SALVATORE STEFANONI SCRITTORE Maurizio Vincenti, Un refolo di - TopicsExpress



          

SALVATORE STEFANONI SCRITTORE Maurizio Vincenti, Un refolo di vento: La lingua, il linguaggio, lo stile Accostiamoci al romanzo questa volta sotto il profilo stilistico e linguistico. Nelle pagine precedenti abbiamo già avuto modo di incontrare alcune delle particolarità del linguaggio di Stefanoni, cerchiamo ora di analizzarle in maniera più sistematica. Partiamo ancora una volta da cosa ne hanno detto i suoi critici: Franco Marcoaldi, nella già citata segnalazione, apparsa sul numero del 26 Marzo 2004 di Repubblica, nella rubrica “Primi e Ultimi”, afferma di essere stato colpito, più di tutto, proprio dalla lingua che l’autore usa in modo magistrale e sorprendente: “…quel che colpisce nel libro è proprio la lingua: capace di intrecciare prosa e poesia, un italiano colto e barocco e un dialetto materico e materno, raffinatezze estreme e brucianti bassezze…” . Berardinelli parla di un linguaggio primordiale e coltissimo; altri porranno l’accento sulla ricercatezza linguistica e sul prorompente vigore espressivo; l’amico Nicola Rainò insiste sull’espressività epica e visioaria di un linguaggio che nasce da un dramma psichico profondo e non riesce a liberarsi da grovigli di parole da cui, al contrario, trae ispirazione. I dati principali ci sono già tutti vediamo ora di chiarirli meglio. Iniziamo dalle origini e i motivi di questa particolarissima espressività. Va ribadito che Stefanoni scrive questo romanzo all’indomani di un tragico episodio personale che lo spinge sull’orlo di un dramma psichico irreparabile. Ma che invece, proprio grazie alla scrittura, viene scongiurato. Questa motivazione, legata ad un uso particolarissimo del linguaggio, presente anche nelle opere successive, determinano, in questo primo romanzo, quasi un eccesso di espressività che si riavvolge su se stessa, intorno ad un iniziale corto circuito. E proprio come l’ostrica crea la perla attorno ad una pietruzza, così Stefanoni attorno a questo dramma originario svilupperà un linguaggio perverso e prezioso. Leggendo il libro si ha come la sensazione, ancora più evidente in alcune stesure intermedie, di una specie di travaglio interiore, che spinge lo scrittore a dipanare con fatica una matassa. Sembra che qualcosa si opponga ad un utilizzo lucido e sereno del linguaggio, in grado di lasciare svolgere tranquillamente le vicende, che a tratti si intrecciano come fossero sospinte fuori da un ingorgo di pensieri, un’ansia di raccontare, che non trova un agevole rivolo di sviluppo. In realtà, a questa prima impressione, approfondendo la lettura, se ne sostituisce un’altra, e cioè: l’idea di un’ansia cui il linguaggio sia vincolato non scompare, ma ci si accorge di come quest’ansia sia controllata, padrona di sé: di come cioè proprio grazie al continuo prolungato lavoro sulla pagina, l’autore si faccia cosciente di un linguaggio necessario nel suo lambiccarsi. E, questa complessità, proprio in quanto sopravvive ad un rigido controllo, ne viene sia voluta o per lo meno accettata come elemento poetico dallo scrittore. Caratterizzazione lessicale e adozione di una sintassi stratificata e a tratti dilatatoria (frasi e periodi lunghi e intrigati) sono quindi caratteristiche cercate e volute non subite. In alcune parti del libro rimane comunque l’impressione che questo controllo venga stornato. Ma nella sua economia e nella riuscita dell’opera, questi scompensi sono sicuramente marginali. Il linguaggio non mira alla verosimiglianza realistica, alla riproduzione stilizzata ma fedele di modi colloquiali coerenti, ma crea uno stile straordinariamente artefatto (in senso etimologico) ricchissimo di figure retoriche e linguistiche, di effetti speciali degni di un vero e proprio virtuoso della lingua. In questa indiavolata officina verbale, aforismi colti, pieni di un intima coscienza autorale, passano sotto le spoglie di luoghi comuni e modi di dire: “Nell’orbe terracqueo siamo tutti figli di ladri che rubano al sole il suo stesso calore … Uomini e donne prevaricano gli uni sugli altri per l’assenza precisa di un linguaggio comune: Babele è stata una volta e gli effetti si scontano ancora.” . Oppure: “Tutto è come una mela bacata che sai come è fatta soltanto quando con la lama la tagli.” . O ancora il detto: “Una candela si spegne con un unico fiato deciso” che ritorna pressoché identico dopo circa cento pagine: “Se arde, la candela va spenta con un fiato deciso.” . L’autore gioca con i suoi personaggi: “«Benvenuti e col cazzo» disse nel vestibolo Iambetta che esprimeva così, per tutti, i luoghi comuni che anche dentro di loro cantavano a fiotti.” . È un meccanismo non menzognero poiché in fondo la saggezza popolare partecipa appieno della saggezza dell’autore e in questa trova espressione raffinata e legittimazione letteraria. Vediamone un altro esempio, qui l’autore mette in bocca ad una comare del paese assolato questa gustosa metafora: “…lo trovo, oggi che è sabato, disposto alla chiacchera, che lei sa, sale come panna montata e, d’assaggio in assaggio, mi trovo ad aver sotto i denti il gelato che a volte la panna nasconde.” . Con un’espressione che Getto usa per il Pulci, possiamo affermare che anche con Stefanoni siamo di fronte ad un’avventura di parole. Ricca di termini terrosi e lucenti, modi di dire vivacissimi e incisivi. Il linguaggio costituisce un condizionamento mitico e anche le implicazioni dialettali rivelatrici di un ambientazione meridionale, non sono sufficienti a determinare una precisa geografia fisica. L’utilizzo di dialettalismi o del gergo popolare e furbesco, determinano l’appartenenza ad un meridione fiabesco e mitico, non reale. Questa irrealtà viene confermata dall’accostamento a questi, di termini letterari e ricercati, dove la parola è assaporata proprio in quanto inconsueta, disusata o abnorme nella sua dimensione violentemente espressiva con un insistenza sugli aspetti più materiali e plebei della realtà. Il principio di piacere prevale sul principio di realtà. Un dato a volte rilevato come incoerente alle varie caratterizzazioni dei personaggi è l’uniformità del loro linguaggio. Il linguaggio rimane infatti pressoché comune ad assassini, vittime, uomini o donne e allo stesso narratore-pupazzaro. Questa stonatura sarebbe tale, se si trattasse di un romanzo tradizionale. Ma abbiamo già avuto modo di rilevare come questo non sia il caso del Refolo: romanzo sperimentale, proprio e a maggior ragione, dal punto di vista del linguaggio. È infatti evidente come a parlare per i vari personaggi sia in definitiva il narratore-pupazzaro, che mette in scena un dramma di pupi di cui tira i fili e a cui dà voce. Vediamo cosa questo significhi in concreto. Iambetta e compagni, truci assassini, ti aspetteresti dai modi e dal linguaggio rozzo e grossolano, usano una lingua che è si aberrante ma capace di raffinate locuzioni. Sono assassini, come dice lo stesso Iambetta, “sempre pronti a parlare tra loro in perfetta lingua italiana” . Questo linguaggio non è sviante proprio perché i personaggi non hanno bisogno di verosimiglianza per essere credibili, godono il credito del mito e dell’epica. E questo credito lo acquistano proprio grazie ad un linguaggio che deve essere epico e quindi a-personale, svincolato dalla coerenza a caratteri e personalità che non siano quelli dell’autore-poeta. Tutto avviene in una continua confusione di piani e di voci. Chi parla? Iambetta, Peppuzzo, Arcona? È sempre e solo l’autore. Un’altra caratteristica del linguaggio è la ricorsività. Come scrive Berardinelli: “Stefanoni come in ogni epica usa gli epiteti ricorrenti, lo stile modulare, per tasselli che tornano identici.” . Il ritornello del paese assolato, o le qualifiche di questo o quel personaggio multiple e ripetute: Iambetta nella maggior parte dei casi, è anche Isidoro con una certa ciclicità, Melicchia viene chiamato invariabilmente Carmelo o uomo Taurino, Duchino è anche Ottorino. Anche le loro descrizioni fisiche tornano ricorrenti: un numero non quantificabile di volte Iambetta viene descritto con le labbra carnute e slargate e gli occhi come nerissime scheggette d’ardesia ma anche fessure (o invariabilmente feritoie). Per non parlare poi della sua gamba malandata che gli costa gli appellativi ricorrenti, con una certa ciclicità, di: gambina, peduzzo, gamba fessicchia, pencula gamba. Duchino ha il mignolo enorme e l’unghia curata e allungata. Melicchia viene descritto con termini che evocano durezza e possanza: corpo nocchiuto, possente noce del collo, mani nocchiute, fare bovino, viso di pietra, fare da toro. La locuzione: ampio culazzo di uomo ritorna sia per Iambetta che per Peppuzzo (ritornerà anche per Jesse de La rosa e la spina). Nelle descrizioni dei corpi femminili, sostantivi e aggettivi ritornano identici, variamente combinati. L’indumento che copre il torso di una ragazza su cui si fissa l’attenzione dei personaggi e del narratore, è quasi sempre un golfino leggero. Così è per la ragazza sulla bici, per Marisella, e per la breve apparizione di Bellezzina. Golfino, che copre un seno, che è o deve essere, sciolto da lacci e impacci. I seni sono: turgida carne, soda minnazza, poppine, mammelle, lattee zinnelle, tosta carnazza, mammallame perfetto, grumazzo di carne, morbidume pizzuto, poppe pulsanti, erettili seni, hanno un morbido peso e i capezzoli, che l’uomo “sapeva ancora rosati”; sono quasi sempre anfananti, come i fianchi sono sempre annacati. Gli occhi delle donne sono quasi sempre umidi: gli umidori umorali degli occhi, o il languore di questi occhioni lucenti, occhi molli, iridati, o ancora il molle lustrare degli occhi. La ripetitività degli aggettivi si trova anche nella descrizione di oggetti: ad esempio tra p. 111 e p. 119 una sedia introdotta come: “ sedia dalla spalliera dorata e rivestita di raso giallino” ritorna, per ben cinque volte, come sedia giallina durante tutta la scena e nelle stesse pagine per quattro volte viene nominata una poltrona che è sempre “bassina”. Il limone nel cortile della casa d’Arcona è sempre: l’ammalazzato limone. La piazza è sempre quadrangolare e perfetta. A volte a ritornare identici nella varianza, sono interi moduli. Gli esempi più persuasivi, riguardano: il presepe formato da un bimbo e una ragazzina sulla bici, nell’atto, del bimbo, di cercare il seno alla ragazza. Iambetta incontra questa scena a pag. 39, e per le successive dodici pagine la coppietta ritorna regolarmente con appellativi che si fanno via via più insultanti, ma simili nel restituire l’impressione iniziale: “ un altro essere inerte, portato di peso sul retro di una graziella, tastava il morbido pomo che traforava il golfino leggero a una ragazza, che difendeva con un erompente sorriso le grazie sue strutte dall’ardire innocente del bimbo.” . Bambino e ragazza ritornano nella coppia: ragazza – animalunga, poi in quella: piccola infoiata troietta – silenzioso bambino, oppure: superbo pettazzo strapazzato dalla mano indecente di un bimbo, o ancora: capezzolo imberbe della porcheriosa ragazza – ardite manine, oppure: fanciulla lordona – bimbo stronzone, o ancora: piccola stronza – smaniosa manazza di quel piccolo verme, poi di nuovo: capezzoli imberbi di quella porcheriosa ragazza – manine invadenti di un essere impubere, o ancora: laidona – disutile bimbo, boccone perduto-sacrileghe mani di un bimbo; per finire, a pag. 51, con un ultimo accenno a quella ragazza che godeva a farsi tastare dalla manina di un bimbo. Il secondo esempio è la staffetta tra i vari bel par di messeri che da pag. 187 dura fino a pag. 197. Entra, prima, in scena un par di messeri, che diventa il primo bel par di messeri all’introduzione di un secondo bel par di messeri, che a sua volta introduce un terzo bel par di messeri. Un’altra caratteristica è l’uso ripetuto, ridondante dell’aggettivazione; nelle descrizioni gli aggettivi sono sempre accoppiati: “ Era un’alta, possente figura…dal volto largo e allungato. Sotto una fronte alta e liscia e sulle labbra, che aveva carnute e slargate…dominava un naso prominente e appuntito…occhi piccoli, tondi, rilevati….” . Questo insieme alla ripetizione di suoni o parole che tornano identiche nella stessa frase, crea un ritmo e una cadenza percepibili nell’intero romanzo. Se non è musicale, grazie all’uso di ripetizioni e dell’allitterazione, questa frase: “Si vada tutti a vestire i vestiti che Veltrino è riuscito a scovare” o questa “Erano soli in quell’aria deserta e opima di occhi sgargianti che dai muri strabuzzavan robe per altri viandanti” , quasi la lunghezza di due coppie d’endecasillabi rimate. La ripetizione di parole che tornano identiche a breve distanza è quasi continua; ancora qualche esempio: “…si sbilanciò sull’anca destra, mentre con l’altra sua destra, la mano…” oppure: “…nessuno pose verbo a diverbio.” , ancora: “…disse con la voce sottile quell’uomo sottile che…” , costruzione che ritorna identica qui: “che starà facendo a quest’ora?, si chiese curioso quell’uomo curioso che era Iambetta.” . O ancora: “…ognuno riesce a spiegarsi lucidamente il perché di quei giorni e son giorni quei giorni…” . Gli esempi non si contano, vediamone l’utilizzo in un passo più esteso: la ripetizione del sostantivo: piede, a breve distanza con effetto di sottolineatura: “Tentò di familiarizzare con lo stradale lucente e di calpestarlo col piede, perché col piede posato sulla terra battuta avrebbe potuto compiere una passo. Ma ci fu che non seppe dove posare quel piede.” . O sempre in chiave rafforzativa l’uso del sostantivo silenzio affiancato agli aggettivi dimostrativi questo e quello anche usati come pronomi: “Mamma, è un altro silenzio. Questo che è sopraggiunto è un altro silenzio. Questo è quello che viene dopo le cose, quando prima di esse c’era un altro silenzio. Questo è un silenzio più peso, stordito dalle voci del mondo che pure ha messo a tacere. L’altro è un ardito silenzio, raccolto in una sua offerta inesausta . Quello dà fine alle cose, quest’altro le tiene a battesimo…” . A dare il segno di questa cadenza ciclica anche il finale del romanzo che riprendendo quasi alla lettera la formula d’apertura termina così: “…che non ci sia ancora una volta chi scriverà la storia del paese assolato chiamando quei quattro, e il nero signore che qui li ha voluti, condottieri, capi, grandi capi, capi coi cazzi.” . Da questi esempi, abbiamo potuto avere una prima impressione, anche, circa la ricchezza e ricercatezza dei vocaboli adoperati. Il lessico è vario e ricercato. La varianza è simultanea, compresente; non rilegata in compartimenti stagni. All’interno della stessa frase si affiancano: dialettalismi, arcaismi, preziosismi, termini di nuova coniatura, voci popolari e sublimi. Molto di questo si trova in un’apostrofe di Iambetta all’oste della Locanda del Sole (c’è anche il gusto per l’insistenza): “Vattene! Oste della malora, smamma, tela fuisci.” . Affianco alle voci popolari smammare e telare, quest’ultimo usato anche da Pascoli, abbiamo la voce fuisci dal dialetto siciliano fuire. Numerosi sono i termini arcaici:, ruinare, verone, stame , sbrendolo, anche più di uno in un’unica frase: “«Rifaccia quel nome» disse Iambetta garrulo e scevro di ogni bontade.” . Vi sono anche latinismi: leguleio dal latino leguleius, opima dal latino opimus, vera dal latino tardo viria, o bioccolo incrocio del latino tardo buccula (=ricciolo) con fiocco, fola dal latino fabula, o ancora furare dal latino furari, la variante letteraria carnuto, dal latino carnutus, invece di carnoso, o ludo al posto del più comune gioco, ancora l’uso ripetuto del termine busillis da un’errata e incomprensibile divisione: in die busillis della locuzione latina: in diebus illis. Qualche termine di derivazione provenzale: trovature e qualche francesismo: vaudeville o mencio dal francese mince (sottile, minuto). Ci sono poi termini poetici come serti per corone di fiori, e preziosi come impupare che Stefanoni deriva dal verbo riflessivo impuparsi (pratica di alcuni insetti di mutarsi in crisalide), e che usa per significare l’atto di abbellirsi, o forra con significato di canyon, dal longobardo fhura ‘spazio fra i solchi’. Le voci letterarie rabido (usato dall’Alfieri) per rabbioso, o disutile invece del più comune inutile. Sull’altro versante gli innumerevoli termini popolari e dialettali, dialettalismi mai destinati al folklore, termini gergali o suggestive coniature. I popolari: sucare per succhiare, rascare per raschiare, mafagna per magagna, alloppiare per addormentare. Veri e propri termini dialettali come sciana o dialettalismi: uzzolo per nodo alla gola, o come cantaro inteso come ritirata, diverso dal cantaro italiano con significato di vasca. Il regionale pedagne per piedi. Vi sono nuove coniature molto efficaci come: linguaiolarglielo per leccarglielo, gioimento per godimento e termini originalissimi e difficilmente inquadrabili come baluse che Iambetta usa per epitetare i suoi uomini o cecce nella locuzione “andare a cecce”, tipica del linguaggio familiare toscano, dal significato di ‘andare a sedersi’, specie se rivolgendosi a bambini, da una pronuncia vezzeggiativa di sesse per ‘sedersi’. Tutti i termini relativi alla sfera sessuale, che abbiamo visto l’autore confina in un orizzonte di ignominia, si caricano di una suggestione dovuta all’insistito ricorso al repertorio basso e plebeo: i verbi: sborrare, infoiare, incavallare rizzare, maniare, arrapare, o i sostantivi: ciornia, sorchetta, fica per l’organo sessuale femminile, e: mazza, verga, fava, nervulo, minchia per quello maschile. Fino agli epiteti: troietta, vacca, faiassa , sgaglia, baldracca, rivolti alle donne i cui corpi però sono poi descritti con termini quali: petroso di foscoliana memoria, o con locuzioni come: “La pelle era liscia, qualcosa l’aveva levigata per sempre.” . Questo perché abbiamo detto i registri si mischiano si confondono. Termini opposti per provenienza coesistono nella stessa coppia aggettivo-sostantivo ad esempio il rabido piscio coniuga il sostantivo piscio dal verbo pisciare (derivante dalla serie onomatopeica ps…ps) di uso popolare e materiale, all’aggettivo rabido di derivazione letteraria ( le rabide erinni dell’Alfieri) o ancora la coppia: nervulo mencio che associa il sostantivo popolare nervulo al francesismo mencio. È un linguaggio che da termini aulici e preziosi scende fino all’insulto e alla bestemmia, che ricerca anche effetti comici facendo stridere la costruzione ricca e “alta” con una materia bassa. Per restituire, quello che abbiamo detto fino ad ora: la musicalità e il ritmo, la sintassi complessa, la mescolanza di registri e di stili che creano uno modus particolarissimo è utile citare qualche riga più per esteso: “ «Dai, guardati bene allo specchio ‘sto nerume che coi suoi bottoncini va seppellendo l’avorio di questo mammellame perfetto»… S’era allicchettato anche lui, quando:«Oh!» disse, al reingresso dei due, Barsamele basito. «Era proprio ‘sto tocco ‘sta figlia infoiata che obbediva alla cieca alle tue smanazzate? Isidoro tu hai un gran bucio di culo.» Barsamele sorrise alla ragazza con le sue labbra sottili, un taglio deciso alla carne con un bisturi esatto. Fece mostra della sua chiostra di candidi denti a puntale. Uno squalo irritato, pensò allora Iambetta. Ciccio prese con la mano il mento della ragazza e lo tirò su, nell’aria fulgente di quelle mille lucine impazzite. Lei stava fumando e due grigi fili di fumo lo avvolsero con le loro morbide spire.” . O ancora un frammento dal sogno di Peppuzzo, forse il punto di più alta tensione poetica del romanzo, dove non mancano però sporcatore: “ Fu subito luce. Poi uno stradale vertiginoso per la sua ripidezza, gli rivelò l’esistenza del colle. Che era isolato nel piano che lo circondava e, ai suoi piedi, segnato a intervalli da degli ulivi che alla luce accecante del sole opponevano le ombre frangiate dei loro rami contorti. Un lucore della volta del cielo si rifletteva sulle foglie cangianti di quest’albero antico: un riflesso, a momenti, anch’esso doloroso per gli occhi che avevano incontrato la folgore e che ora trovavano più agevole, a fronte di quell’astro impazzato di luce, fermarsi a fissar lo stradale”… “Una pena infinita lo aggredì improvvisa, ma niente di certo, soltanto un ristare immobile delle sue retine sfattesi dietro un lancinante fulgore che un pum-pum pum-pum aveva reso appena un barlume di luce, distraendolo da una gioia più certa. Fu allora che un respiro impedito lo sforzò in un grido continuato che andò ad arenarsi in un fiotto di parole: fanciulla puttana vergine: che soltanto i suoi orecchi seppero ascoltare persisi com’erano tra gli anfratti mostruosi e ossessivi di quel pum-pum pum-pum fastidioso e insolente. Persino i suoi timpani, bersagliati da quel mugugno monotono, parvero perdersi per un attimo immemore dietro quelle parole che solo una lingua abilitata a più imani commerci sa articolare in modo netto e sonoro.” . L’autore ricorre largamente alle figure retoriche. Vi è quasi un uso sfrenato della similitudine, abbondano metafore e perifrasi, tutte originalissime. Vediamone alcune: “La voce lo percosse improvvisa, …, cogliendolo alla noce del collo come una greve manata lanciata sul groppone di un’esanime bestia.” o “…accollarsi gli oneri che quella voce calata dall’alto gli imponeva come a un cristo la croce.” . O ancora: “le parole son come le fole: svaniscono a fronte dei fatti compiuti” . O nelle descrizioni d’ambiente: “ La balaustra panciuta, aggettata all’infuori come il ventre sformato di una femmina pregna.” , e “Questi teleschermi anodizzati e lucenti sono come le storte e gli alambicchi di un mago” , “…le raffiche del vento pesanti come lenzuoli bagnati” . O ancora nelle descrizioni fisiche: “Sciolta ‘sta minna, come scavezzata puledra…” e “ogni poro sudora come acqua che spiccia alla fonte” o ancora: “ tu sarai, …, come una busta vacante di patatine salate nella mani d’una bimbina chiassona” . Poi ci sono le metafore: “ Il tuo arco non spicca più frecce” , “…prima che questo cazzo di tempo sboriasse in un’estenuante pisciata.” , “ il lecciso, questa pietra dolcissima, che, alla luce del sole, a tutti calcina gli sguardi.” . O ancora le già viste e ricorrenti metafore teatrali, usate da Iambetta per descrivere la sua azione di guerra: “Voi da dietro le quinte, attendete il momento in cui calcare la scena.” , “ A voi riportare vittoria. A voi guadagnare gli applausi.” . Un’altra prova dell’artificiosità (in senso etimologico) del linguaggio sono le perifrasi, che sostituendosi ad un’esposizione piana e diretta creano effetti musicali e poetici: “sono andato a trovare il fratello di un mio bel par di sorelle” . Un idea della frequenza di tale uso può essere restituita dalla numerose, differenti perifrasi che l’autore usa per significare la morte: “ mandarlo nel mondo dei più” , “disperare un umano messere” , “vasta sturna mal’ora” , “andare agli alberi pizzuti” , “tu possa accompagnarti ai tuoi morti” , “la parca malvagia che gli va accorciando lo stame” , “una certa comare, e la dicono secca, che assedia le cose e le livella a quella polvere vana che vai calpestando” , “sulla palla che gira due anime in meno” , “potrà blaterare per un altro esiguo numero d’ore” , “pacificare per sempre un umano messere” , “non veda la luce dell’alba” , “scasare dal mondo universo” , “svenargli la vita” , “godono tutti la pace del cielo” , “viaggio da cui nessuno ritorna” , “uno sbocco di sangue ti privi di ogni forma di vita” , “uomo dalle ore contate” . Interessanti sono anche i dialoghi, rigidamente non mimetici, impostati su una musicalità meridionale e cantilenante: “…le sussurrò:«Vai!» Lei lo guardò. Il petto le pulsava ancora sul petto dell’uomo. Chiese: «Come?» Lui disse: «Hai tanto scalciato». Lei si tocco i fianchi, li strusciò con le mani come volesse scacciare qualcosa. Lui disse: «È un bel gioco». Lei fece: «Ma guarda che mi tocca di fare, io che ero venuta a ballare»” . Oppure: “«Pizzicchia, hai tu provveduto?» chiese Iambetta a uno degli uomini. «Signore, gli ordini li ho eseguiti alla lettera.» «Che hai fatto in questi giorni di assenza?» «D’assenza e lavoro, signore» «Abbiam tutti sudato, coglione.» «Voglio dire , signore, perdoni, che io e i miei uomini non badammo al sudore che richiese l’impresa.» «E otteneste che cosa?» . Più avanti: “«Oggi un giorno di festa sarà»” . Oppure: “ «Oh» disse Michele Marrazzo, «ci si sente, come dire?...» «Come flosci pupazzi.» «…per l’appunto, come flosci pupazzi, quando s’arriva al busilli che volevi spiegarti e a qualcuno la risoluzione era nota da tempo.» «Hai perso l’ardire, Marrazzo?» «Non lo dire o ti spicco dal busto la testa.» «E allora, Marrazzo, cos’è sto silenzio?» «È che è ancora più grave la cosa.» «Più grave, più grave, tu dici. Ma intanto la dici la cosa?» «In lutto io vedo la gente» disse Michele Marrazzo. «Si, in lutto come…» «Come in un grande teatro davanti a un fondale intonato?» «…si, come su un palcoscenico immenso dove tutto un paese recita le sue geremiadi inascoltate e dolenti.»” . Non mancano assonanze e parole rimate nel giro di ipotetici endecasillabi. Tutto questo dimostra un’attenzione pignola dell’autore verso la lingua, il suo uso, il suo suono. Immergendosi nella lettura è inevitabile avvertire un ritmo un’onda che la sospinge. Vi è una cadenza quasi una cantilena; il grande critico Gramigna in una lettera di risposta per un parere domandatogli da Stefanoni circa il suo dattiloscritto, ne apprezza proprio la musicalità del linguaggio, ravvisando, come lui stesso dirà a meno di un’allucinazione fonica , quasi un canto in settenari ed endecasillabi nell’ attacco del libro. Forse proprio questo, il dato che più sorprende. Assieme alle storie, e per le sue storie, Stefanoni ha creato una lingua: una musicale, coltissima e infame lingua del sud.
Posted on: Sun, 01 Sep 2013 09:21:39 +0000

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