Start up ... Ok e poi? LA STAMPA 10/11/2013 BARBARA - TopicsExpress



          

Start up ... Ok e poi? LA STAMPA 10/11/2013 BARBARA D’AMICO Che ne è delle centinaia di startup finanziate ogni anno e di cui poi non si sa più nulla? Dove finiscono i milioni di euro o di dollari che investitori pubblici e privati riversano nelle idee geniali che vogliono replicare il successo di Google o Facebook? Se lo è chiesto Andrea Dusi, blogger e imprenditore veronese, che in appena cinque settimane ha creato il primo sito italiano dedicato alle startup fallite o che potrebbero fallire (e in cui si pronostica addirittura il crollo di Facebook). Su startupover l’elenco di aziende o idee apparentemente solide che di colpo spariscono dalla scena, sia in Italia che nel resto del mondo, mostra al pubblico l’altra faccia del mettersi in proprio: quella fatta di incubatori che si moltiplicano ma non sono in grado di avviare aziende, miliardari che si improvvisano investitori o business angels e regole poco chiare su come scremare le idee – migliaia – che ogni mese vengono date in pasto a eventi, conferenze ad hoc, week-end a tema. Persino la fondazione Mindthebridge, tra le più attive nel promuovere attività a favore di progetti innovativi, ha lanciato in questi giorni l’allarme: il mondo startup è a rischio bolla? I fallimenti «Tutti parlano di startup, di quanto sia entusiasmante mettersi in proprio, ma nessuno parla degli errori e dei fallimenti» spiega Dusi che è anche il fondatore di Wish days, l’azienda che ha messo esperienze e viaggi in cofanetti da vendere in libreria: un piccolo miracolo imprenditoriale nato nel 2006 e che oggi conta 120 dipendenti e 45 milioni di euro di fatturato. «Anche io ho fallito con la mia prima startup nel 2003 ma non è un buon motivo per non parlarne. Persino Kickstarter (tra le più note piattaforme di crowdfunding per idee imprenditoriali ndr) fa in modo di non mettere in evidenza i progetti che non ce l’hanno fatta: se si cerca su Google non compare niente nei primi risultati» a parte le denunce di utenti scontenti. Nel blog per ora sono riportati i casi più eclatanti, ma Dusi sostiene di aver raccolto in questi anni dettagli su almeno 1200 aziende innovative andate in fumo. Tra queste Catch Notes (app per prendere appunti, 9 milioni di dollari bruciati), Songbird (browser per musica digitale, 17 milioni di dollari bruciati), Wantful (startup che voleva fare business con la personalizzazione dei regali, 5 milioni e mezzo di dollari bruciati) ed esempi più illustri come Google Reader (della serie: anche i big possono fallire). I dati per l’Italia Secondo un recente studio pubblicato da Italia Startup (l’associazione di categoria delle neo-imprese italiane) nella Pensiola al momento ci sono 1227 imprese innovative, 113 startup hi-tech finanziate, 97 incubatori e acceleratori (64 pubblici e 33 privati), 32 investitori istituzionali (6 pubblici e 26 privati), 40 parchi scientifici e tecnologici (37 pubblici e 3 privati), 65 spazi di coworking e 33 competizioni dedicate alle startup. Numeri che però non descrivono le criticità del settore. Eppure il tasso di fallimento tra le neo aziende è molto alto. Circa l’80-85% non arriverebbe ai primi 3 o 5 anni di vita. «Il fatto che un alto numero di start-up fallisca è assolutamente fisiologico e non è necessariamente un male», spiega Giuseppe Folonari, responsabile degli investimenti in H-Farm, uno degli incubatori più noti in Italia con 52 aziende finanziate e 7 successi imprenditoriali conclamati (sua l’agenzia di comunicazione H-Art rivenduta a più del doppio del valore). «In un mercato piccolo e in crescita come quello italiano, il rischio di fallire è più grande perché ha un impatto sulla fiducia e porta a un errore di spesa sul conto economico – continua Folonari – Non credo però sia corretto parlare di bolla startup: è vero sono aumentate le richieste, ma è aumentata anche la qualità dei progetti e poi perché si crei una bolla una dovrebbe esserci una pioggia di soldi che al momento non c’è». I finanziamenti e il rischio bolla Eppure i soldi sono pronti a piovere. Nonostante la crisi. Sempre secondo le stime di Italia Startup, solo alle aziende hi-tech sarebbero andati 112 milioni di euro nel 2012 e 110 milioni quest’anno. Senza contare le dotazioni dei fondi di private equity dedicati alle startup, realtà non numerosissime ma nemmeno irrilevanti. I più noti sono Innogest (80 milioni di euro), Principia (90 milioni di euro) e 360° Capital Partners (100 milioni) ma esiste un’intera costellazione di finanziatori privati e alternativi di cui al momento non esiste una mappatura completa. Per il segretario generale dell’Italian Business Angels Association, Tomaso Marzotto Caotorta, «il rischio bolla per gli investitori al momento non c’è». «Ciò che invece preoccupa è l’attività di selezione delle idee che meritano un finanziamento. La nostra associazione valuta ogni anno circa 350 proposte ma appena il 5% riesce ad ottenere il nostro supporto economico: servirebbe un sistema di scrematura già all’interno degli incubatori. Insomma, meno startup in giro ma di maggior qualità». Pensiero condiviso anche da Michele Padovani, amministratore dell’incubatore privato Istarter (appena 9 aziende finanziate su 405 progetti analizzati). «Non credo sia un problema di capitali, che nel Paese sono presenti in abbondanza. Credo, invece, che questi vadano organizzati al meglio e messi nelle condizioni di raggiungere i progetti veramente meritevoli. Di recente l’ecosistema che ruota attorno al concetto di start-up ha fatto registrare un incremento degli attori così significativo da indurre a pensare che in questo abbia inciso anche una componente “modaiola”. Ma credo che nel prossimo futuro prevarrà la vecchia legge della natura per la quale solo i soggetti più forti sopravviveranno». Più concretezza e meno caos, dunque, eppure tutto fa pensare che nemmeno Darwin potrà smorzare il ritrovato entusiasmo degli aspiranti imprenditori italiani.
Posted on: Mon, 11 Nov 2013 07:49:46 +0000

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