inopacente confusione. Poi dovette ridere perché, a causa del delirio d’onnipotenza del Friàbile, che gli andava letteralmente togliendo il terreno da sotto i piedi, gli toccò vedere Atteone che, scappando dai cani, perdeva una scarpa e gli sfuggiva un “For Artemide!” in luogo di “Perdiana!” che proprio non ci stava. Non era facile orientarsi nel bailamme, continuamente ci si trovava davanti agli occhi roba micro o telescopita: risultando Bellatrix della stessa grandezza d’un micròbio. Memore di un padre che “si fece audace”, Qubrècer impose la mano sull’avambraccio dell’altro: di nuovo furono sul lastrico solare dell’edificio e ancora una volta, calmato il respiro, l’involo riuscì a Amedeo, che si trasse dietro un sodale in leggera difficoltà a staccare i piedi. Rinfrescava; una brezza pungente arrossava le guance dei Nostri; poi Qubrècer ebbe l’agnizione domicilioresidenziale: si attettarono, entrando nell’appartamento di Resoarcér con le modalità di prima. Quivi, germogli di gran di spelta, gusci d’ovo, resti di mute di serpenti, e una gigantografia: Qubrùcidam e Resoarcér in ‘stallo’, fermi in volo sopra le cime degli alberi, con un’espressione di indicibile malvagità: guardarli faceva davvero paura e, con frequentissime occhiate contemporanee ai lati, come avessero un collo da passerotti, i due si traslarono un reciproco, immedicabile sgomento: i due Morti erano vestiti esattamente come loro. A ogni finestra di lei, in ogni terrazzino, telecamere agl’infrarossi con annessa bussola a sestante bisestile: tutto ormai inservibile; e magnetofoni, all’interno, con microfono direzionale e usbergo di catadiottra con diodo al cadmioplasma. Non ce la fecero, proprio: e, senza accordo previo, entrambi optarono per la manovra diversiva, aprendo la bocca e dicendo in contemporanea: “E’ lunga la via per Tipperary, lunga come quella d’Eldorado”. Poi, sempre con ligustrica spontaneità, si trovarono nel cesso, spartano, tebano e ateniese, ch’era stato di lei. Parlavano piano, per primo Amedeo: “Ecco Qubrècer, l’iniziale ostilità nei tuoi confronti mi s’è mutata in affetto sincero: ora so, anche se manca il carapace-placenta-esuvia del dottor Mabuse, che sicuramente ha seguito, ehm, il tuo ‘parto’. ‘Scolta me: dican così (imito il popolo) che certi esseri, per liberarti definitivamente di loro, ci devi dar giù col paletto nel cuore, sai?” Ma Qubrècer non rispose a tono: in raccoglimento di sé stesso, con le mani a conca, e giumella palmonaticale per carne, non per acqua, sostenendosi dai glutei, uso Münchausen, salmodiava giaculatorie scotennine, all’indiana; o alla persiana, sul tappeto volante: e sotto la terra, ripetitiva e bivalente, ma sempre vittoriosa gemeva già di calpestii, di semi, di cadaveri, di fulmini: la terra della messa in ohm; la cara vecchia terra che ci accoglie, dalla quale veniamo, alla quale ritorneremo. Ricevette dunque, come un soldato russo, in pieno petto, la successiva, convulsa esortazione amedèica: “Fatti miglior massaro di te stesso, compila tutti i moduli, abbi fede.” E siccome – secondo Raggio – suole formarsi nella parte bassa conviene de’calzari, così gli principiò anxietas tibiarum. Che, prima arcano ritmo tibiotarsico, s’intersicorò: da blanda elegia zufolata da fistole, avene, siringhe (che diventano zampogne, per accumulazione e per darsi delle arie) a scozzesissima danza delle spade. E rieccoci davanti alla stube a cremagliera antracitica di Resoarcér: no, non residui bruciacchiati, ma tutti gli annunci fatti da lei, fatti da lui: e, in cima, i due falsi di Qubrècer, con tracce di Nutella (?) ai lati. Il quale Qubrècer rimase turbato da un’annotazione emarginata di lei: “Facciamo finta di crederci: dobbiam dargli corda, sennò come lo impicchiamo?” “In parrocchia, presto: rechiamoci in parrocchia: in canonica ci sarà qualcosa ….” Qubrècer si attivò intuitivamente. Detto fatto: i due reperirono sé stessi davanti alla porta del parroco, e fu facile respingere l’assalto scomposto di due beghine e tre bigotte, aizzate da clarissa in pensione; meno facile abbattere il sagrestano, ex rugbista e cintura rossa-oro nero di karate. Basti così: don Abbondio, rosso in volto, impermalito ma vile: “Non zo gnente,” cigolò. Gli armadî furono rovistati, un classificatore, gremito, palesò sulla costola: “Non animadversa morganatica spermovulina”: eccolo! Con la sarcastica ma ricca donazione di due bei leptoni, paffuti e sani, lasciarono il curato a cincischiare breviarî, tornarono in casa Resoarcér, trovando modo di ammannirsi un buon caffè (era ancora sottovuoto). Potete immaginare il batticuore col quale il principale interessato sciolse il nastro che abbracciava il rigido cartone. Sintetizziamo: Qubrùcidam praticava goezia, alla Crowley: durante uno dei suoi cerimoniali, per sbaglio, aveva eiaculato prima del dovuto, lasciando il succedaneo di Mary D’Este Sturges all’asciutto. Ma le finestre erano dischiuse, e il vento fu galeotto e vaso. Uno spermatozoo, dopo varî ghirigori ‘libertì’ puntò il vasistas di Resoarcér, in apertura, di Resoarcér che, supina, stava esercitando il detrusore della vescica e dando aria all’utero. Tutto qui. Il parroco aveva ‘occhi’ dappertutto, lo venne a sapere e convocò i due, pretendendo il battesimo: Qubrùcidam dovette acconsentire, ma, per salvare le apparenze – in realtà per guadagnare tempo e mantenere il peccato originale – aveva proposto di dar corso, prima, al sotterfugio degli annunci, il quale, essendo perfettamente inutile e assurdo, aveva avuto licet, placet e nihil obstat protraendosi per anni, come certe tasse di certi enti fluviali riguardanti corsi dacqua secchi da decennî. Sotto sotto, avendo iniziato Resoarcér alla magia nera, si era riproposto di sacrificare il piccolo, invece del solito gatto o piccione, durante i rituali, piccolo che viveva nel brefotrofio aperto di Sommaruga Cav. Oreste, benefattor rionale. La sublimità antartica di una germinazione così algida, invece di deprimerlo, mise Qubrècer in istato d’agitazion fattizia, ed egli, con mossa leonina, sollevò il bel volto, incontrando però uno sguardo fisso, indagativo: Amedeo non perse tempo (qui si bada a spese): “Caro il mio formichino (sue parole esatte, previa compilazione ideale del ‘mod.C’), vogliamo andarci a fondo? Dove sono i cadaveri, le salme? Qubrècer, sei sicuro che sieno (arcaismo alla Noè) morti?” Era troppo. Una forma latente di coccigodinia licantropistica esplose, e tutto il circondario fu allupato dagli ùluli. E le codette del nervo maggiore di ponente, cariate dagli eccessi di cha cha cha, principiarono dolere ad Amedeo, questo di tanta speme sol restandogli, questo dolore, dico: che gli faceva portare gli stivali in bocca e singhiozzare come un bambino. Ma in quell’atmosfera da Guerre Stellari non si trovarono ermi colli o pinete sottopioggia a illudere una partecipazione: seguitavano, quark e bosoni, a grandezza da pallacanestro, a interesecar traiettorie di fotoni e a sfondare membrane di cellule, in uno spicinìo di atomi che non si capiva niente. E perché tutto questo? Ma varrà sempre la pena di aver bruciato un po’ di fuoco, di averci provato. Poi sì: tutti si dimenticano di tutto; ma qualcosa si può fare: e va fatto. La fotopletismografia specular-levogira, con effetto paradosso sullo spettrofotometro a doppio raggio, se da un lato corrobora l’oscilloscopio della normalità, dall’altro causa le pluralissime valenze di bramosia ungueale, le quali conducono inevitabilmente sopra le righe. E quando intere squadre vanno sopra le righe, ragazzi, si disegna il mondo, si irresponsabilisce la propria facoltà immaginativa, non si va più via così, alla ribalda. D’altra parte, se la compressione sadducea, nonostante l’opposizione degli Zeloti e dei Maccabei, fece nel corso di milleni modificare il carbonio fino a indiamantarlo (per sempre!), fino al Primitivo di Manduria (l’odierna Galilea), e alle faccette di Swarovski, qualcosa di vero deve esserci nel Vittorioso: non facciamo tanto gli schizzinosi: e piantiamola con l’aridità delle scienze esatte, rituffiamoci nel caldo fluire della vita, che non sa di libri, sa di sudore. Una partita a tamburello non è solo prendere il treno per Roncalceci, è anche mettere a repentaglio il potenziale di membrana delle nostre cellule, è mettere in moto la pompa craniosacrale. Ed è inutile che vi lamentiate chiedendovi che cosa io ci stia a fare, se non me lo dite voi: di belle pretese, avete! A scapito, poi, di quell’azzurro che avreste voluto per il vostro cielo, per il vostro mare. Lasciato il marron alla terra, il verde agli alberi, coloro chi ascolta, con il pennello nell’orecchio mozzo, col veleno per topi dello zeugma, con la stricnina di sinestesie. Imperativo, esistere: ma noi vorremmo il futuro anteriore, per lassità degli arti, per rilascio di tendini, per antiche stanchezze. Tramonti che non strinino, ecco che cosa ci vuole; e un po’ più di polso da parte dei gabbiani. Inutile sciroppare le pesche se ogni scoiattolo non ha dove letargarsi, se ogni capezzolo di ogni vacca non ha sprigionato ogni stilla di latte intruso, se non era la Via Lattea a andare in bianco nel rispecchiarsi dentro al secchio pieno. Infine l’aroma degl’isotopi di mandarancio li intrinacriò siculamente mentre, calpestando la strada principale e facendo oscillare le braccia come ‘pistoleri’ si dirigevano alla trattoria di Oloferne. Li accolse Giuditta, con una mannaia gocciolante che faceva tanto Carnevale. Fiamminghe piene di Valloni che belgiocàvano alla siesta erano lì, a buffet, per eventualità antropofàgiche. Oloferne – capelli candidi, testa attaccatissima, bacche di gelso intorno a un naso appena un po’ rosso - li accolse a sua volta festevolmente, offrì loro uno splendido pranzo: ed essi tanto bevvero e tanto mangiarono che dimenticarono affatto la ragione che li aveva spinti lì. E il sole era già alto quando una mano esperta irrorò tutto di anticalcare alla prugna svizzera e tirò giù l’acqua, facendomi spa….. ---------------------- Tutti i diritti riservati – Mauro Roversi Monaco © 2013
Posted on: Fri, 29 Nov 2013 08:27:06 +0000

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