Una seconda chance - Capitoli 1, 2 e 3 PROLOGO Ogni volta che - TopicsExpress



          

Una seconda chance - Capitoli 1, 2 e 3 PROLOGO Ogni volta che scendo a passeggiare in Khreschatyk Street, provo la stessa sensazione: sono vecchio. Le ragazze hanno le gambe lunghe e magre e le scarpe col tacco. Le fisso negli occhi verdi o azzurri, non abbassano lo sguardo. A volte sorrido, raramente faccio un complimento. Ne sono felici, sono fiere della loro gioventù, seduttrici nate. Eppure la loro bellezza è sfolgorante e breve, come le estati qui a Kiev. Vogliono godersela, in fondo sono nate dopo l’indipendenza, sono cresciute nel più sfrenato materialismo, dove i più forti hanno tutto e i deboli niente. Andando verso piazza Maidan, ci sono tre chioschi di gelati. Tra un chiosco e l’altro, la notte i barboni dormono accanto ai loro fagotti. Ora è sera, una babushka vende frutti di bosco dentro bicchieri di plastica. Le lascio pochi Grivnia, mi fa un sorriso sdentato. Mi sono sentito vecchio fin dalla prima volta, tre estati fa. Eppure avevo quarantotto anni, non troppi per corteggiare una ragazza, almeno qui a Kiev. Ma allora non lo capivo. Mi ripetevo che la mia vita era finita, che non potevo più aspettarmi nulla. Pavel Kisselyov era soltanto il nome di uno dei tanti oligarchi di questo strano paese e io un avvocato di mezz’età. Paola e Giulio erano morti da più di un anno. Io ero vivo, ma morivo lentamente insieme a loro, giorno dopo giorno. Continuavo a lavorare, in uno stato di trance permanente. Cercavo di andare avanti come prima, ma niente era più come prima - e non lo sarebbe mai più stato. La vita è sempre unica: quella di una farfalla come la nostra. A volte, scorre serena. Più spesso è una lotta. Qualche volta, tutto cambia in un istante. La mia vita era stata sconvolta: in un istante, ero rimasto solo. Il come è talmente banale da non meritare commenti: un macchinista ha spinto il treno a 190 km/h in un tratto dove doveva andare a 80. Il perché non lo conosco. Del resto, sono troppo colto per non pensarla come Auguste Comte sull’inutilità di cercare il “perché ultimo”. Sono rimasto solo, chiuso nel dolore. Nessuno ha il monopolio del dolore e basta ascoltare gli altri per comprendere che non c’è vita senza sofferenza. Essere solo a quarantotto anni: tardi per rifarsi una vita, presto per dedicare al ricordo gli anni che mi restano. Io sono agnostico. Paola e Giulio credevano in Dio: andavano a Santiago de Compostela in una sera d’estate e sono morti prima di arrivare. A volte mi domando se le vittime siano loro o se invece siamo noi, rimasti a piangerli. Ma non è una domanda a cui possa rispondere, è il mistero della vita. Della vita e della morte, perché non cè luna senza laltra. La solitudine era una bolla di sapone che mi aveva inghiottito: vedevo il mondo, ma non potevo più farne veramente parte. Mi giungeva leco della vita, come un rumore di fondo che non mi lasciava riposare, come il canto delle sirene, dolcissimo e irreale. Poi, una sera di luglio, è giunta la telefonata di Kisselyov. La vita è così: fino all’ultimo respiro tutto può cambiare. CAPITOLO 1 “Avvocato, ho in linea un signore che parla inglese. Non ho capito il cognome”. “Passamelo, Erika”. “Good evening, my name is Pavel Kisselyov. I’ve got your number from the Nepali Ambassador in Moscow, Mr. Gurung”. Kiran Gurung, era il mio migliore amico. Non lo vedo da vent’anni. Ascolto la storia di Kisselyov in piedi, guardando fuori dalla finestra. Mi parla lentamente, con una voce bassa, profonda. Il suo inglese è perfetto. Mi racconta di avere un problema in Italia. Il suo avvocato lo sta ricattando. Vuole un avvocato indipendente, onesto e capace. Kiran gli ha parlato di me, così ha deciso di chiamarmi. “Could you come to Kiev on Wednesday and stay till Thursday? Don’t worry about the hotel, I have an apartment downtown for my guests, just book the flight”. E’ venerdì. Apro l’agenda, anche se so che non ho più udienze fino a settembre. Gli chiedo se ci voglia un visto, risponde di no. Dico che va bene. Mi domanda la mail, per mandarmi il suo indirizzo. Poi, ci salutiamo. “Erika, per favore, vieni un attimo”. “Arrivo, avvocato”. Erika è con me da tre anni. Ha vissuto il mio periodo più difficile, dopo la morte di mia moglie e di mio figlio. Sempre discreta, mai inopportuna. Mi osserva, a volte cerca addirittura di distrarmi. Mi aiuta pensando a tutte le scadenze, riordinando i miei fascicoli, facendo le ricerche di giurisprudenza, scrivendo le prime bozze degli atti. Lavorava all’avvocatura dello Stato, era la mia avversaria in sette processi che ho vinto, uno dopo l’altro, non senza fatica. Una mattina, dopo l’ultima udienza, mi ha quasi sussurrato: “Avvocato, non ha bisogno di una collaboratrice?” Piera, la mia segretaria, aveva appena rassegnato le dimissioni per andare a lavorare come commessa nel negozio di casalinghi di suo marito: dopo un cappuccino insieme da Taveggia – il suo “tiepido con poca schiuma e molto cacao” - ho assunto Erika. “Mercoledì andrò a Kiev a conoscere questo signor Kisselyov. Per favore, occupati tu del contratto di Borghi, io tornerò in studio venerdì mattina”. “Va bene, avvocato”. Le passo il fascicolo di Borghi, lei sta già tornando nella sua stanza, obbidiente, silenziosa: “Non ora, è venerdì. Andiamocene a casa”. “Lei vada pure avvocato, io resto ancora una mezz’ora. Viene a prendermi mio padre”. Il padre è un tranviere in pensione. Tutto fiero che la sua unica figlia sia diventata avvocato, come se essere avvocato, in una paese dove gli avvocati sono duecentoventimila, fosse qualcosa che conta. “Come vuoi. Spegni tu i computer?” “Sì, certo”. “Grazie, buon fine settimana”. “Anche a lei, avvocato”. Dicono che il tempo lenisca il dolore. Io so che non è così. Non è stato così per me. Il dolore è sempre lì, straziante, come un coltello infilzato nella ferita. Cammino verso casa in questa serata di luglio sapendo che passerò il fine settimana buttato sul divano, solo. La solitudine è un anticipo di vecchiaia. Senza Paola e Giulio io sono diventato di colpo vecchio. Se loro fossero ancora qui, andremmo in montagna, da mio suocero. Giulio starebbe insieme ai suoi amici e io e Paola faremmo la passeggiata accanto al lago tenendoci per mano. Poi, tornati allo chalet, ci metteremmo insieme a cucinare, ascoltando un vecchio cd. E’ passato più di un anno, non ci devo pensare, tutto questo è finito, finito per sempre. Perché la morte è eterna, non la vita e io Paola e Giulio non li rivedrò mai più. Mio suocero si è chiuso nel suo dolore, so che vedermi lo fa soffrire. Ci sentiamo ogni tanto, un paio di volte al mese, fingendo che tutto vada bene. Non è così, la ferita è sempre aperta, dolorosa come il primo giorno. Mi fermo al bar sotto casa a bere uno spritz. “Buonasera avvocato”. “Buonasera, Fabio”. Il bar è tranquillo, i milanesi sono tutti in coda sulle autostrade, verso il mare, i laghi o la montagna. Bevo in fretta, mangiando giusto due olive e salgo a casa. Mi tolgo la giacca, vado in cucina pensando “questa volta ce la devo fare”. Apro il frigorifero, Carmen ha fatto la spesa. Sto per accendere il gas, poi, ancora una volta, il ricordo di Paola mi fa singhiozzare. Apro una busta di bresaola e una mozzarella, prendo una michetta, metto tutto sul vassoio e mi siedo sul divano, davanti alla televisione. Non posso andare avanti così. Non ce la faccio più. La mattina, accendo il computer e compro il biglietto per Kiev. Poi, cerco su Google Pavel Kisselyov: Pavel Kisselyov (in russo: Па́вел Киселёв; Kiev, 17 novembre 1966) è un imprenditore e politico ucraino. Nel marzo 2008 viene indicato dalla rivista Forbes tra i duecento uomini più ricchi del pianeta. Pavel Kisselyov è famoso al di fuori dell’Ucraina per essere il presidente e proprietario della Dynamo Kiev. Kisselyov avviò le sue attività imprenditoriali alla fine degli anni ottanta, allepoca in cui il presidente Gorbachov varò una riforma che consentiva la nascita di piccole imprese private nell’URSS. Dal 1991, anno della dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina, si dedicò alla compravendita di immobili e alla costruzione di opere pubbliche, diventando il più importante immobiliarista ucraino. Il gruppo Volya (in russo: ВОЛЯ), comprende diciassette società. Digito Volya Italia. Trovo un articolo del Sole 24 Ore dello scorso anno: “Il Gruppo Volya investe a Milano. Con un breve comunicato stampa, Michele Pietri, amministratore delegato di Rinascimento S.p.A., ha annunciato la vendita dell’immobile di Via Torino 47 e dell’area Santa Marta al Gruppo Volya. E’ la prima operazione in Italia dell’immobiliarista e politico ucraino Pavel Kisselyov, presidente della Dynamo Kiev”. Digito Pavel Kysseliov su Google immagini: ci sono una decina di fotografie, quasi tutte prese allo stadio, con la sciarpa azzurra e bianca della sua squadra. E’ un uomo alto e robusto, con i capelli a spazzola e occhi chiarissimi, dal taglio allungato. Ripenso alle sue parole: “Il mio avvocato mi sta ricattando”. Mi domando chi sia questo avvocato, spero proprio di non conoscerlo. Guardo fuori dalla finestra. E’ estate, c’è il sole. Digito Meteo Kiev: previsti trenta gradi di media, sole tutta la prossima settimana. Poi leggo qualche informazione sulla città, per ingannare il tempo. Non ho niente da fare, niente. Persino scendere a fare una passeggiata era meglio, in due. Forse dovrei cambiare casa, lasciare tutto, sforzarmi di dimenticare. Me lo sono chiesto spesso, in questo anno. Poi mi dico: “io non sono uno che scappa. Andrò avanti accettando il mio Destino, cercando di essere felice – nonostante tutto”. Del resto, la vita, per me che sono agnostico, è la nostra dimensione, l’unica occasione. Non esiste una via di fuga, l’unica alternativa è tra accettazione e rifiuto di vivere. No, non credo che mi suiciderò. Ci penso spesso, quando il coltello mi strazia la ferita. Sarebbe magnifico illudersi che la morte potesse avere gli occhi di Paola: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…”. Ma la morte è eterna e gli occhi ce li chiude. Così, tra la morte e la vita io scelgo la vita, e vado avanti. Magari il Destino mi concederà ancora un po’ di felicità, una seconda chance. Mio padre era un artigiano, e ne era fiero. Aveva studiato al Technicum di Le Locle, una delle scuole migliori del mondo – forse la migliore – per diventare orologiaio. Era un uomo gentile, tranquillo, schivo. Sempre elegantissimo: scarpe, abiti e camicie su misura, fatte dai suoi pochi amici, artigiani come lui. Il nonno, importatore in Italia degli orologi Movado, aveva messo da parte qualche soldo e regalato ai suoi due figli due appartamenti confinanti, in Via San Maurilio, a pochi passi da Piazza del Duomo. Papà e mamma ci hanno abitato tutta la loro vita insieme, lì sono cresciuto, figlio unico. Papà si è sposato a quarant’anni anni, mamma ne aveva cinque di meno. Quando sono nato, zio Giorgio aveva già venduto l’appartamento per trasferirsi a Varese, dove ha ancora un negozio di orologi e gioielli. E’ un commerciante, ignorante quanto papà era colto. A casa nostra sarà venuto una decina di volte, lui e papà erano troppo diversi per andare d’accordo. Qualche volta, da piccolo, venivo invitato alle feste di compleanno dei miei cugini, ma non li ho mai frequentati. Papà viveva in un mondo che aveva plasmato secondo le sue personalissime esigenze: laboratorio, casa, buone letture, vacanze in montagna. Odiava la confusione, la volgarità, l’ignoranza. Se aveva un difetto, era la vanità: del resto, era un bell’uomo. Mamma insegnava al liceo, filosofia. Amava Voltaire, diceva che era il filosofo più spiritoso, l’unico capace di mettere in ridicolo la bibbia con un geniale paradosso, una battuta. “E ricordati Milo, chi mette in ridicolo la bibbia, ha il coraggio di mettersi contro il mondo”. Ripeteva spesso che capire il mondo non porta alla disperazione, ma all’accettazione di ciò che siamo. Sono morti una dopo l’altro, amandosi fino alla fine. In fondo, quella casa un po’ buia di Via San Maurilio e la nostra vita tranquilla erano illuminate dal loro amore. Senza più amore, senza l’illusione che la vita abbia un altro senso che quello di alimentare se stessa, ci vuole molto coraggio ad andare avanti. Un sabato pomeriggio, avrò avuto dodici anni, papà mi portò nel suo laboratorio. Sul banco, pulito, ordinato, un Patek Philippe 1518 smontato. “Vedi Milo, questo è l’orologio più bello del mondo”. “Costa molto, papà?” “Come quattro automobili, più o meno”. “E’ molto difficile aggiustarlo?” “Sì, è composto da più di trecento pezzi, alcuni piccolissimi. Bisogna essere capaci di smontarlo e rimontarlo, senza fare neppure un graffio”. “Papà, non hai paura di non essere più capace di rimontarlo?” “No Milo, a Milano sono il più bravo a riparare questi orologi. I collezionisti lo sanno. Per questo me li portano”. Mi sorrise. Ero orgoglioso di essere suo figlio e lui lo capiva. “Vedi Milo, se vuoi essere felice, devi avere il coraggio di fare le cose difficili. Quelle facili sanno farle tutti. Ricordatelo”. “Sì papà”. Tornato a casa, corsi in cucina da mamma. “Mamma, cos’è la cosa più difficile da cucinare?” “Non lo so Milo. Forse i soufflè”. “Mamma, m’insegni a fare un soufflè?” Lunedì mattina arrivo in studio prima delle nove, come sempre. Ho un cerchio alla testa e un po’ di nausea, ma un altro fine settimana è passato. Mi sforzo di non bere, di trovare qualcosa da fare, ma alla fine bere è la soluzione più facile. Durante la settimana no, bevo uno spritz la sera e una sambuca dopo cena, nient’altro. Erika arriva appena dopo di me: “Buongiorno, avvocato”. “Ciao Erika, come stai?” “Bene, grazie”. Mi osserva, vede le occhiaie, ma non dice nulla. Senza pensarci, a bassa voce, le domando: “Erika, se tu fossi una cliente, mi affideresti un incarico importante?” “Sì, certo”. Abbasso lo sguardo e le sussurro: “grazie”. Poi aggiungo: “credo che l’incarico di quel signore ucraino sia importante. Spero di essere all’altezza”. Mi fissa. E’ la prima volta che mi lascio andare così. “Avvocato, lei dà sempre il meglio nelle cose difficili. E’ un uomo da tesi minoritaria, è capace di far giurisprudenza, come nelle sette cause contro di me”. Rido, sapendo che è vero e ripensando a mio padre. “Portami il fascicolo di Borghi, il contratto lo facciamo insieme”. La nostra memoria imprime i ricordi come fotogrammi di una pellicola. Il film completo è la nostra vita, ma nessuno lo vedrà mai, a parte noi. I miei ricordi non interessano a nessuno, non interessano più a nessuno. Questa è la vera solitudine. I miei album di fotografie, pieni dei miei ricordi, verranno buttati nella spazzatura. Nessun erede, nessun parente – eccetto mio suocero, zio Giorgio e i miei cugini, a cui di me non importa nulla. Mio figlio Giulio è morto a diciassette anni. Aveva un profilo Facebook. Per pudore, non l’ho mai visitato. Io non l’ho chiuso. In fondo è l’unica traccia della sua breve vita. Nel mio computer ho decine di fotografie di Paola e Giulio: le guardo la sera, per ricordarmi che sono stato felice. Non c’è un’altra vita, questa è la mia unica vita. Devo accettare il mio Destino, anche se non ne comprendo il significato, “il perché ultimo”. In fondo, sono soltanto un uomo, un piccolissimo essere costretto a vivere sopra una palla che gira intorno a un’altra in un ordine – se esiste un ordine – troppo grande perché io ne percepisca il significato con i miei cinque sensi. Cinque sensi, così pochi da contarli sulle dita di una mano. Niente altro, niente altro per capire ciò che siamo. Come Wittgenstein, penso che la metafisica sia priva di senso. Come mia madre, penso che la Bibbia sia un libro di favole. E tuttavia, non è stata la mancanza di fede a rendermi così triste. E’ stata la mancanza di amore, la mancanza di Paola. Se sono stato felice, posso esserlo di nuovo. Se non avessi questa speranza, non porterei la mia croce. Chissà se Kisselyov, con tutti i suoi soldi, è un uomo veramente felice. I miei genitori non sono mai stati ricchi, ma io li ricordo felici. Il volo per Kiev dura meno di tre ore. L’aeroporto è moderno, la periferia orribile. Fa caldo. In meno di venti minuti il taxista mi lascia davanti al portone di un palazzo di quattro piani, in una via stretta in leggera salita. Riconosco il nome ВОЛЯ sull’elegante targa d’ottone. Un portinaio mi indica l’ascensore, dicendomi, in inglese, quarto piano. L’ascensore è nuovo, il palazzo, probabilmente costruito alla fine dell’ottocento, completamente ristrutturato. L’ascensore si apre davanti ad una reception. Una ragazza bionda, bellissima, mi saluta con una specie di inchino: “Mr. Tocchi?” “Yes”. “Please follow me”. Cammino nel corridoio dietro di lei. Passiamo davanti a cinque o sei stanze dove giovani impiegati lavorano alle loro scrivanie. L’ultima porta a sinistra è chiusa. La ragazza bussa, poi apre, senza attendere una risposta e si fa da parte, facendomi cenno di entrare. Kisselyov si alza in piedi, restando dietro la sua scrivania, e mi porge la mano. Due grandi finestre alla sua sinistra si affacciano su un giardino che non avevo notato scendendo dal taxi. E’ alto, lo sapevo. La sorpresa è lo sguardo: ha occhi verdissimi, da gatto e mi fissa restando in piedi. E’ molto elegante, abito gessato fumo di londra, camicia azzurra col collo all’inglese, probabilmente di Thurnbull & Asser, mocassini neri. Ci sediamo e, lentamente, inizia a raccontarmi la sua storia. Un anno e mezzo prima, a una festa a Montecarlo, aveva conosciuto l’Avvocato Cesare Carpi. Mi domanda se io lo conosca e rispondo di no, mai sentito nominare. Mi spiega che è un avvocato romano, specializzato nella compravendita di immobili, soprattutto alberghi. Alla festa, Carpi gli aveva chiesto un appuntamento, per proporgli un investimento a Milano e lui aveva accettato volentieri d’incontrarlo, perché Milano è una delle sue città preferite, viene spesso al Four Seasons per fare shopping in Via Montenapoleone. Fa una pausa e sorridendo aggiunge, indicandomi con la mano, che gli uomini italiani sono i più eleganti del mondo. L’investimento consisteva nell’acquisto di una società immobiliare, proprietaria di uno stabile vicino a Piazza del Duomo e di un’area edificabile lì accanto, in pieno centro. Il prezzo richiesto, ventidue milioni di Euro, era quello di mercato, ma Carpi aveva contatti in Comune che avrebbero consentito di recuperare il sottotetto dell’immobile e di avere un aumento della cubatura, con un incremento di valore di almeno tre milioni di Euro. Aveva richiesto a Kisselyov un incarico scritto, in inglese, dove aveva quantificato l’importo dei suoi compensi, 60.000 Euro di anticipo – comunque dovuti - e 600.000 Euro a conclusione dell’operazione, a titolo di success fee. Kisselyov aveva studiato la documentazione e, dopo un nuovo incontro a Milano, una visita dell’immobile ed una due diligence sulla società immobiliare fatta da una nota società di revisione, aveva concluso l’operazione. “Vede, per me era un piccolo investimento. Non è stata la prospettiva di guadagno che mi ha fatto decidere, ma la voglia di avere una scusa per venire a Milano, ogni tanto”. “La capisco, i soldi non sono tutto, nella vita”. Mi osserva attento e annuisce. Naturalmente, la parcella di Carpi – 660.000 Euro - era stata pagata insieme al prezzo della società. Dopo una settimana, Carpi gli aveva telefonato domandandogli un nuovo appuntamento, per discutere i dettagli della prosecuzione del suo lavoro. Aveva chiesto un nuovo incarico scritto – in italiano perché rilasciato dalla società immobiliare italiana, “necessario per mostrare alle autorità competenti che sono il vostro mandatario”, questa volta senza indicare l’importo dei suoi compensi, ma garantendo che sarebbero stati “pochi spiccioli”, perché lui conosceva il responsabile del Settore Edilizia Privata del Comune di Milano e gli sarebbe bastato presentare un progetto firmato da un uomo di sua fiducia per ottenere sia il recupero del sottotetto che l’aumento della cubatura. Da quel momento erano iniziate le richieste di soldi. Le prime due volte Kisselyov aveva versato 100.000 Euro in nero a Montecarlo, per “gli amici in Comune”. Poi Carpi aveva chiesto altri 100.000 Euro e Kisselyov si era infuriato. Così Carpi – nella stanza del Four Seasons - lo aveva ricattato: “o mi dai altri 300.000 Euro, o io ti metto contro il Comune di Milano”. Kisselyov lo aveva messo alla porta: in fondo, poteva permettersi di dimenticare l’investimento. Due mesi e due lettere di diffida più tardi, Carpi aveva inviato una nota pro forma per l’importo di 323.000 Euro alla società italiana, sostenendo di avere “svolto una complessa attività professionale finalizzata al perfezionamento di un’importante operazione immobiliare nel centro di Milano”. Kisselyov non voleva pagare. “Per me è una questione di principio. Non è certo per l’importo, peanuts, ma per non darla vinta a quel prepotente di Carpi”. Avrei dovuto bloccare la richiesta. Cerco di non darlo ad intendere, ma sono deluso. Mi aspettavo che si trattasse di qualcosa di importante e invece è una sciocchezza. Una causa del valore di 323.000 Euro… Abbasso lo sguardo e Kisselyov, come se mi leggesse nel pensiero, aggiunge: “Carpi mi ha già rubato 200.000 Euro. Mi ha minacciato e ricattato. Per me è una cosa importante”. Mi fissa serissimo, poi si alza e mi invita a seguirlo: “ora andiamo a mangiare”. Chiama la segretaria, le dice qualcosa e usciamo dall’ufficio. In strada, proprio davanti al portone è parcheggiata una Ferrari 612 Scaglietti col motore acceso. Un ragazzo tarchiato – di certo una guardia del corpo – gli apre la portiera. Salgo anch’io e Kisselyov – indossato un paio di occhiali da sole Persol PO 714 – parte accelerando nella via in salita. “So cosa sta pensando, che una Ferrari dovrebbe essere rossa”. “No, la sua è magnifica”. “Vede, sono il presidente della Dynamo Kiev. L’ho voluta dei colori della mia squadra”. “Azzurro interni sabbia, davvero bella”. “Le piace il calcio?” “Sì, ma non sono un tifoso. Sono anni che non vado allo stadio”. “Milan o Inter?” “Milan”. “Allora abbiamo qualcosa in comune: Andriy Shevchenko”. Sorrido, “sì, indimenticabile”. “Se le fa piacere, questa sera può venire con me allo stadio. C’è una partita importante, almeno per me, giochiamo contro lo Shaktar Donetsk”. “Volentieri”. “E’ mai stato a Kiev?” “No, è la prima volta”. “Posso permettermi di organizzarle un piccolo tour della mia città?” “Volentieri, Lei è molto gentile”. Telefona a qualcuno, sento che discute. “Tutto organizzato. Dopo pranzo la accompagnerò nel suo appartamento. Alle quattro verrà a prenderla una signora che le farà vedere la città e poi la porterà direttamente allo stadio”. Il centro della città è molto bello. Giunti ad una grande piazza davanti ad una basilica ortodossa, Kisselyov mi mostra una fila di palazzi gialli con stucchi bianchi e mi dice: “Il mio primo investimento, appena prima dell’indipendenza. Quando ero soltanto un ragazzo che sognava l’Italia. Vede, l’America era il nostro nemico – mio padre era un ufficiale dell’Armata Rossa, morto da eroe in Afghanistan”. “Mi dispiace”. “Sono rimasto orfano a quattordici anni, mi ha cresciuto mia madre. Lei ha ancora i genitori?” “No, sono morti da molti anni ormai”. “Triste. Avere una famiglia è importante. Ha figli?” Abbasso gli occhi: “Avevo un figlio, ma è morto insieme a mia moglie in un incidente”. “Terribile. Perdoni la mia curiosità”. “Non si preoccupi”. Dopo un attimo d’imbarazzo, come per riallacciare il discorso, domanda: “Ha un bellissimo orologio, di che marca è?” Sorrido, per fargli capire che l’imbarazzo è passato: “E’ un Claude Meylan una piccolissima manifattura artigianale. E’ l’orologio più simile a un Patek Philippe 1518 che io potessi permettermi. Il meccanismo di base – ébauche – è lo stesso. Mio padre era un orologiaio e io sono diventato molto competente, un po’ per farlo felice, un po’ per passione”. Mi osserva stupito: “Si vede che era un bravo ragazzo. Mi piacciono gli orologi, ma non ho nessuna competenza. Magari un giorno m’insegnerà qualcosa”. “Volentieri, se le fa piacere”. Arrivati davanti a un ristorante con una terrazza all’aperto, Kisselyov lascia la Ferrari con le chiavi nel cruscotto e scendiamo. In un attimo, da un’automobile che evidentemente ci seguiva senza che me ne accorgessi, scende lo stesso ragazzo tarchiato di prima, sale in macchina e la porta via. Una signora viene ad accogliere Kisselyov all’ingresso e gli fa strada verso un tavolo d’angolo. “La nostra cucina è molto semplice, zuppe – come il borsc, ravioli - che qui chiamiamo varenyky, carni arrosto”. “Non si preoccupi, mangio di tutto”. “Allora le farei assaggiare dei ravioli e un arrosto ussaro”. “Perfetto, grazie”. “Scelga lei il vino e mi raccomando, non si preoccupi del prezzo, il ristorante è mio”. Sorrido e rispondo: “io bevo pochissimo, se per lei va bene, preferirei una birra”. “Buona idea, le farò compagnia. Qui a Kiev abbiamo un’ottima Weiss”. Chiama un cameriere e ordina, cortese ma deciso. In un attimo abbiamo davanti due grandi boccali di Weissbier. Lo osservo mentre beve il primo sorso: è un uomo di poco più di quarant’anni, bello e ricchissimo. Di nuovo, mi domando se sia felice. Mi racconta del suo primo viaggio a Milano, di come sua madre, che ora abita in una villa sul Mar Nero, fosse emozionata all’idea che suo figlio sarebbe stato all’Ovest, nella città di Celentano. Mi confessa sottovoce, quasi fosse un gran segreto, di essere stato molto aiutato da amici di suo padre, che gli fecero avere i primi finanziamenti per i suoi investimenti. “Vede, l’Ucraina non è un paese come gli altri. Siamo nel mezzo, tra la Russia e l’Unione Europea. Dipendenti da Mosca per l’energia, ma rivolti a Ovest nella speranza di entrare a far parte a pieno titolo del mondo occidentale. Prima o poi dovremo decidere da che parte stare, e non sarà una scelta facile. Per L’Europa siamo l’ennesimo paese povero che bussa alla porta, per la Russia poco più di una ex colonia”. “Lei da quale parte vorrebbe stare?” “Io vorrei che l’occidente allargasse i suoi confini fino alla Russia, ma so che non è possibile, non ora. Vede, il nostro è il secolo dell’Asia. L’Europa è ancora un modello per il benessere diffuso, la tutela dei diritti, il welfare state e molte altre cose, come il buon gusto di voi italiani, ma io sono un imprenditore. Vivo nel mio tempo e approfitto delle opportunità che le generazioni di mio padre e dei miei nonni non hanno avuto: compro i miei abiti a Milano, faccio affari con tutti ma, onestamente, se devo scegliere scelgo la Russia. Un’Europa in crisi non può aiutare il mio paese, i problemi sono troppo grandi. Poi, in fondo, sono quello che voi chiamate un oligarca. Capisco perfettamente che non sia giusto vivere in un paese col quaranta per cento di disoccupazione e un reddito pro capite pari a poco più di un quinto di quello italiano, ma io non posso farci nulla”. Avrei voglia di fargli qualche domanda sulla tassazione. Ma non voglio sembrare scortese, sorseggio la mia birra e annuisco. “So di essere stato molto fortunato, ma non deve pensare che sia stato facile. Ho colto tutte le occasioni, rischiando ogni volta. Ma soprattutto vivo la mia vita come se da un momento all’altro tutto potesse cambiare: un cambio di governo, una nuova rivoluzione, qualcosa di straordinario che mi porti via quello che ho accumulato. Per questo, come tutti i ricchi prudenti, investo una parte del mio patrimonio in paesi economicamente e politicamente stabili. Se non potrò restare a Kiev, verrò a Milano, Londra o Montecarlo, come tanti miei amici hanno già fatto. Ma io amo Kiev, mi piace la mia gente. Poi, tutti mi conoscono, perché sono il presidente della Dynamo Kiev. La fama è qualcosa a cui credo che sia difficilissimo rinunciare”. “In un attimo, tutto può cambiare signor Kisselyov, è così. Ma questa consapevolezza non deve impedirci di cercare di essere felici”. Mi fissa negli occhi, ha capito che alludo alla mia vita: “La felicità a volte ci è data e a volte ci è tolta. La vita è una ricerca di equilibrio nel continuo movimento”. “E’ così, perpetuum mobile”. “La ricchezza, naturalmente, mi dà molte possibilità. Sono padrone della mia vita in un paese dove la maggior parte delle persone inizia soltanto adesso a viaggiare. Posso permettermi qualche svago e qualche giocattolo molto costoso. Ma se sono felice – a modo mio, naturalmente - è perché sono orgoglioso di essere Pavel Kisselyov”. Abbasso gli occhi, mi sembra di risentire mio padre: “Mio padre era soltanto un artigiano, ma era orgoglioso di essere un bravo orologiaio. E credo che abbia amato mia madre fino all’ultimo respiro. Io lo ricordo felice”. “Anche il mio lo era. Brindiamo ai nostri padri”. Dopo pranzo, Kisselyov mi accompagna, per la prima volta, all’appartamento in Khreschatyk Street. “Spero che si trovi bene. Ha un’ora per riposarsi, poi verrà la sua guida. E, se lei accetta l’incarico, le farò portare tutta la documentazione”. Gli stringo la mano dicendogli senza esitazioni: “accetto con piacere e la ringrazio”. Non potevo sospettare che quell’incarico, apparentemente così semplice, avrebbe cambiato per sempre la mia vita. L’ingresso è nel cortile. Sulla sinistra, c’è un night club. Il palazzo avrà cento anni, forse di più. Non c’è ascensore. La portinaia mi ha consegnato le chiavi e mi ha detto: “third floor, left” in un inglese stentato. Le scale sono spoglie, in pietra scura, ma pulite. Il pianerottolo è piccolissimo, la porta a sinistra blindata. Sopra la porta, una telecamera. Mi domando se ce ne siano anche all’interno, magari nascoste. Entro e mi trovo in un trilocale: due camere matrimoniali identiche, salotto con un grande divano e uno schermo al plasma appeso alla parete, cucina e un solo bagno. L’arredamento è quello di una lussuosa camera d’albergo, un terrazzino si affaccia sul cortile. Fa freddo, il termostato dell’aria condizionata è impostato su diciannove gradi. La spengo e apro la finestra della camera dove ho scelto di dormire: dà verso l’interno, mi sembra più silenziosa. Alle pareti fotografie di Kiev: mi colpisce quella in salotto: una statua di Michail Bulgakov. Il bagno è nuovo, piastrelle azzurre e sanitari italiani. Faccio una doccia e mi sdraio sul letto, restando per un po’ a guardare, fuori dalla finestra, un cielo azzurro senza una nuvola. Kisselyov mi è simpatico. Ho evitato ogni domanda troppo personale, ogni osservazione che potesse offenderlo. Eppure sono curioso di sapere come vive, cosa vuol dire davvero essere un oligarca. Ripenso alle sue parole: “Se sono felice – a modo mio, naturalmente - è perché sono orgoglioso di essere Pavel Kisselyov”. Non avevo mai compreso, fino ad oggi, la felicità che si può provare quando si è qualcuno – qualunque cosa voglia dire. Successo, fama, ricchezza, orgoglio uguale felicità. Non credo che sarebbe così, per me. Io sento il bisogno di amare, condividere. Per questo, senza Paola e Giulio, da un anno muoio lentamente. Quando suonano alla porta, sono ancora sdraiato sul letto, in mutande. “One moment, please”. Infilo camicia e pantaloni e vado ad aprire. Mi trova davanti una ragazza di circa trent’anni, bionda, alta quasi quanto me (un metro e ottanta), occhi azzurri. Indossa una gonna corta e una camicia bianca, scarpe col tacco. Si presenta: “Larissa, nice to meet you Mr. Tocchi”. La faccio accomodare sul divano e vado a pettinarmi e a lavarmi i denti. Mi guardo nello specchio: ho quarantotto anni. I capelli iniziano a ingrigire, ho le occhiaie di chi non dorme abbastanza e le rughe attorno agli occhi. Ricordo una frase di mamma, una sera prima di andare a teatro. Papà era in bagno, si pettinava con calma: “Muoviti Massimiliano, nessuno è bello da vecchio”. Forse è vero, non ci ho mai riflettuto. Sono vedovo da più di un anno, non ho mai pensato a una donna che non fosse Paola, non in quel modo, almeno. Larissa è bellissima. Troppo giovane, certo. Mi ero assopito, deve essere l’eccitazione del risveglio improvviso. Torno in salotto e insieme scendiamo le scale. Io dietro di lei, stordito da quelle gambe lunghe, dagli occhi azzurri e dal suo profumo. Ci aspetta una Honda Accord nera, parcheggiata nel cortile. Saluto l’autista che tiene aperta la portiera e partiamo per visitare la città. Larissa mi domanda se abbia voglia di camminare e le rispondo di sì. Arrivati alla base di una collina, l’autista ci lascia ai margini di un parco. Entriamo a piedi e percorriamo una strada ripida all’ombra di grandi alberi. Larissa mi racconta la storia di Kiev, la fondazione nel nono secolo, da parte di un popolo vichingo, i Rus’, l’arrivo dei Cosacchi, nomadi stabilitisi vicino ai grandi fiumi, il Don e il Dnepr, i legami e i contrasti con la Russia. Ascolto, ma avrei voglia che mi raccontasse la sua vita, le sue speranze, i suoi amori. Dalla cima della collina, si domina la città, costruita su una grande ansa del Dnepr. Si vede persino una spiaggia, attrezzata con sdraio e ombrelloni. Arrivati davanti a una statua – due vecchi che si abbracciano – leggiamo l’incredibile storia di due prigionieri di guerra durante la seconda guerra mondiale, lui italiano e lei ucraina, che si sono ritrovati cinquant’anni più tardi grazie a una trasmissione televisiva dove, davanti al pubblico in lacrime, hanno confessato di essersi amati per tutta la vita, nonostante la separazione forzata e l’incapacità di ritrovarsi. Larissa si commuove. E’ un attimo, vorrei prenderle la mano, abbracciarla. Poi penso a Paola, a quel “per tutta la vita”. Le lacrime iniziano a scorrere e ci fissiamo così, in imbarazzo, con i fazzoletti in mano. Le domando scusa e aggiungo che gli italiani sono romantici. Mi sorride e sussurra: “Anch’io”. Le domando se abbia voglia di un gelato, annuisce indicandomi un piccolo chiosco di legno. Così ci ritroviamo seduti su una panchina, a mangiare due gelati identici. Trovo il coraggio di chiederle se sia sposata e mi risponde, illuminandosi del suo più bel sorriso: “Sì”. “L’amore è la cosa più importante, l’unico vero conforto nella nostra vita, Larissa”. Di nuovo, mi dice solo “Sì”. “Per tutta la vita”, Paola e tu sei morta. Ma se mi sbaglio e sei qui al mio fianco, perdonami. Se mi sbaglio, avrò modo di spiegarti. O forse tu mi capirai. Finiamo il gelato e torniamo all’ingresso del parco, dove ci attende l’autista. Passandoci davanti in macchina, Larissa mi mostra piazza Maidan, quella della rivoluzione arancione, poi svoltiamo a destra e saliamo verso un’altra grande piazza da cui si accede al monastero di San Michele e scendiamo di nuovo. Non entro in una chiesa dal giorno del funerale, ho un attimo di esitazione. Larissa mi fa un sorriso e si copre i capelli biondi con un velo. Somiglia a Julie Christie nel film “Dottor Zhivago”. Mi dà coraggio, entriamo insieme, passando dalla luce del pomeriggio d’estate all’interno in penombra, completamente affrescato. La osservo farsi il segno della croce – al contrario, all’ortodossa. Paola, anche tu portavi il velo il giorno del matrimonio ed eri magnifica. Quanto sarebbe meglio, almeno per un attimo, credere in Dio, illudersi che la morte tua e di Giulio abbia un senso. Tossisco per mascherare un singhiozzo, non ce la faccio, devo uscire. Larissa mi domanda se sia stanco. “No, anzi, avrei voglia di camminare un po’”. Così passeggiamo fino ad una via in discesa e arriviamo alla casa di Bulgakov, a quella stessa statua che ho visto nella fotografia in salotto. Poi, in auto, scendiamo fin quasi al fiume, diamo uno sguardo ai nuovi alberghi – sorti, mi dice, al posto di vecchi magazzini – e andiamo verso lo stadio, dove mi aspetta un inviato di Kisselyov con una vistosa auricolare. Salutandoci, cerco di darle cinquanta Euro, ma Larissa li rifiuta con decisione. Vengo accompagnato fino alla tribuna, dove Kisselyov è circondato da addetti alla sicurezza. Mi vede, fa cenno di aspettare – cortese, sorridente – e continua a impartire istruzioni. Dopo qualche istante viene a stringermi la mano: “Mi scusi, ma c’è un po’ di confusione. All’ultimo momento il Primo Ministro mi ha comunicato che verrà allo stadio. Purtroppo non potrò farla sedere al mio fianco”. “Si figuri, è già stato fin troppo cortese”. “Dopo la partita, spero per festeggiare una vittoria della Dynamo Kiev, ma altrimenti per consolarmi della sconfitta, porterò alcuni ospiti al night sotto il suo appartamento. Se vuole unirsi a noi, mi farà piacere.” Lo guardo sorridendo e domando: “E’ suo anche il night?” Ride di gusto e risponde pronto: “No, ma è mio inquilino. Diciamo che quello che spendo quando porto gli amici è un aiuto a pagarmi l’affitto”. “La ringrazio, ma sono un po’ stanco, credo che me ne andrò a letto”. “Come vuole. A che ora riparte domani?” “Alle quattro del pomeriggio”. “Vuole che le mandi un autista?” “Non c’è bisogno, i taxi sono proprio all’angolo”. “Allora non ci resta che salutarci. Dopo la partita – comunque vada a finire - ci sarà un po’ di confusione. In caso di vittoria, farò un salto negli spogliatoi. Le carte sono già nella sua stanza: conto su di lei”. “Grazie signor Kisselyov, è stato un piacere conoscerla, l’aspetto a Milano”. “Grazie a lei avvocato, buon viaggio. E tifi per la mia squadra, mi raccomando”. Ci stringiamo la mano, guardandoci negli occhi. Poi, vengo accompagnato al mio posto, tre file sotto Kisselyov. Pochi minuti prima del fischio d’inizio, arriva il Primo Ministro, scortato da quattro guardie del corpo. Vince lo Shaktar Donetsk. Non andavo allo stadio da vent’anni. Mi ero scordato la sensazione di quarantamila persone insieme. Dimenticare tutto il resto per novanta minuti, gioire o soffrire insieme, annullarsi nella massa. E poi il night, la festa, l’alcol, le donne. Giulio, anche questo è essere un uomo: ero tuo padre, ma non ho saputo insegnartelo. Troppo preso dal lavoro, troppo chiuso in me stesso, troppo snob, forse. Così, in una sera d’estate hai preso quel treno insieme a tua madre. E io non avrò una seconda chance. La mattina, appena sveglio, leggo le carte. Non trovo niente che giustifichi la richiesta di Carpi, provo a abbozzare una risposta alla sua lettera. Poi, alle dieci, mi viene voglia di un caffè ed esco, in camicia, senza giacca e cravatta. Percorro Khreschatyk Street. Prima di Piazza Maidan volto a destra in una via in salita. Passo due bar molto eleganti, con grandi verande sul marciapiede e arrivo a una piazza. Mi siedo al tavolino di un bar in mezzo a due grandi birrerie e ordino un espresso e un croissant. Mi sento in vacanza, stranamente rilassato e felice. Per la prima volta, da questo tavolino così lontano da casa, vedo la mia vita da un’altra prospettiva. Mi rendo conto, senza capire il perché, che mi dispiace partire. Ma la mia vita è a Milano. E ho una nuova pratica di cui occuparmi. CAPITOLO 2 Apro la porta di casa e – di colpo – la solitudine mi assale. Mi manca il respiro, a fatica arrivo al divano. Con la testa tra le mani inizio a singhiozzare, sempre più forte. Ho orrore di tutto: dell’insensatezza della vita, dell’ingiustizia del Destino. Cerco di calmarmi, mi verso un bicchiere di Sherry: in dieci minuti finisco tutta la bottiglia. Non voglio dormire nella camera da letto di Paola. A fatica trascino in sala il materasso del letto di Giulio, mi spoglio e resto, per un po’, nudo, sdraiato al centro della stanza, a fissare il soffitto. Se avessi in casa un’arma, credo che mi sparerei. Certo, potrei buttarmi dal balcone, ma sfracellarmi nel cortile è una morte che mi ripugna. Sorrido, sono ubriaco. “è una morte che mi ripugna”, sai quanto me ne frega da morto di come mi ritrovano. No, forse non ho voglia di morire. Mi salva la vita il pensiero che non ci sia nulla oltre la vita. Assurdo. E’ tutto assurdo – anche cercare di capire. Apro la porta finestra, esco sul balcone – nudo - e vomito cadendo in ginocchio, poi a quattro zampe, come un animale. Guardo di sotto, mormoro “vaffanculo”, torno in sala e mi ributto sul materasso, in posizione fetale. Ho smesso di piangere. Non provo più nulla. Mi gira la testa, ma il peggio è passato. “Buongiorno, avvocato”. “Ciao Erika, cosa ci fai qui così presto?” “Questa sera vorrei uscire un po’ prima”. “Vai al mare?” “Sì”. “Brava”. Mi fissa: “Si sente bene? E’ molto pallido”. Cerco di sostenere il suo sguardo: “Sono un po’ stanco, ma sto bene”. “Non mi racconta niente di Kiev?” “Kiev è una bellissima città e quel Kisselyov mi è simpatico, ma l’incarico è proprio una stupidata. Dobbiamo evitare che un nostro collega romano, un tale Cesare Carpi, si faccia pagare attività che non ha svolto. Gli sto giusto scrivendo”. Lo dico per giustificare di essere seduto alla scrivania alle otto e un quarto, ma non è vero. Sono qui da mezz’ora perché non ce la facevo a stare a casa. Speravo di addormentarmi alla scrivania – io che non dormo neppure in aereo. “Posso fare qualcosa?” “Sì, per favore. Prepara un’istanza all’Ordine degli Avvocati di Roma, domandando di essere convocati nell’ipotesi in cui Carpi chieda la liquidazione della parcella. Poi, se hai voglia, cerca qualche informazione su questo Carpi, io tra un’ora chiamo Antonio Sigillò”. Antonio Sigillò è un avvocato cassazionista, mio corrispondente a Roma. “Va bene, avvocato. Le ho messo la posta lì sulla scrivania, si ricordi di aprirla”. Esce, silenziosa, efficiente, umile. Non potevo trovarmi una collaboratrice migliore. Do un’occhiata alla posta: la bolletta della luce, una pubblicità delle Edizioni Giuridiche e un invito - che non apro, non li apro mai. Alzo il telefono e chiamo il suo interno: “Mi dica, avvocato”. “Scusami, hai mandato il contratto a Borghi?” “Sì, certo”. “Pensi che ci pagherà?” Ride: “No, penso di no. Deve incassare 800.000 Euro dal Ministero, ma mi ha detto che non ha nemmeno i soldi per pagare gli stipendi”. “Beh, non preoccuparti. Io lo stipendio te lo pago lo stesso”. Rido – da solo – poi proseguo: “La prossima settimana andrò a Bergamo a trovarlo. Voglio capire se ci prende in giro o è davvero messo così male. Cercherò di fare quattro chiacchiere con Tosi”. Tosi è il direttore finanziario. Leggo le notizie Ansa: nulla che mi interessi. Apro una bozza di documento e inizio a scrivere la lettera a Carpi. Le mani tremano sulla tastiera. Ho mal di testa. Inizio a tradurre la lettera in inglese, per Kisselyov. Sono stanco. Smetto un attimo e mi alzo per andare a bere un bicchier d’acqua. Mi risiedo e meccanicamente, tanto per fare qualcosa, mi ricollego al sito Ansa, dimenticandomi di averlo già visitato. Me ne ricordo rileggendo le stesse notizie e ho uno scatto di rabbia: spezzo una matita. Devo calmarmi. Inspiro profondamente e trattengo il respiro. Congiungo le mani e chiudo gli occhi. Bruciano. Mi vengono in mente le parole di Contro vento di Malika Ayane: “Gli occhi bruciano Niente Vedono, Solo quello che c’è … Cambierà Schiena dritta Contro il vento E si vedrà, Spioverà intorno a te”. Sono stato felice. La mia vita sembrava avere un senso. Non devo dimenticarmelo. Se voglio vivere devo accettare il mio Destino: “Cambierà”. “Erika, scendo un momento, vado a bere un caffè. Vuoi venire?” “Ma avvocato, e se telefona qualcuno?” “Richiama, che problema c’è?” Sento che arriva, sorridente. Quattro passi e siamo da Marchesi, davanti al mio caffè e al suo cappuccino “tiepido con poca schiuma e molto cacao”. “Dove vai al mare?” “Ad Arenzano, è il posto più vicino”. “E’ bello? Non ci sono mai stato”. Alza le spalle e fa una smorfia. Ha i baffi di cacao. Sorrido e glielo dico. Si pulisce con cura, poi mi risponde: “Non è l’Abruzzo”. Annuisco e non commento, sapendo quanto sia attaccata al suo paese. Poi mi domanda, quasi si vergognasse: “Ha deciso dove andare in vacanza?” Rispondo subito, fingendo indifferenza. Lo scorso anno sono stato una settimana a Parigi e il resto di agosto chiuso in casa: “Vorrei andare in montagna, ma non da mio suocero. A Bormio, dove andavo da bambino. Tu cosa fai?” “Vado dai nonni, come al solito. Mio padre ha promesso di imbiancare casa”. “Lui è un uomo utile, non come noi avvocati”. Camminando per tornare in studio, vedo che la farmacia è aperta ed entro a comprare una scatola di aspirina. All’ora di pranzo, la lettera a Carpi è pronta, in italiano e in inglese e Erika ha fatto la prima bozza dell’istanza all’Ordine degli Avvocati di Roma. L’avvocato Antonio Sigillò era fuori studio e mi richiamerà nel pomeriggio. Da Borghi andrò martedì. “Ciao Milo, come stai?” “Bene, grazie”. “Spero che sia vero. Guarda che io e Caterina ti aspettiamo a Roma, abbiamo voglia di vederti”. “Grazie, Antonio, salutamela”. “Hai bisogno qualcosa?” “Sì, ho ricevuto un incarico da un signore ucraino. In due parole, si è fatto assistere nell’acquisizione di una società immobiliare da un certo avvocato Cesare Carpi, del Foro di Roma. Lo conosci?” “Sì”. Proseguo: “Ora Carpi – che è già stato pagato la bellezza di 660.000 Euro - pretende altri 325.000 Euro per un’attività che non ha svolto. Che tipo ti sembra?” Sento che prende tempo, poi, serio: “E’ un avvocato emergente, molto legato alla politica”. “E’ socio di qualche grande studio?” “No, non ne ha bisogno. E’ un cane sciolto, un opportunista”. “Antonio, da quello che ho visto, è un disonesto. Vorrei fare un’istanza all’Ordine, l’ho già predisposta i bozza. Pensi che sia una buona idea?” “Sì, certo. Ma io non mi aspetterei molto, qui a Roma. Sai come vanno le cose, cane non mangia cane”. “Antonio, posso metterti in procura?”. Sento squillare la seconda linea. “Sì, se pensi che possa esserti utile”. “Grazie, sei un amico. Ti mando la bozza, così mi dici se va bene”. “Come vuoi. Grazie a te”. Resta un istante in silenzio. Poi aggiunge: “Sono contento di averti sentito. E soprattutto contento di avere un’occasione per rivederti”. “A presto, Antonio. Un abbraccio”. Abbasso il telefono e penso che è davvero un amico. Settantaquattro anni, una carriera magnifica. Eppure è sempre disponibile, cortese. Ed è onestissimo: le sue parcelle sono quasi ridicole, nella loro analitica precisione – fotocopie Euro 0,80 – e di importi vicini ai minimi della tariffa. Sì, è un amico e lo rivedrò davvero con piacere. L’amicizia, in fondo, è importante quanto l’amore. Faccio l’interno di Erika: “Chi era al telefono?” “Suo zio”. Resto un istante in silenzio: strano, zio Giorgio non mi chiama mai. Deve essere successo qualcosa di grave. “Ha lasciato il numero?” “No, mi ha pregato di dirle che ci tiene che lei ci sia, domenica?” Non capisco: “Ci sia dove?” “Non lo so avvocato, mi dispiace”. Non ho il numero, ce l’ho sull’agenda di casa. Poi mi ricordo dell’invito e lo apro. Domenica gli zii festeggeranno le nozze d’oro. Sul cartoncino dell’invito, molto formale, c’è un’aggiunta a penna: “Milo, vorrei rivederti. Per favore, vieni. Zio Giorgio”. Non vedo gli zii e i miei cugini dal giorno del funerale. Mi hanno abbracciato, ci siamo scambiati frasi di circostanza. Praticamente non li conosco. Sull’invito c’è il telefono. Chiamo e mi risponde una donna con un forte accento straniero: “I signori sono andati dal medico”. Le lascio il messaggio che domenica ci sarò e riattacco. Sono i miei unici parenti, tutto ciò che resta della mia famiglia. “Buonasera, avvocato. Buon fine settimana”. “Ciao Erika, divertiti”. Prima o poi viene la sera, e devo fare i conti col presente. Il passato è dietro le spalle: non ho rimorsi, né rimpianti. Il presente è una casa vuota, silenziosa. Paola amava la musica. Paola riempiva la casa. Paola era tutta la mia vita. Giulio era il futuro, il motivo per cui risparmiavo, sognavo, costruivo. Voleva fare il medico, non l’ho mai spinto a fare l’avvocato. Lo guardavo crescere ed ero fiero di lui. Volevo regalargli una casa, vederlo felice, conoscere sua moglie, i suoi figli. Morti loro, mi domando che senso abbia risparmiare, sognare, costruire. I soldi, di colpo, non sono più così importanti: ho una casa di proprietà, un lavoro, qualche risparmio. Non ho più responsabilità nei confronti di nessuno: sono solo. Esco dallo studio e mi viene voglia di fare una passeggiata. No, non qui, nei soliti luoghi. Devo osservare le cose da un’altra prospettiva. Vado alla fermata dei taxi e mi faccio portare in Via Paolo Sarpi. Non ci vado da anni. Scendo all’angolo con Via Bramante, nel cuore di Chinatown. Sono le sette e un quarto, i cinesi sono davanti ai loro negozi, in attesa di chiudere. Li guardo: Milano è cambiata, il mondo è cambiato. Dalla mia scrivania, il cambiamento si percepisce appena. Gli anni passano. Scadenze, processi sempre nuovi, contratti sempre urgenti, mille cose di cui occuparsi. E il tempo passa, lento ma inesorabile, senza che noi alziamo lo sguardo. Penso alla calma di mio padre, a quanto ci tenesse ai suoi ritmi, alle sue abitudini. Sempre tranquillo, sorridente, schivo eppure cortese con tutti. Si era chiuso in se stesso per proteggersi? Era davvero felice? Certe cose ai genitori non si ha il coraggio di domandarle, e forse è uno sbaglio: se c’è una cosa che si dovrebbe insegnare ai figli, è a essere felici. Cammino e guardo nei cortili: bambini che giocano, panni stesi, biciclette. La vita della Milano di una volta, delle case di ringhiera. Saranno felici questi cinesi? Saranno poi cinesi – o piuttosto milanesi, nati e cresciuti qui, di seconda o terza generazione? Ma, in fondo, la domanda è: “Possiamo imparare a essere felici, sapendo che la nostra felicità è appesa a un filo, che tutto può esserci tolto?” Mamma mi diceva che l’uomo ha bisogno dei contrari, perché è grazie ai contrari che il nostro cervello elabora le informazioni. Senza il brutto, non sapremmo elaborare il concetto del bello. Senza la tristezza, non conosceremmo la felicità. In diritto, un’argomentazione a contrario è un’argomentazione debole. Non so chi abbia ragione, ma so che fino all’ultimo respiro tutto può cambiare. E questo, forse, è un motivo sufficiente per vivere. In ogni caso, anche se può esserci tolta o negata, la felicità è ciò che dovremmo cercare, ciascuno a modo suo. CAPITOLO 3 Sabato mattina mi sveglio presto. Ho dormito, non ho bevuto. Vado a comprare un vassoio d’argento per gli zii. Poi, un libro sui cronografi da polso. Passo in studio, stampo due miei articoli sui cronografi, pubblicati in Italia quando andavo all’università e poi ripubblicati in inglese su un sito internet olandese e vado alla posta di Piazza Cordusio a spedire libro e articoli a Kisselyov, con un biglietto di ringraziamento per la sua cortesia. Papà era stato così felice quando gli avevo mostrato le bozze degli articoli: “Sei molto competente, Milo. Molti grandi collezionisti non sanno nulla di orologeria, hanno soltanto i soldi. Bravo”. So che aveva persino detto a mamma che avevo preso il meglio di loro due: la sua competenza e la capacità di sintesi di mamma. E’ bello sentirsi stiamati dai propri genitori, molto diverso dal sentirsi amati. E’ una giornata torrida. Mangio una pizza in centro, poi me ne torno a casa. Domenica mattina parto per andare dagli zii. Abitano alla periferia di Varese, in una villa dei primi del novecento. Ci arrivo davanti grazie al navigatore. Il cancello è aperto, entro senza suonare il campanello. Col vassoio in mano, faccio il giro della casa: il giardino è sul lato opposto rispetto alla strada. In fondo, all’ombra di un’enorme canfora, vi è una grande tavola apparecchiata. “Milo, vieni, siamo qui in casa”. Mi volto. E’ mio cugino Stefano. Ha tre anni meno di me - quarantacinque. Ci abbracciamo. “Come stai?” “Bene, grazie. Tu?” “Bene. Togliti la giacca, si muore di caldo”. Gli lascio il regalo. “Non dovevi, ma ti ringrazio a nome dei vecchi”. E’ ingrassato e ha la barba bianca. Entriamo in casa: tutto è come una volta, eccetto le persone. Gli zii sono seduti sul divano, con intorno tre ragazzini che non conosco. Sulle poltrone, Paolo, il fratello di Stefano, sua moglie e una ragazza mulatta. Bacio gli zii, che mi sembrano – o forse sono – vecchissimi, abbraccio Paolo e sua moglie e stringo la mano a Dolores, che mi dice, a voce bassissima: “Piacere. Sono la compagna di Stefano”. Lo zio mi prega di sedermi sul divano accanto a lui. “Vieni Milo. Aspettiamo qui gli altri ospiti. Fuori fa troppo caldo”. “Hai ragione zio. Questa casa è sempre stata fresca”. “I pini le fanno ombra”. La zia non dice nulla. Sembra assente. Poi, all’improvviso, mi fissa – io le faccio un sorriso – e mi domanda: “Massimiliano, dov’è Anna?” Il sorriso muore all’istante. Prima che mi venga in mente una risposta qualsiasi, lo zio posa una mano sulla mia e le dice, con una dolcezza che mi colpisce: “E’ rimasta a Milano, con il piccolo Milo”. Tutti guardano verso di me. Abbasso la testa. Per rompere l’imbarazzo, Stefano va in cucina e torna con una bottiglia di champagne. I flut sono già in fila, sul tavolino. Lo zio lo rimprovera: “Stefano, aspettiamo gli altri”. “Papà, abbiamo champagne per un reggimento, iniziamo a berne un goccio noi, della famiglia”. Lo zio si volta verso di me e mi dice: “Lo conosci, è sempre stato così”. Poi, sussurrando, aggiunge: “La zia vive in un suo mondo, Milo. Ci vuole molta pazienza”. Si volta verso di lei e le stringe la mano. Lei ricambia la stretta. Arrivano due coppie di amici degli zii. Mi alzo e lascio il posto sul divano. “Stefano, chi sono i ragazzi?” “I figli di Paolo”. “E Dolores?” “La mia compagna. E’ venezuelana”. “Bella. Complimenti”. Ride: “Grazie. Complimenti meritati. Da quando mi aiuta in negozio, la gente entra di continuo con ogni scusa”. Arrivano altri ospiti e ci mettiamo a tavola. Due cameriere servono gli antipasti. Il pranzo passa veloce tra battute di Stefano, conversazioni di cortesia con gli anziani ospiti e espressioni annoiate dei tre ragazzini. Poi, mentre tutti mangiano una coppa di fragoline di bosco col gelato la zia, silenziosa fino a quel momento, dice allo zio: “Giorgio, ma cosa sono queste cose che hai fatto mettere nel gelato? Sono squisite, non ho mai mangiato niente di così buono”. Lo zio la fissa, serissimo, e le risponde: “Sono fragole di bosco. Sono andato a coglierle per te”. Poi, rapido, si volta verso Dolores e le strizza l’occhio. Ridiamo tutti. Paolo si alza e facciamo un brindisi agli zii. E così, in piedi col bicchiere in mano, insieme ai miei unici parenti, io capisco che molto mi è stato tolto dal Destino, ma molto risparmiato. Guardo gli zii, dopo cinquant’anni di matrimonio. Lui, così paziente e premuroso nonostante l’orrore della malattia della zia. Lei, felice di mangiare fragole di bosco, che le sono piaciute per tutta la vita, come se fosse la prima volta. E se questo fosse il vero riassunto della vita? Una casa che non cambia nonostante gli anni, una famiglia che cresce. Arrendersi all’evidenza che la nostra percezione del mondo è totalmente dipendente dai nostri cinque sensi e dal nostro cervello, tanto fragile, tanto limitato da farci percepire come nuovi e squisiti i sapori di sempre. Arrendersi all’evidenza che l’unico senso della vita è la prosecuzione della vita stessa e che l’amore è l’unica, vera, autentica consolazione. Papà non andava d’accordo con suo fratello, erano troppo diversi. Ma mai come oggi ho voluto bene allo zio. Salutandolo, prometto di tornare a trovarlo. E so che lo farò. Big birds flying across the sky, Throwing shadows on our eyes. Leave us Helpless, helpless, helpless. (Helpless, Neil Young).
Posted on: Wed, 04 Dec 2013 10:46:09 +0000

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