Riflessioni di carattere giuridico sul tema della psicanalisi - TopicsExpress



          

Riflessioni di carattere giuridico sul tema della psicanalisi laica1 Nicla Picchi Introduzione Con il termine psicanalisi laica viene oggi comunemente intesa la pratica psicanalitica condotta da soggetti che non hanno espletato la loro formazione nell’ambito delle facoltà universitarie di medicina o di psicologia, ma che hanno invece seguito, di norma (e auspicabilmente), percorsi formativi nell’ambito delle scuole psicanalitiche di tradizione freudiana. Queste ultime, infatti, non ritengono necessario, ai fini del raggiungimento della preparazione personale necessaria all’analista per il corretto svolgimento della sua pratica, il possesso di una laurea nelle discipline suddette, ritenendo che, con riferimento ai loro attuali piani di studio, tanto la facoltà di medicina, quanto la facoltà di psicologia non siano in grado di fornire il tipo di formazione auspicato da Freud per chi intendesse praticare la disciplina da lui fondata. La psicanalisi laica dev’essere dunque concettualmente ben distinta dalla psicanalisi “selvaggia”, termine quest’ultimo che, nella terminologia corrente, si riferisce a pratiche condotte da soggetti privi di una qualunque formazione adeguata2. Il tema della psicanalisi laica si ricollega storicamente ad un problema sorto fin dalla nascita della psicanalisi, e sul quale lo stesso Freud ebbe modo di esprimersi con estrema chiarezza, in particolare nel saggio del 1926 “Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale”3. Lo scritto in questione traeva origine da una questione giuridica, sorta in seguito ad una denuncia per esercizio abusivo della medicina presentata contro Theodor Reik (un eminente psicanalista non medico) da un suo paziente, che riteneva di essere stato danneggiato dal trattamento psicanalitico subito. La causa finì in nulla, perché il querelante risultò essere uno squilibrato. Freud ritenne tuttavia di dover prendere posizione, per precisare quali cognizioni e doti debbano essere possedute dall’analista: nel saggio in esame, il padre della psicanalisi descrive il complesso addestramento, del tutto speciale, necessario all’analista, e giunge alla conclusione che, per praticare l’analisi sia essenziale, non tanto una preparazione medica, quanto una preparazione specificamente psicanalitica. La questione dell’analisi profana, come finì per essere indicato il problema se anche i non medici potessero, in seguito a una adeguata preparazione, esercitare l’analisi, sul piano giuridico fu risolto generalmente in senso positivo4. Tuttavia essa dette luogo ad aspre polemiche nell’ambito dello stesso movimento psicanalitico, in quanto investiva il problema, anche pratico, se accettare o meno nelle varie società psicanalitiche analisti non medici. Come racconta Jones, che al tema dell’analisi profana ha dedicato un intero capitolo del suo Vita e opere di Freud5 si delineò allora in seno all’Associazione Psicanalitica Internazionale una scissione piuttosto grave fra i nordamericani, fortemente contrari all’ammissione dei non medici, e la maggioranza degli europei, più vicini alle tesi di Freud. Nel tempo si è giunti, attraverso varie vicende, alla generale ammissione, da parte di associazioni psicanalitiche, di analisti non medici. La (più o meno recente, a seconda dei paesi) creazione della facoltà di psicologia, si innesta indirettamente nell’annosa questione della formazione dell’analista, per le implicazioni che verranno ampiamente analizzate nelle pagine che seguono. In ambito europeo, tuttavia, non mi risultano sussistere dubbi quanto alla legittimità dell’esercizio di pratiche psicanalitiche condotte da soggetti non in possesso della laurea in psicologia (o in medicina): al contrario, dalle informazioni reperite sulla situazione normativa di diversi paesi, l’analisi laica è risultata essere generalmente ammessa. In Italia, viceversa, gli Ordini degli psicologi di alcune regioni hanno assunto iniziative6 volte ad accreditare il principio che, nel nostro paese, a seguito dell’entrata in vigore della legge Ossicini, la pratica psicanalitica debba intendersi riservata in via esclusiva agli iscritti all’albo degli psicoterapeuti. Nelle pagine che seguono vedremo come, alla luce dei comuni criteri di ermeneutica giuridica, una simile lettura del campo di applicazione della legge 56/89 sia priva di fondamento. 2. Stato e professioni. Le professioni possono essere oggetto di apposite previsioni normative statuali, oppure non essere prese in considerazione da norme specifiche, ricorrendo in tale seconda ipotesi la figura delle c.d. professioni non regolamentate. Queste ultime, tuttavia, non sono irrilevanti per l’ordinamento, trovandosi ad essere comunque sottoposte ai normali principi di diritto. Generalmente l’intervento dello Stato in materia di regolamentazione dell’attività professionale si legittima con l’esigenza di tutelare due interessi giuridicamente rilevanti: il primo (e principale) è riconducibile a coloro che usufruiscono delle prestazioni professionali, contro le conseguenze negative che possono derivare da interventi effettuati da persone prive di adeguata competenza; l’altro è riconducibile agli stessi professionisti, contro le conseguenze negative derivanti dal proliferare di soggetti non sufficientemente qualificati che, operando nel medesimo campo di attività, possono indurre il pubblico degli utenti a maturare una generale sfiducia verso l’intera categoria. Talvolta l’intervento dello Stato può avere una giustificazione ulteriore, da rinvenirsi nel principio dell’assistenza sociale: nei sistemi che riconoscono l’opportunità di un supporto statale nella gestione della salute pubblica l’amministrazione è chiamata a contribuire alle spese necessarie all’erogazione dei servizi relativi. Naturalmente, in questi casi lo Stato determina e regolamenta le condizioni del proprio intervento. Nei Paesi europei (ed in molti Paesi extraeuropei) il disagio psichico è preso in considerazione, anche se con modalità ed a condizioni diverse, dal sistema pubblico di assistenza sociale. In questi Paesi esiste conseguentemente una forma di regolamentazione di certe terapie del disagio psichico, al rispetto della quale è condizionata l’erogazione del relativo supporto statale. Con specifico riferimento al tema che ci impegna, in nessuno dei paesi oggetto della mia disamina l’esistenza di dette forme di regolamentazione di alcune terapie del disagio psichico ha comportato il generale divieto di pratiche non regolamentate. Tuttavia, rispetto alla psicanalisi, questa circostanza ha prodotto, come vedremo nelle pagine seguenti, conseguenze tutt’altro che irrilevanti. 3. Cenni di diritto comparato Analizziamo brevemente la situazione normativa di alcuni paesi europei, con riferimento alle psicoterapie7. In Germania, nell’ambito del sistema di assistenza mutualistica, nel 1967 vennero elaborate, in sede istituzionale, alcune “Direttive sull’introduzione della psicoterapia analitica fondata sulla psicologia del profondo”. Tali documenti impartivano precise istruzioni, quali ad esempio la previsione del numero massimo di sedute che l’assistenza sociale avrebbe “coperto” (centosessanta, ampliabile fino a trecento). Per i medici aspiranti analisti si organizzarono nelle università dei corsi di specializzazione, attribuenti le qualifiche di “medico psicoterapeuta”, e di “medico psicoterapeuta e psicanalista”. La formazione clinica venne delegata ad alcune istituzioni psicanalitiche, figuranti in una lista ufficiale. La qualificazione degli psicoterapeuti venne regolamentata in un secondo tempo, e richiese il diploma di laurea in medicina o in psicologia. Ciò ebbe come conseguenza che gli psicanalisti laici si trovarono ad essere ben presto esclusi dall’organizzazione istituzionale, potendo essi esercitare esclusivamente attività privata. All’inizio la formazione, tanto degli analisti che degli psicoterapeuti, era affidata a psicanalisti titolari di cattedre universitarie. Tuttavia, essendo limitato a quattro il numero delle analisi di formazione (degli aspiranti analisti) che ciascun docente poteva condurre, di fronte al crescente numero di richieste di terapie che il supporto dell’assicurazione sociale aveva generato, molti candidati rinunciarono al conseguimento di una formazione analitica, di norma molto lunga, preferendo una più rapida formazione specifica in psicoterapia. L’elevato livello degli onorari convenzionati fece sì che, in luogo di esercitare l’attività privata, scarsamente remunerativa, la maggior parte degli analisti preferisse conformarsi alle direttive statali e, senza troppo interrogarsi sull’esatta natura della propria pratica, definisse “psicanalisi” terapie strutturate in modo da presentare i requisiti fissati dallo Stato ai fini della rimborsabilità. In sintesi, in Germania, benché non vi siano formali impedimenti all’esercizio “laico” della psicanalisi, quest’ultima attualmente è quasi completamente inglobata nel sistema del “diritto alla salute”, organizzato dallo Stato. Il sistema adottato nei Paesi Bassi è simile a quello tedesco: la professione di psicoterapeuta, riservata ai medici ed agli psicologi, è oggetto di specifica regolamentazione. La formazione viene dispensata dagli istituti di psicoterapia. Al termine della loro formazione, per poter operare nel sistema dell’assistenza pubblica, gli psicoterapeuti devono iscriversi in una lista ufficiale. Il sistema pubblico è organizzato in centri regionali di salute, sotto la tutela dei c.d. “fondi di spesa medica a carattere eccezionale”. Le funzioni di tali centri sono definite dalla legge, e l’ottenimento delle sovvenzioni dipende dal rispetto delle condizioni dalla stessa richieste. L’esercizio privato della psicanalisi laica è libero, ed il relativo costo è interamente a carico del paziente. Recentemente le compagnie di assicurazioni private hanno incluso la psicanalisi tra i rischi coperti, ma ciò a condizione che la stessa sia praticata da psichiatri. Gli istituti di formazione analitica, che un tempo godevano di sovvenzioni statali, hanno cessato di beneficiarne nel 1987. In Svezia, non solo il diritto alla salute, ma anche il “diritto al benessere” è ascritto alla legge, ed i consigli regionali sono incaricati della sua attuazione pratica. In particolare, essi sono tenuti ad organizzare la prevenzione, ed i c.d. “programmi di salute”. La psicanalisi è ricompresa in questi programmi, sotto forma di psicoterapia analitica, praticata da medici. Sia che si svolgano all’interno di centri di cura o privatamente, le analisi condotte da medici sono di fatto gratuite. Gli psicoterapeuti non medici non sono riconosciuti dall’assicurazione sociale e le loro prestazioni possono essere rimborsate solo eccezionalmente. Posto che la psicanalisi si è diffusa nel Paese congiuntamente all’idea di un “diritto al benessere”, è molto difficile reintrodurvi l’idea di una psicanalisi a pagamento. Di conseguenza, molti dei candidati ad una formazione analitica finiscono per orientarsi verso una formazione psicoterapeutica, che di norma consente loro di giungere più rapidamente ad una situazione economica accettabile. Tuttavia anche in Svezia, in punto di principio, la psicanalisi laica non risulta essere soggetta a restrizioni di sorta. La Francia presenta una situazione a sé stante. In quel paese né la psicanalisi né la psicoterapia sono soggette a specifica regolamentazione: il loro esercizio privato non è soggetto ad alcuna condizione legale. Per ciò che concerne specificamente la psicanalisi, quest’ultima, pur nell’assenza di disposizioni legislative, è stata oggetto di significative pronunce giurisprudenziali. Un primo, risalente, orientamento aveva ricondotto la terapia analitica nell’ambito della pratica medica. Dal 1978 in poi i giudici, invertendo la tendenza interpretativa precedentemente maggioritaria, hanno sancito la piena autonomia della psicanalisi dalla medicina, riconoscendo, relativamente alla prima, il suo carattere di professione a sé stante, per la specificità del suo metodo e del suo oggetto. Questo riconoscimento giurisprudenziale della psicanalisi come attività professionale indipendente ha fatto sì che la stessa fosse esplicitamente ricompresa, nella disciplina tributaria, fra le professioni autonome, godendo, in questo modo, di un riconoscimento legislativo indiretto. Nel 1983, la Direzione generale delle imposte concesse ad alcuni psicanalisti di beneficiare, in riferimento alle pratiche da essi condotte, dell’esonero dall’IVA previsto per “le cure dispensate a persone da esercenti le professioni mediche e paramediche” 8. Nel 1989 tale qualifica de facto trovò ulteriore conferma nell’ambito dei lavori di una commissione appositamente creata dal ministero della Sanità, la quale ritenne esenti dall’applicazione dell’IVA, in quanto sostanziantisi in attività paramedica, le prestazioni di alcuni psicanalisti non medici e non psicologi, figuranti in una lista formata dalla commissione stessa. Tale esonero tributario venne annullato a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato del 4 maggio 19909 sulla base dell’argomentazione che la psicanalisi, pur rientrando tra le professioni paramediche, vale a dire quelle che dispensano cure al di fuori della medicina, non possiede uno dei requisiti che la legge richiede ai fini dell’esonero IVA, e cioè quello di essere una professione paramedica regolamentata. A seguito dell’iter sopra descritto, si può dunque affermare che in Francia la psicanalisi laica ha oggi lo statuto giuridico di una professione paramedica non regolamentata. Come già abbiamo visto per gli altri paesi, anche in Francia, dal punto di vista dell’assistenza mutualistica, solo gli psicologi sono autorizzati a lavorare nelle istituzioni, dove possono condurre psicoterapie sotto il controllo di un medico. Queste ultime, se effettuate privatamente (vale a dire fuori dai centri statali o convenzionati), non sono rimborsabili. Alcune assicurazioni private prendono in carico le psicoterapie, purché condotte da psichiatri. 4. Psicanalisi e legge Ossicini Veniamo alla situazione normativa del nostro paese. Come è noto, la legge 18 febbraio 1989, n. 56, definisce e regolamenta la professione di psicologo e l’attività di psicoterapeuta. Oggi in Italia, per potersi dire psicologo, un soggetto deve essere iscritto all’Ordine degli psicologi istituito da tale legge. Inoltre, per esercitare la psicoterapia, devono sussistere ulteriori requisiti, vale a dire il conseguimento di “una specifica formazione professionale, da acquisirsi dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia (...)”10. La legge citata non fa alcun riferimento diretto alla psicanalisi, che nel testo non è mai neppure menzionata. Tuttavia il tentativo operato dall’Ordine degli psicologi di considerare la psicanalisi ricompresa nella loro sfera di intervento esclusivo (con la conseguenza di voler considerare l’analisi laica come un’ipotesi di esercizio abusivo della psicoterapia) rende necessario un approfondimento del tema. In merito all’opportunità o meno di ricomprendere la psicanalisi nell’ambito della legge sulla professione di psicologo si sono espressi diversi parlamentari, nel corso dei lavori preparatori della legge stessa. Ripercorriamo rapidamente alcuni dei passaggi salienti dell’iter dei lavori. Il 12 maggio 1988 la Commissione XII Affari Sociali della Camera iniziò la discussione intorno a tre proposte di legge concernenti l’ordinamento della professione di psicologo: quella del senatore Ossicini e altri (2405), già approvata dal Senato; quella dell’on. Armellin e altri (483), e quella dell’on. Gelli e altri (1205)11. L’on. Bianca Gelli, nella seduta della Commissione del 1 giugno 1988, ebbe modo di precisare: “Avviandomi alla conclusione, tendo a sottolineare come questo testo non pretenda di andare oltre il compito che si è dato (la regolamentazione giuridica della professione di psicologo), nel senso che non vuole entrare nel merito (come da alcuni invece paventato), né peraltro potrebbe, della dimensione della psicanalisi latamente intesa, cioè come strumento di conoscenza e codice di lettura del reale nel suo complesso. E’ augurabile che l’elaborazione, la riflessione e la ricerca in quest’ambito rimangano libera prerogativa di singoli, o di associazioni nazionali o internazionali, sia che i loro percorsi incontrino o meno il mondo universitario” 12. Nel corso della stessa seduta, l’on. Luigi Benevelli, intervenendo sul tema della psicanalisi, si espresse nei termini seguenti: “(...) Esiste poi il problema di non schiacciare e di non confondere la questione delle psicoterapie con quella relativa ai percorsi, agli addestramenti psicanalitici, che costituiscono ancora un altro versante”. Nella seduta dell’8 giugno 1988, l’intervento dell’on. Gigliola Lo Cascio Galante sottolinea con maggiore evidenza la distanza tra le figure dello psicologo e psicoterapeuta da un lato (figure che la stessa ritiene difficilmente scindibili), e quella dello psicanalista dall’altro: “(...) ho difficoltà ad operare una distinzione così netta tra le due identità professionali - psicologi e psicoterapeuti - che invece si è deciso, per una serie di opportunità, di dover distinguere. La figura dello psicoterapeuta è stata individuata e precisata, da alcuni anni e soprattutto in Italia, nel tentativo di creare uno spazio intermedio tra lo psicanalista e lo psicologo (...)”. Nella seduta del 9 giugno 1988 venne deciso di affidare ad un Comitato ristretto l’esame delle tre proposte di legge presentate sul tema. Alcuni mesi dopo il comitato ristretto elaborò un testo unificato, presentato alla Commissione nella seduta del 27 ottobre dello stesso anno. Il testo della legge Ossicini originariamente approvato dal Senato disponeva, all’art. 5 (Requisiti per l’esercizio dell’attività psicoterapeutica)13: 1. Per esercitare l’attività psicoterapeutica, fermo restando quanto disposto dal precedente articolo 3, è necessario il conseguimento dell’abilitazione in psicologia o in medicina e chirurgia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto in uno dei rispettivi albi professionali o in entrambi. 2. Non è consentito l’esercizio dell’attività professionale in campi della psicologia diversi dalla psicoterapia a chi non è in possesso della laurea in psicologia. Nel testo unificato elaborato dal Comitato ristretto, così come nel testo definitivo della legge in oggetto, della disposizione di cui sopra al secondo comma non vi è più alcuna traccia. L’osservazione che precede impone almeno due considerazioni: in primo luogo la previsione contenuta nella norma citata ci dà atto della circostanza che il legislatore era perfettamente consapevole dell’esistenza, in quelli che genericamente definisce “campi della psicologia”, di attività professionali diverse da quella dello psicologo e dello psicoterapeuta; in secondo luogo, l’eliminazione della previsione in esame dal testo definitivo testimonia che il legislatore ha scelto di non limitare l’esercizio delle ulteriori attività professionali - diverse da quelle dello psicoterapeuta e dello psicologo - che pur afferiscono al campo della psicologia, ai soli possessori di una laurea in medicina o in psicologia. Né nelle discussioni che fecero seguito alla presentazione del testo unificato, né nella seduta finale di approvazione del testo definitivo (il 18 gennaio 1989) si fece più alcun accenno alla psicanalisi, con l’unica eccezione di un intervento dell’on. Mariella Gramaglia la quale, proponendo un subemendamento all’art. 33 (Sessione speciale di esame di Stato), si espresse nei termini seguenti: “Poiché ci siamo occupati solo degli psicologi, abbiamo messo tra parentesi il rilevante problema relativo alla disciplina dell’esercizio della psicologia del profondo (...). Credo che se tali scuole - di così alta tradizione storica e di prestigio per tutti noi - non potranno essere ricomprese all’interno della disciplina in esame, ne deriverà una sorta di discriminazione nei confronti delle più autorevoli società psicanalitiche del nostro paese, come la SPI, L’AIPA e il CIPA”. Il subemendamento proposto dall’on. Gramaglia mirava ad ottenere che “anche ai laureati in discipline diverse da quella in psicologia, e formati presso autorevoli scuole di tradizione almeno decennale” fosse consentita l’iscrizione all’albo degli psicologi. L’intervento della parlamentare prosegue nei termini seguenti: “Ritengo infatti che coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero rientrare a pieno titolo nella normativa, mentre, attualmente, se fosse approvato il testo in esame, tale possibilità non sarebbe prevista”. Il subemendamento in oggetto non venne accolto, sulla base delle seguenti argomentazioni, espresse dall’on. De Lorenzo: “(...) con il provvedimento in esame intendiamo istituire una professione basata sulla conoscenza derivante dallo studio di una disciplina, così come è previsto nella norma che definisce la figura dello psicologo. L’on. Gramaglia fa riferimento nel suo subemendamento ai laureati in discipline diverse da quella di psicologia: ritengo difficile ammettere un iscritto all’Albo che sia, ad esempio, ingegnere, matematico o fisico”. Mi sembra di tutta evidenza che il problema posto dall’on. Gramaglia intorno alla questione delle scuole psicanalitiche fosse quella della possibilità, per le stesse, di essere ricomprese nella legge in corso di approvazione. Il timore che mosse tale presa di posizione è manifesto e dichiarato: vale a dire la “discriminazione” che si sarebbe operata nei confronti delle società psicanalitiche. Altrettanto evidente mi sembra il fatto che il mancato accoglimento della richiesta in oggetto non possa, neppure attraverso il più contorto dei ragionamenti giuridici, essere interpretato come divieto all’esercizio dell’analisi laica. Un simile tentativo interpretativo sarebbe provvisto di una qualche plausibilità qualora il secondo comma dell’art. 5 dell’originaria proposta Ossicini fosse stato trasposto nel testo definitivo. Ma così non è. Neppure a tale risultato si può giungere argomentando dalla sentenza resa dalla Corte Costituzionale il 1 marzo 1995 in materia di parità di trattamento fiscale, nell’ambito di un procedimento promosso da un contribuente al fine di ottenere la deducibilità di spese sostenute “per psicanalisi” precedentemente al 198914. Quando, nella sentenza in esame, la Corte afferma che la questione è “manifestamente infondata, per la ragione che nel vigore della legge n. 56/1989 citata, le spese di psicanalisi sono pienamente ammesse in deduzione, come dalla stessa Commissione rimettente del resto riconosciuto”, la stessa non può che riferirsi alle pratiche analitiche condotte da soggetti che abbiano i requisiti fissati dalla legge stessa. In sostanza, la pronuncia in esame non fa altro che sancire, anche in Italia come già nella maggior parte dei paesi europei, il duplice trattamento fiscale della psicanalisi, che può godere o meno della detassabilità prevista per le spese mediche, a seconda dello statuto professionale del soggetto che, nel caso di specie, conduce la pratica terapeutica. L’interpretazione qui sostenuta è suffragata ulteriormente dalle dichiarazioni rilasciate dall’on. Rossella Artioli nel corso di un’intervista pubblicata15 pochi mesi dopo l’entrata in vigore della legge Ossicini, della quale, per l’inequivocabile chiarezza della posizione espressa in tema di analisi laica, ritengo valga la pena di riportare per esteso alcuni passaggi: “Dom.: Il disegno di legge in discussione nella precedente legislatura, riferendosi alle psicoterapie aggiungeva ivi comprese quelle ad indirizzo analitico. Nella legge oggi approvata questa precisazione è stata tolta. Cosa significa? Risp.: Non è un caso che la precisazione sia stata tolta. In commissione abbiamo infatti a lungo discusso il problema se la psicanalisi fosse da includere o no in questa regolamentazione, e la discussione è riportata negli atti parlamentari. Se abbiamo scelto di togliere la precisazione che figurava nel testo precedente è perché abbiamo concluso che la psicanalisi non dovesse essere regolamentata. I criteri di formazione delle maggiori scuole psicanalitiche infatti si rifanno a standard internazionali fondati su tradizioni consolidate nel pensiero psicanalitico e difficilmente riconducibili a forme di psicoterapia di matrice medica e psicologica, quali sono i titoli di laurea riconosciuti validi da questa legge. Le scuole psicanalitiche, diversamente da quelle psicoterapeutiche, ammettono per la formazione candidati la cui provenienza accademica non è né medica né psicologica e richiedono un training che non può essere svolto in ambito universitario. Non potevamo e non volevamo andare contro criteri scientifici consolidati, e da qui la nostra decisione. (...) Dom.: Qual’é allora la posizione giuridica degli psicanalisti? Risp.: Non avranno né i vincoli né i vantaggi della legge. Credo che per loro la decisione sia individuale. Ci sono psicanalisti la cui formazione accademica è psicologica e non vedo perché non dovrebbero iscriversi all’albo, se lo desiderano. Ma saranno iscritti come psicologi, e non come psicanalisti. Dom.: Psicanalisti che non siano né medici né psicologi potrebbero iscriversi all’albo, qualora lo ritenessero opportuno? Risp.: Le norme transitorie hanno maglie abbastanza larghe e prevedono modalità di accesso anche per chi abbia praticato privatamente, come in genere gli psicanalisti. Detto questo non credo che si debba favorire troppa promiscuità tra pratiche che, se hanno zone d’intersezione, hanno però differenze che merita precisare anche sul piano giuridico.” Vale tuttavia la pena sottolineare che, al di là delle opinioni espresse dall’on. Artioli, la circostanza della mancata ricomprensione della psicanalisi nell’ambito di applicazione della legge Ossicini non equivale certo ad una sorta di ammissione, da parte dello Stato, che la psicanalisi non possa essere oggetto di eventuali future previsioni normative specifiche. 5. Motivazioni pratiche di una scelta ambigua: l’esperienza tedesca La sintetica disamina sopra condotta della situazione riscontrabile in alcuni paesi, evidenzia alcuni dati comuni, che inducono alle seguenti riflessioni: qualora le istituzioni pubbliche decidano di farsi carico, attraverso la copertura mutualistica, dei costi relativi a pratiche di cura del disagio psichico, le stesse pretendono, come è assolutamente logico che sia, di stabilire dei criteri concernenti tanto i soggetti autorizzati a condurle, quanto le modalità pratiche (in primo luogo la durata massima) di conduzione delle stesse. Tali regole, orientate alle psicoterapie, sono risultate essere, di norma, scarsamente compatibili con alcuni dei principi fondamentali del pensiero psicanalitico tradizionale. Tuttavia, il solo fatto dell’esistenza di una copertura, da parte dell’assistenza sanitaria, dei costi sostenuti per le psicoterapie, pone gli psicanalisti di fronte alla non facile scelta tra il mantenere la totale autonomia quanto alle loro pratiche, rimanendo in tal modo esclusi dal sistema pubblico, e il cercare forme di compromesso che consentano loro di far rientrare dette pratiche nel novero di quelle rimborsabili. Di fatto, accade che la maggior parte degli psicanalisti che si trovi ad essere in possesso dei requisiti fissati dalla legge per l’esercizio delle psicoterapie acconsenta a modellare le proprie pratiche - spesso seguitando a definirle “psicanalisi” - sulla base dei criteri fissati per le cure mutuabili (e lo stesso tentano di fare molte scuole di formazione psicanalitica, nell’organizzazione del loro insegnamento). In tal modo il termine “psicanalisi” finisce per designare, come si suol dire, tutto e il contrario di tutto. Le differenze tra la psicanalisi classica e la moltitudine delle varie psicoterapie, in assenza di nitide posizioni teoriche, sono del tutto impercepibili dall’utenza. Il conseguente, ovvio, orientamento dei pazienti verso l’assistenza mutualistica, non fa altro che indebolire inesorabilmente la psicanalisi tradizionale, tanto nella domanda di servizio quanto nella domanda di formazione. Le ragioni di ordine pratico che possono indurre un soggetto a vestire alternativamente la giacca dello psicanalista o dello psicoterapeuta sono comprensibili. Ma è innegabile che ciò rappresenti un grave pericolo per la sopravvivenza della psicanalisi laica. A questo proposito ritengo valga la pena di riportare le riflessioni sviluppate dallo psicanalista tedesco Johannes Cremerius in un interessante articolo apparso su “Psicoterapia e scienze umane”16, dal titolo “La situazione della psicoterapia/psicanalisi nella Repubblica Federale Tedesca”. Sintetizzo la parte introduttiva: il sistema sanitario tedesco prevede l’assicurazione sanitaria obbligatoria per tutti i cittadini al di sotto di una certa fascia di reddito. Di fatto, l’assistenza mutualistica copre circa il 90% della popolazione. Come abbiamo già accennato sopra, verso la fine degli anni sessanta le psicoterapie (compresa la psicoterapia analitica) vennero generalmente riconosciute come mutuabili, a patto che fossero condotte da terapeuti in possesso dei requisiti fissati dalla legge (in sostanza, medici e psicologi che avessero un adeguato titolo di specializzazione). Le associazioni psicanalitiche, in un primo tempo, si opposero alla gratuità del trattamento, argomentando che, proprio in relazione all’efficacia dello stesso, il paziente avrebbe al contrario dovuto sostenere un sacrificio economico, almeno sotto la forma di una parziale partecipazione al costo (ticket). Il legislatore non ritenne di dover tenere in considerazione tale argomentazione. Le associazioni psicanalitiche si trovarono di fronte alla scelta se prendere parte attiva all’istituzionalizzazione delle psicoterapie, o se collocarsi all’esterno della stessa, rimanendo a questo punto relegate al solo ambito delle analisi condotte privatamente. Scelsero la prima delle due soluzioni. Di seguito riporto alcuni passaggi dell’articolo citato, con particolare riferimento alla situazione della Deutsche psychoanalytische Vereinigung (di seguito abbreviata in Dpv), la sola associazione psicanalitica tedesca aderente all’IPA. Avverto che la traduzione italiana non è delle migliori. “La cassa malattia, all’atto dell’inclusione della psicoterapia delle nevrosi nel sistema mutuabile, cioè nel momento in cui si dichiarava disposta ad assumere i costi della loro terapia, necessitava di istituti di formazione che potessero offrire a medici e psicologi, futuri partecipanti alla psicoterapia della mutua, una formazione psicoterapica/psicanalitica competente e verificabile. Per raggiungere rapidamente tale fine, essa decise di riconoscere gli istituti privati di formazione delle quattro scuole psicoterapiche/psicanalitiche esistenti (...). La Dpv ha perso la propria autoconcezione analitica con la disponibilità a partecipare alla psicoterapia delle casse mutue alle condizioni di queste, non in seguito a tale partecipazione. L’assenso dato per poter partecipare alla psicoterapia della cassa mutua secondo le sue norme le impone un ambito in contrasto con la propria concezione di se stessa. (...) La “psicoterapia analitica” mutuabile può essere condotta con al massimo tre ore a settimana e con un numero complessivo massimo di 240 ore, in casi eccezionali di 300 ore. Il terapeuta non può aggiungere una quarta ora, né gratuitamente né tramite pagamento aggiuntivo da parte del paziente. La cassa mutua respinge la terapia ad alta frequenza “poiché non è stata fornita la prova su base scientifica di una forma di indicazione specifica e di una maggiore efficacia per questo metodo applicato”. (...) La prescrizione di una psicoterapia analitica sussiste solo in presenza di una malattia tale ai sensi della legge. (...) Analista e paziente devono chiarire in un primo colloquio, che dura più ore, se può essere realizzata una terapia che abbia successo attraverso una psicoterapia analitica a bassa frequenza di durata limitata. (...) Analista e paziente sono vincolati dagli obiettivi di guarigione della cassa mutua. (...) L’analista non può condurre l’analisi integralmente. Le norme stabiliscono che la attui a tappe (...). A ciascuna di queste tappe, l’analista curante deve motivare nei confronti del perito la necessità della prosecuzione della terapia per il raggiungimento degli obiettivi sopra citati. (...) Il paziente deve essere informato del fatto che, così prescrive la cassa malattia, la terapia è limitata nel tempo, che il suo terapeuta deve inviare una relazione ad un perito, che l’inizio della terapia, il suo tipo e la sua durata, dipendono dal consenso di quest’ultimo, e che il suo terapeuta deve rinnovare tale richiesta dopo la 160ma e la 240ma ora. (...) La Dpv aveva creduto di poter avere, attraverso l’accettazione del contratto con la cassa mutua, due cose contemporaneamente, la carne della vacca e il suo latte, cioè redditi alti assicurati per i suoi membri e la partecipazione ai principi dell’Ipa. Nell’accettarlo le è sfuggito che il contratto esclude di principio l’analisi ad alta frequenza. Quando la cassa mutua, dopo anni in cui la Dpv ha vissuto in una zona grigia creata dalle norme contrattuali, vieta esplicitamente l’analisi ad alta frequenza, la Dpv intenta una causa contro la stessa. Questa causa rende evidente il dilemma che il contratto ha determinato. La causa muove dal presupposto che l’analisi, come la intende la Dpv, è possibile solo se di principio è garantita la terapia ad alta frequenza. Come ho dimostrato, le cose non stanno così, indipendentemente dal fatto se essa viene eseguita ad alta o bassa frequenza. (...) Altrettanto senza riflessione, la Dpv ha tollerato le condizioni che il sistema mutualistico ha imposto col tempo agli istituti di formazione. Ancora una volta la Dpv pensò di poter avere dalla stessa vacca carne e latte contemporaneamente: il riconoscimento statale degli istituti, vale a dire il privilegio di poter aprire ai suoi diplomati l’accesso alla terapia mutuabile, con i vantaggi economici connessi. (...) Oggi ha davanti a sé il fatto che i suoi istituti di formazione sostanzialmente non si distinguono più dalle scuole che insegnano psicoterapia analitica (...). Nella misura in cui il sistema sanitario statale si espandeva sempre di più e diventava sempre più pragmatico, fino ad offrire una vasta assistenza psichica alla popolazione con una moltitudine di metodi di trattamento, gli istituti formativi psicanalitici venivano invitati ad inserire questa moltitudine di metodi e teorie nei loro programmi. (...) La cassa mutua interviene anche nell’organizzazione degli istituti: essa determina la qualificazione dei formatori dirigenti; pretende l’elenco dei nomi delle persone componenti la commissione d’esame, esige che i partecipanti al perfezionamento documentino la loro frequenza a lezioni, seminari, corsi, ecc. sotto forma di prove singole, tenendo un libretto di formazione, e che la formazione si concluda con un esame verbale e scritto. Oltre all’abbandono di molti contenuti psicanalitici specifici, come li richiede l’Ipa, la Dpv ha acconsentito anche a rinunciare all’analisi laica: i laici, cioè persone che non sono né medici né psicologi, non possono partecipare alla psicoterapia della cassa mutua. La prevalenza di contenuti estranei all’analisi (secondo l’autoconcezione dell’Ipa) e la prevalenza della pratica rispetto alla teoria (scuole professionali che sfornano praticoni”, lamenta Kernberg nel 1984) riducono fortemente il tempo di formazione all’analisi classica, ma soprattutto alla teoria freudiana. (...) L’impegno curativo, diventato l’interesse primario a causa dell’attività prevalente nel campo dell’assistenza psicoterapica della popolazione, fa sì che la curiosità per la teoria psicanalitica scompaia sempre di più. Molti dei candidati per la formazione e degli analisti più giovani della Dpv non hanno studiato a fondo gli scritti di Freud. Le loro conoscenze della psicanalisi provengono dalla letteratura secondaria. Inoltre, si può anche osservare che la letteratura primaria è tralasciata a favore della letteratura di una scuola psicanalitica specifica. (...) Il trascurare la teoria nella formazione psicanalitica e il contemporaneo prevalere della formazione verso lo psicoterapeuta pratico (...) hanno fatto sì che i terapeuti pratici trascurassero sempre di più l’interesse di occuparsi della teoria psicanalitica. In tal modo si crea una dicotomia all’interno della comunità psicanalitica. La psicanalisi istituzionalizzata continua, senza che recepisca questa situazione cambiata, a presentare nei suoi convegni e nelle sue riviste teorie psicanalitiche e teorie della tecnica psicanalitica che il terapeuta pratico non può utilizzare nel suo lavoro quotidiano. (...) Ciò significa che sono membri di una comunità scientifica con principi che sono irrilevanti per loro. Quali sono allora i principi ai quali si orientano, da dove prendono i criteri in base ai quali possono controllare il loro lavoro? Queste domande non vengono problematizzate nella comunità psicanalitica perché si deve rinnegare la realtà della dicotomia descritta. Se la si rendesse cosciente, si svelerebbe che qui si sta conservando un’illusione, cioè l’illusione di una comunità scientifica i cui membri fondano ancora, come esigeva Freud, la pratica psicanalitica sui principi della teoria psicanalitica”. 6. Psicanalisi e istituzioni In Italia, a seguito dell’entrata in vigore della legge 56/1989 gli psicanalisti si sono trovati di fronte alla scelta se iscriversi o meno tra gli psicoterapeuti, e molti di quelli che ne avevano i requisiti hanno optato per l’iscrizione. In precedenza abbiamo ampiamente riflettuto sulle probabili motivazioni di tale scelta. Ma, oltre a quanto evidenziato, non bisogna sottovalutare altresì il timore ingeneratosi, in molti psicanalisti, di poter essere perseguiti legalmente per esercizio abusivo della psicoterapia. Quest’ipotesi, nel nostro paese, non è poi tanto peregrina se si considera l’atteggiamento che, come già accennato, ha assunto l’Ordine degli psicologi. Questo giovane ordine professionale ha, fin dal suo nascere, sposato appieno la posizione ideologica degli ordini di più antica tradizione, vale a dire quella di ampliare quanto più possibile il proprio spazio di monopolio17. Attualmente la legge professionale concernente psicologi e psicoterapeuti si è impantanata nei meandri dei regolamenti e delle circolari ministeriali che dovrebbero rendere effettiva la condizione prima della sua attuazione pratica, vale a dire il riconoscimento degli istituti di formazione. Su questo tema si giocano interessi economici non indifferenti, posto che gli istituti che otterranno il riconoscimento si troveranno in una posizione di vantaggio rispetto agli altri, grazie al fatto di poter garantire ai propri iscritti più ampi sbocchi professionali. Ciò ha indotto importanti istituzioni psicanalitiche italiane a scendere in campo, al fine di ottenere, nel quadro della formazione prevista per i futuri psicoterapeuti, il riconoscimento anche dei propri istituti. A tutto questo si deve aggiungere che buona parte degli aderenti alle istituzioni psicanalitiche in oggetto ha fatto richiesta di iscrizione all’albo degli psicologi (con buona pace del loro statuto simbolico). Come vediamo, alle già troppe divisioni presenti nel mondo psicanalitico si è dunque sommata questa, che forse è la più grave, posto che mina la stessa autonomia concettuale della pratica analitica rispetto alle psicoterapie. Sul tema dei rapporti tra la psicanalisi e le istituzioni, nel 1995, per impulso di un gruppo di psicanalisti, è nato il movimento Spazio Zero, costituito da persone appartenenti a varie scuole e tendenze, che si propongono di insistere, coerentemente con le premesse stabilite da Freud, sul carattere laico, vale a dire né medico né psicologico, della formazione e della pratica analitica. Nelle riunioni del movimento, oggetto di ampio dibattito è stato il confronto con la legge Ossicini e, più in generale, lo statuto giuridico della psicanalisi. In merito a ciò, il discorso si è frequentemente incentrato su due aspetti del problema, che mi sembrano rappresentare la sintesi del disagio di molti dei partecipanti. Da un lato è emersa una generale sfiducia sulla possibilità di addivenire ad una regolamentazione della professione conciliabile con la specificità della psicanalisi, tale da indurre a ritenere comunque preferibile l’attuale situazione di totale assenza di regole. Dall’altro, è emerso un manifesto timore di possibili interventi statuali futuri (come potrebbe essere una regolamentazione professionale imposta coattivamente), o di eventuali iniziative dell’Ordine degli psicologi (non ultima la già citata possibilità di azioni per esercizio abusivo dell’attività di psicoterapeuta), che ha indotto alla posizione di auspicare una sorta di tutela da parte delle istituzioni - che altro non può essere se non una forma di riconoscimento statuale - dello psicanalista. In sintesi, ciò si traduce in una posizione che vorrebbe vedere sancita legislativamente, e con ciò formalmente legittimata, l’attuale situazione di assenza di norme. Tradotta in altri termini, questa posizione ha un che di paradossale: praticamente si vorrebbe chiedere allo Stato: “emana una regola che stabilisca che lo psicanalista non ha regole”. Il che è, ovviamente, impossibile. 7. Psicanalisi e diritto Pur riconoscendo lo sforzo di coloro che stanno cercando di animare il dibattito intorno al tema che ci occupa, ho spesso avuto l’impressione che l’impostazione data al problema determini una situazione di impasse, rispetto alla quale non vedo facili vie d’uscita: il timore di subire una regolamentazione imposta coattivamente genera l’esigenza di elaborare proposte di regolamentazione in seno al movimento psicanalitico; tuttavia la convinzione, assai diffusa nel movimento stesso, che il diritto non possa intervenire senza “falsare la natura” della psicanalisi (la quale potrebbe al limite “sopportare” una qualche forma di autoregolamentazione), impedisce di affrontare nel merito la questione della ricerca di regole conciliabili con la specificità della formazione dell’analista. Su quest’ultimo punto, vorrei ricollegarmi alla posizione sostenuta dallo psicanalista Ettore Perrella circa “l’impossibilità strutturale del diritto di pronunciarsi su ciò che, avendo carattere etico, non può che venire falsato da una regolamentazione legale”18, per svolgere alcune riflessioni di natura teorica in tema di rapporto tra psicanalisi e diritto. A tal fine è necessario, in primo luogo, interrogarsi intorno al termine “diritto”. Glanville Williams, in La controversia a proposito della parola diritto19, afferma che “ogni tentativo di definire questa parola ci conduce in un labirinto di letteratura metafisica”. A questa posizione, unanimemente accettata ed indiscussa, consegue che “qualsiasi tentativo, dotato di scientificità, che intenda offrire informazioni sul lemma diritto non può che proporsi i seguenti obiettivi: registrare il catalogo degli usi della parola diritto; ovvero costruire una rassegna delle diverse definizioni di diritto proposte dalle tradizioni culturali (per esempio dalla cultura giuridica, ma anche da quella antropologica e sociologica, o da quella teologica).” Dall’impossibilità di una definizione ontologica (“ciò che è diritto”) nasce l’opportunità di concentrare la nostra analisi sulla definizione del diritto accolta dalla cultura giuridica contemporanea dei paesi di tradizione romanistica. In questa accezione il concetto di diritto è inscindibile da quello di norma giuridica: dobbiamo quindi definire in primo luogo il concetto di “norma” e, in seconda battuta, stabilire quando una norma sia “giuridica”. “Ubi societas ibi ius”: ogni società, ogni aggregazione umana, non può vivere senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra le persone che compongono l’aggregazione stessa. Ciascuna di queste regole, proprio perché concorre a disciplinare la vita organizzata della comunità, si chiama norma; e poiché la cultura giuridica dei paesi di tradizione romanistica considera “diritto” il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una società, ciascuna di tali norme si dice giuridica. La giuridicità di una norma, pertanto, non è la conseguenza di qualche carattere peculiare inerente al suo contenuto, ma dipende dal fatto che vada considerata, in base a criteri fissati da ciascun ordinamento, dotata di “autorità”. Non ha senso, dunque, chiedersi astrattamente se una certa regola sia o non sia giuridica, perché un quesito del genere assume significato solo in quanto sia riferito ad un dato ordinamento e la risposta dipende dal fatto che quella specifica regola sia stata o meno, in quell’ordinamento, dotata di autorità per essere stata inserita in un atto idoneo a porsi come “fonte” di norme giuridiche. In breve: il termine “norma”, in senso stretto, è sinonimo di “regola di condotta”, ed il carattere di giuridicità della stessa è qualcosa che attiene alla fonte dalla quale la norma promana, e non afferisce al suo contenuto. A questo punto appare con evidenza come il sostenere che una certa situazione non possa strutturalmente essere oggetto di diritto equivalga ad affermare che detta situazione sia inesprimibile in termini di regole di condotta. Appare con altrettanta evidenza il controsenso logico implicito nell’affermazione che la psicanalisi non possa essere oggetto di “pronuncia del diritto”, ma che la stessa possa essere invece, come pure da molti sostenuto20, oggetto di autoregolamentazione. Invero, quest’ultima non può che sostanziarsi in un insieme di regole di condotta, né più né meno che il “diritto”, con la sola differenza di promanare da una fonte diversa dall’ordinamento statuale. In altri termini, nell’ipotesi dell’autoregolamentazione, una pluralità di soggetti si accordano fra loro sull’osservanza di una serie di regole di condotta. Rispetto a queste ultime, l’atteggiamento dello Stato può essere di indifferenza oppure di riconoscimento (nel senso che il diritto può attribuire alle stesse un determinato valore giuridico). E’ ora chiaro come il nodo centrale del rapporto tra psicanalisi e diritto verta sul quesito se la formazione e la pratica dell’analista siano in qualche modo oggettivabili, o se invece si sostanzino in una mera esperienza soggettiva. Qualora si giungesse a questa seconda conclusione, in luogo di un’impossibilità strutturale del diritto a pronunciarsi sulla psicanalisi, sarebbe più opportuno parlare di un’impossibilità strutturale della psicanalisi a farsi oggetto di regole di condotta, e quindi di diritto. 8. La “specificità” della psicanalisi La riflessione intorno al tema di una possibile regolamentazione della psicanalisi è stata fino ad oggi condotta, in seno al movimento psicanalitico, a partire dalla “specificità della formazione dell’analista”, che Serge Leclaire riassume nei termini seguenti21: “Dalla specificità della psicanalisi discende una specificità della formazione, che appare di primo acchito come paradossale, paradosso che afferisce al suo stesso oggetto: il processo analitico necessita l’abbandono di tutti gli a priori e domanda una messa in sospensione di tutti i giudizi e di tutto il sapere. (...) La ‘neutralità dell’analista’ non si ottiene che attraverso un lavoro costante sulle proprie resistenze - in riferimento alla propria analisi. E’ a questo obiettivo che la sua formazione lo prepara - formazione che, di conseguenza, non può mai essere conclusa (...). La formazione dello psicanalista non può soddisfarsi del savoir-faire o dei modelli: la sua analisi è destinata ad aiutarlo a raggiungere una certa elasticità della sua tecnica e del suo psichismo. Se l’acquisizione di conoscenze non è sufficiente, come trovare una formazione e una procedura di abilitazione che non si fondi su una valutazione delle competenze, ma che possa appoggiarsi sugli effetti dell’analisi stessa?” L’interrogativo che in questo modo ci lancia Leclaire attiene a ciò che l’Autore ritiene essere il carattere specifico dello statuto dell’analista, vale a dire agli effetti della sua analisi personale. Lascio agli analisti l’approfondimento di questo aspetto centrale del problema. Per quanto mi concerne, mi limito a constatare che reclamare una procedura di abilitazione che non si esaurisca in una mera valutazione delle competenze non equivale ad affermare che le stesse siano in qualche modo sostituibili con gli effetti dell’analisi. In altri termini, l’innegabile difficoltà di affrontare adeguatamente la specificità dello statuto dell’analista, non legittima, a mio avviso, il permanere di una situazione di totale soggettivismo persino in ciò che attiene alla formazione teorica degli analisti. Cito Franco Baldini22: “Per quanto riguarda la dottrina, diciamo subito che lo stato ne è tale da non lasciar più neppure intendere quali siano i limiti propri al suo corpus: lo sforzo di conciliare tra loro le teorie e le sottoteorie più diverse - al grado del connaisseur - ha prodotto ibridi da bestiario medioevale (...)”. La scarsa concordanza sul significato dei termini, per non dire sugli stessi concetti fondamentali, che si riscontra tra gli psicanalisti delle varie tendenze, è il risultato di percorsi formativi di contenuto, e di spessore, troppo diversi. Ciò genera un’enorme difficoltà nella prosecuzione del lavoro teorico, oltre che, nell’opinione collettiva, diffidenza e sconcerto nei confronti della psicanalisi stessa. Per quanto riguarda la pratica, il panorama si presenta, se possibile, ancora più sconfortante. Cito Jacques Lacan23: “Quand on observe la façon dont le divers praticiens de l’analyse pensent, expriment, conçoivent leur technique, on se dit que les choses en sont à un point qu’il n’est pas exagéré d’appeler la confusion la plus radicale... Actuellement, parmi les analystes, et qui pensent - ce qui déjà rétrécit le cercle - , il n’y en a peut-être pas un seul qui se fasse, dans le fond, la même idée qu’un quelconque de ses contemporains ou de ses voisins sur le sujet de ce qu’on fait, de ce qu’on vise, de ce qu’on obtient, de ce dont il s’agit dans l’analyse”. Queste parole mi sembrano conservare a tutt’oggi piena attualità. E’ impossibile, in questa situazione, pensare di poter avviare e mantenere un serio colloquio con le istituzioni. Se mai ci si avventurasse in un’impresa simile, anche immaginando di confrontarsi con un’autorità istituzionale che sia benevolmente disposta a trasporre in norma esattamente ciò che per gli analisti stessi è il loro statuto, alla domanda: “secondo gli psicanalisti, quando uno psicanalista può dirsi tale?” questi ultimi non sarebbero in grado di dare una risposta concorde. E’ quindi necessario intraprendere, in primo luogo, un tentativo di enucleazione, da parte degli psicanalisti stessi, almeno di quelli che essi considerano essere i caratteri essenziali della formazione dell’analista. 9. La posizione di Freud sull’opportunità di regolamentare la psicanalisi Non è raro sentire da parte di psicanalisti, a sostegno di una posizione avversa a qualunque ipotesi di regolamentazione della psicanalisi, l’argomentazione che lo stesso Freud si sarebbe espresso in termini sfavorevoli ad interventi di disciplina della materia. Le parole di Freud, tuttavia, non sembrano legittimare posizioni tanto radicali24: “E vengo ora alla questione che mi sembra più importante. In linea generale si deve sottoporre l’esercizio della psicanalisi a un controllo ufficiale, o è preferibile invece abbandonare la psicanalisi alla sua evoluzione naturale? Non mi pronuncerò qui per l’una o per l’altra tesi; mi consenta solo di presentare il problema alla Sua meditazione. Nel nostro paese c’è sempre stata una sorta di furor prohibendi, una tendenza a tutelare, a intervenire, a proibire: e sappiamo bene che ciò non ha sempre dato buoni frutti (...). Penso che un eccesso di ordinanze e divieti nuoccia all’autorità della legge. E’ facile costatare: dove i divieti son pochi, sono scrupolosamente osservati; quando invece ci si imbatte a pié sospinto in un divieto, si è presto presi dalla tentazione di infrangerlo. Non occorre essere anarchici per rendersi presto conto che le leggi e i decreti, quanto alla loro origine, non sono qualche cosa di sacro e inviolabile, che spesso sono fondamentalmente inadeguati e lesivi per il nostro sentimento di giustizia, o divengono tali col tempo, e che data la generale inerzia di chi dirige la società umana, spesso vi è un solo rimedio verso tali leggi divenute inefficienti: non tenerne conto. (...) La psicanalisi è una cosa ancora tanto nuova nel mondo, la gente è ancora tanto disorientata nei suoi confronti, e la posizione della scienza ufficiale nei suoi riguardi è ancora tanto oscillante, che mi sembra prematuro turbarne l’evoluzione con una regolamentazione legale. (...) Ma se qualora invece ci si dovesse decidere per una politica di intervento attivo, il semplicistico e ingiusto provvedimento di una indiscriminata interdizione dell’analisi ai non medici mi sembra del tutto insufficiente. Bisognerebbe piuttosto darsi la pena di stabilire le condizioni sotto le quali l’esercizio dell’attività analitica può essere consentito per tutti coloro che volessero dedicarvisi, creare un organo, un’autorità, a cui potersi rivolgere per sapere che cosa propriamente l’analisi è e quale preparazione essa richiede, e offrire inoltre la possibilità di una tale preparazione. Concludendo dunque: o lasciare in pace le cose, o mettere ordine e apportare chiarezza; ma non intervenire alla cieca in una situazione già di per sé ingarbugliata, brandendo un divieto, meccanicisticamente dedotto da una prescrizione legislativa che per questo caso particolare è divenuta inadeguata”. Auspicare che un eventuale intervento sia quanto più possibile adeguato alla situazione mi pare cosa ben diversa dal proclamare l’impossibilità oggettiva di concepire un intervento adeguato. 10. La riforma delle professioni Mentre gli psicanalisti si interrogano (fra loro) intorno alla questione se il diritto possa o meno occuparsi di psicanalisi, il diritto, che - non si dimentichi - nel nostro paese non ha bisogno di chiedere a nessuno “il permesso prima di entrare”, sta procedendo tranquillamente nel suo cammino. Lo scorso anno il ministero di Grazia e Giustizia ha organizzato una serie di incontri con rappresentanti di tutte le professioni (quelle organizzate in Ordini e Collegi e quelle non regolamentate), al fine di gettare le basi di una riforma generale del settore. In riferimento agli obiettivi della riforma in esame, il sottosegretario alla Giustizia (Antonino Mirone) ha avuto modo di affermare: “Si può pensare ad una legge quadro, in cui stabilire criteri comuni a tutte le categorie, come anche a provvedimenti per ciascun settore. Al momento non si può dire quale soluzione privilegiare. Di certo c’è solo che, da una parte, si deve andare verso una maggiore delegificazione delle professioni regolamentate, in modo da dare vita ad un mercato più snello. Dall’altra, è necessario introdurre un minimo di disciplina nel vasto settore delle professioni senza Albo”25. Il ministero della Giustizia è alla ricerca di una soluzione che rappresenti una via di mezzo tra l’iperprotezionismo attuale e la deregulation selvaggia. Con un presupposto imprescindibile, però: la deregulation non può far venir meno il controllo pubblico sugli standard minimi di professionalità. Compito della riforma sarà di stabilire tali obiettivi minimi, ed al ministero pensano a una legge quadro snella, che fissi i criteri generali e lasci spazio a tipologie diverse di attività autonome. L’intento è di far confluire nel progetto anche le professioni non riconosciute, ormai più numerose di quelle dotate di un Albo. Commenta Stefano Racheli, responsabile dell’ufficio libere professioni del ministero: “L’agognato riconoscimento che le professioni non regolamentate aspettano a questo punto assume minor peso. E’ inutile, infatti, mettersi in fila per l’Albo se poi si scopre che la formula attuale è da cambiare. L’obiettivo è, allora, di capire quale schema è quello buono” 26. 11. Osservazioni conclusive L’attuale sistema di regolamentazione delle professioni è sicuramente poco adatto alle esigenze poste dalla formazione e dalla pratica psicanalitiche: tuttavia lo stesso non è né il solo possibile né tantomeno il migliore ipotizzabile. Al contrario, l’iniziativa intrapresa dal Ministero di Grazia e Giustizia mostra come, anche a livello istituzionale, si sia ingenerato il convincimento della necessità di un profondo e radicale ripensamento del sistema. La scelta che attualmente si pone agli psicanalisti è fra il partecipare attivamente, e propositivamente, alla costruzione di ipotesi di regolamentazione, accettando il confronto con le istituzioni e cercando di porre in evidenza le esigenze legate alla specificità della psicanalisi, o il rinchiudersi nel proprio circolo a proclamare, tra loro, l’impossibilità di una regolamentazione giuridica della psicanalisi. Le tecniche del diritto offrono le più ampie possibilità di concepire regolamentazioni nuove. Non voglio con ciò dire che esse troverebbero facile accoglimento istituzionale: eventuali ostacoli sarebbero tuttavia di tipo politico e non giuridico. Una cosa è certa: il punto di partenza dev’essere quello della determinazione, in seno al movimento psicanalitico, degli obiettivi di professionalità che si vorrebbero raggiungere e dei requisiti minimi che concordemente si ritiene debbano essere posseduti da chi pratica la psicanalisi, per ritenere raggiunti detti obiettivi di professionalità. Questo è in linea tanto con la tecnica di normazione attualmente prevalente in sede comunitaria, quanto con la posizione adottata in seno al Ministero di Grazia e Giustizia. L’ipotesi alla quale stiamo lavorando all’interno della Scuola di Psicanalisi Freudiana, traendo ispirazione dalla civilissima esperienza inglese, è quella dell’autoregolamentazione trasparente di scuole autonome e indipendenti, che purtuttavia tra loro si riconoscano intorno ad alcuni principi fondamentali. In sintesi: la tecnica giuridica consente soluzioni estremamente varie, e molto raffinate, come mostra la storia del diritto, dai tempi di Roma ai giorni nostri. Gli psicanalisti si sforzino di oggettivare i principi della loro formazione; ciò fornirà ai giuristi le condizioni per iniziare a riflettere intorno ad ipotesi normative adeguate. Mi auguro che il presente lavoro possa stimolare il confronto tra giuristi ed analisti, nella ricerca di soluzioni giuridiche conciliabili con lo statuto dell’analista. Per il bene della psicanalisi.
Posted on: Fri, 28 Jun 2013 15:25:09 +0000

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