DITO NELL’OCCHIO MARO’TRUFFEINDIANE-di Fausto Biloslavo per - TopicsExpress



          

DITO NELL’OCCHIO MARO’TRUFFEINDIANE-di Fausto Biloslavo per il Giornale E se i marò non avessero mai sparato sul peschereccio St. Anthony, dove la morte di due pescatori indiani ha fatto esplodere una crisi senza precedenti fra Italia e India? Se fossero totalmente innocenti? Lo sostiene Toni Capuozzo in una ricostruzione degli eventi del fatidico 15 febbraio 2012 andata in onda sabato sera su Tgcom 24. La «prova» dellinnocenza di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone si basa sul video di una tv locale che riprende a caldo le parole di Freddy Bosco, capitano ed armatore del St. Anthony appena rientrato, con a bordo i cadavere dei due pescatori, in un porto indiano. «Attorno alle 21.30 (9 pm) ho sentito un forte rumore, mi sono svegliato e ho visto un membro del mio equipaggio con il sangue che gli usciva dal naso e dalle orecchie» dichiara davanti alle telecamere il proprietario del peschereccio che secondo gli indiani sarebbe stato colpito dai nostri fucilieri imbarcati sullEnrica Lexie.Peccato che lincidente con la nave italiana, per il quale i due marò saranno processati a Delhi, ha avuto luogo e si è concluso fra le 16 e le 16.30 ora indiana. Una bella differenza, di cinque ore, con la testimonianza a caldo di Bosco che fissa alle 21.30 la morte dei pescatori. Non solo: la prima comunicazione scritta del centro di controllo marittimo indiano di Mumbai, che chiede alla nave italiana di invertire la rotta è delle 20.36, ora locale. Gli indiani parlano solo di «un incidente a fuoco di pirateria con un sospetto skiff (imbarcazione usata dai bucanieri, nda)». Il comandante, Umberto Vitelli, risponde 11 minuti dopo confermando che sta cambiando rotta per rientrare al porto di Kochi, come richiesto. Prima ancora gli indiani avevano comunicato con la Lexie via telefono satellitare chiedendo cosa fosse accaduto. Lo stesso comandante aveva diramato lallarme del sospetto attacco pirata respinto dai marò e la comunicazione era stata notata da Mumbai. Vitelli, prima di virare, aveva voluto la richiesta scritta via mail dagli indiani, giunta alle 20.36 locali. A bordo il computer con la posta elettronica, secondo la società armatrice, ha lora italiana (4 ore e mezzo indietro rispetto alla costa indiana). Nave Lexie ha gettato le ancore in porto a Kochi verso la mezzanotte locale del 15 febbraio. Nel frattempo il St. Anthony attracca nel porto di Neendakara e alle 23.15, Bosco dichiara per due volte, davanti alle telecamere, che hanno sparato da una nave contro il suo peschereccio alle 21.30. Ad un certo punto si vede anche un poliziotto alle sue spalle, che deve aver sentito la prima dichiarazione a caldo del capitano e armatore del St. Anthony. Nella ricostruzione di Tgcom24 si fa notare che nello stesso tratto di mare alle 22.20 la nave greca Olympic Flair comunica all Organizzazione Marittima Internazionale) di aver subito un attacco da due imbarcazioni di pirati, che desistono davanti allallerta dellequipaggio. A bordo, dopo varie smentite, i greci ammettono che cerano dei contractor, delle guardie private, ma sostengono che fossero disarmati. Potrebbe anche trattarsi di una voluta ammissione. Se la dichiarazione a caldo di Bosco della sparatoria in mare alle 21.30 venisse confermata coinciderebbe con la denuncia dello sventato arrembaggio al mercantile greco resa nota meno di unora dopo. Lunico dato certo è che i greci sono già lontani e non hanno alcuna intenzione di tornare indietro, mentre lEnrica Lexie sta docilmente rientrando in porto con i marò convinti di non aver ucciso nessun pescatore perchè hanno sparato in acqua. La nave italiana diventa un capro espiatorio perfetto in tempi di campagna elettorale locale con il risultato che Latorre e Girone vengono incastrati. LA NAVE FANTASMA GRECA da qelsi qutidiano-da quasi due anni i due fucilieri italiani del battaglione San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono oggetto di detenzione preventiva da parte delle autorità indiane sotto la pesantissima accusa di duplice omicidio nei confronti dei due pescatori indiani Valentine Jelestine e Ajesh Binki, perpretato mentre questi si trovavano in coperta al governo del peschereccio St Antony ed erroneamente scambiati per pirati, secondo quanto affermato dalla polizia portuale dello stato del Kerala. In questo lungo lasso di tempo, i due Marò italiani hanno usufruito di due licenze, una a Natale e l’altra per le recenti elezioni politiche, ma nel frattempo nessuna indicazione è giunta sulla loro sorte, ed in particolare sul come gli indiani intendano risolvere il conflitto di giurisdizione con l’Italia riguardo la competenza ad indagare sul loro conto ed, eventualmente, a giudicarli. In merito si è ancora in attesa della decisione della Corte Suprema dell’India che, lo scorso gennaio, ha negato allo stato del Kerala la competenza a condurre il procedimento giudiziario contro i Marò, ma senza fornire indicazioni circa l’accoglimento della rivendicazione italiana della competenza giurisdizionale per la vicenda. Neanche è stato ancora trovato, in subordine, un tribunale indiano competente per il processo, la cui fase inquirente è stata da poco affidata alla NIA (National Investigation Agency), l’agenzia indiana di intelligence deputata al contrasto del terrorismo sul territorio indiano che come Penelope dovrà ricominciare tutto da capo. Suscita preoccupazione il fatto che la NIA dispone di autonome strutture giudiziarie con le quali, per il particolare campo investigativo in cui si muove, non è infrequente che sia chiamata a comminare pene capitali in linea con quanto previsto dalla legislazione dell’India. A tale proposito, tutta la stampa indiana insiste sul fatto che la NIA non può giudicare i Marò ignorando il SUA – Suppression of Unlawful Acts against Safety of Maritime Navigation and Fixed Platforms on Continental Shelf Act, del 2002 che comporta la pena di morte negli stati in cui questa è in vigore. Sulla base di queste premesse, la detenzione dei Marò italiani è illegale e si configura non solo come un arbitrario sequestro di persona, ma addirittura come un atto di ostilità nei confronti dell’Italia, con l’aggravante che i due sono Paesi legati da un accordo di cooperazione tecnica, culturale e commerciale appena rinnovato, ed alleati sotto l’egida dell’ONU nella lotta di contrasto alla pirateria nell’Oceano Indiano, nel quale l’India da sola non è in grado di garantire la sicurezza di navi ed equipaggi nemmeno nelle sue acque territoriali. Va peraltro precisato che in questi quattordici mesi, solo all’inizio della storia sono state condotte delle indagini sommarie e delle perizie tecniche, ma senza alcun coinvolgimento in esse della difesa dei Marò e senza alcuna garanzia legale a tutela dei diritti della difesa. Come non bastasse, alla difesa non è stato consentito di assistere alle perizie necroscopiche dei pescatori cristiani, frettolosamente sepolti con rito cattolico, nè di conoscere le risultanze documentate delle stesse. Alle perizie balistiche sono stati ammessi ad assistere due carabinieri del RIS, ma solo come osservatori, senza possibilità per loro di porre quesiti o di chiedere chiarimenti su risultati e procedure. Tra l’altro, è dimostrato come risultanze balistiche iniziali che scagionavano i Marò siano poi state state stravolte e manipolate in modo strumentale alla dimostrazione della loro colpevolezza. Ma questo è niente rispetto ad un fatto sconcertante che abbiamo appreso da corrispondenze intercorse tra un italiano ed un quotidiano indiano di lingua inglese, dove il primo lancia l’accusa, che il secondo in pratica avalla, verso i locali inquirenti di avere fatto demolire il St Antony che era stato sequestrato ed ormeggiato nel porto di Kochi a disposizione della locale magistratura (nella foto), senza che lo stesso possa essere stato attentamente ed ulteriormente visionato dagli investigatori, dai periti balistici e dalla difesa, e nonostante si fosse sostenuto che il suo scafo presentava decine di fori che nessuno ha potuto verificare e periziare. Distrutto così, in modo irresponsabile e senza apparente ragione prima ancora che sia stato istruito un processo per il quale, come vedremo, risulta elemento imprenscidibile per la perizia balistica a favore della difesa. Ora c’è da rimanere sconcertati di fronte ad una tale dimostrazione di perfidia e di malafade da parte degli indiani. Noi non sappiamo se i nostri Marò siano colpevoli, innocenti o, come tutto sembra indicare, addirittura estranei ai fatti loro contestati. Però non si può fare a meno di sottolineare come l’India nulla stia facendo per fare piena luce sull’intera vicenda, la sua dinamica ed accertare le reali responsabilità, mentre molto si sta adoperando per cercare di piegare la realtà dei fatti, delle prove, delle perizie e delle testimonianze alla tesi precostituita della colpevolezza dei nostri Marò. E per tenerli in galera hanno dovuto violare un trattato di amicizia, due Risoluzioni dell’ONU, il Diritto Internazionale, il Diritto Diplomatico e Consolare, il Diritto internazionale Marittimo e di Navigazione, la Convenzione di Vienna, la convenzione Solas (Safety Of Life At Sea) dell’IMO (International Maritime Organization), la Convenzione di Bandiera Unclos (United Nations Convention on the Law on the Sea), sottoscritta da 162 Paesi, Italia ed India inclusi, sulla definizione dei limiti delle acque internazionali, hanno dovuto calpestare l’antico istituto della Functional Immunity (ratione materiae) e quello della Personal Immunity (ratione personae) secondo i quali la responsabilità di militari nell’ambito di una missione va ascritta al loro Paese di provenienza e non a loro stessi come persone fisiche ed a titolo individuale, come ad esempio accadde per il caso Cermis, peraltro avvenuto in pieno territorio italiano e con colpevoli certi, dove il contenzioso diplomatico tra Italia-Usa venne risolto in parallelo al processo dei soldati americani che si svolse in America. Background. L’associazione dei pescatori del Kerala conta tre milioni di iscritti. Tenuto conti dei familiari, dell’indotto, inclusa la distribuzione, la trasformazione e la conservazione dei prodotti ittici, della logistica di supporto e della cantieristica, sono almeno una quindicina di milioni gli addetti del settore ittico, il quale rappresenta una importante risorsa per l’economia di quello stato dell’India Sud-Occibìdentale. I pescatori keralesi di solito non sono fatti oggetto dalla politica dell’attenzione che meritano, tranne che durante le campagne elettorali, periodo nel quale tutti si abbandonano a lusinghe e promesse demagogiche nei loro confronti, proporzionali al loro peso elettorale che non è per niente trascurabile. I problemi che affliggono quei pescatori sono facilmente intuibili: a parte paghe irrisorie e scarse coperture sociali, essi si devono imbarcare anche per lunghi periodi su pescherecci fatiscenti, privi di ogni comfort e di sistemi efficienti per il controllo della navigazione, privi di ogni dotazione di sicurezza, con apparecchiature di trasmissione antiquate e con possibilità di comunicazione affidate più alla sorte del momento che alla tecnologia. Come non bastasse, devono subire pesanti conseguenze per colpe non loro. L’India ha un irrisolto contenzioso con lo Sri Lanka circa la definizione dei limiti delle rispettive acque territoriali. Cingalesi ed indiani si odiano, antiche ruggini e vecchi rancori, per cui le motovedette dello Sri Lanka sparano addosso ai pescatori indiani, non per avvertimento, ma per ammazzarli, appena questi sconfinano o solo ritengono che abbiano invaso le loro acque. L’uccisione dei due pescatori addebitata ai nostri Marò non rappresenta una eccezione od un caso isolato, ma una drammatica realtà quasi quotidiana, risultando i due rispettivamente la ventinovesima e la trentesima vittima in mare del 2012. Nemmeno una settimana dopo l’incidente che li ha riguardati, se ne è verificato un altro in cui un peschereccio indiano è stato speronato e diviso in due da una nave rimasta sconosciuta, con due vittime accertate e tre dispersi mai più ritrovati. Sui giornali indiani, data la notizia non se ne è più parlato, eppure si tratta di 5 vittime che nessuno ripagherà, mentre tutti i giorni si continua a parlare del caso dei Marò italiani. Nell’area si è creata la sindrome del pirata ed ormai tutti sparano a qualsiasi cosa che in acqua dia segno di muoversi prima ancora di verificare di cosa si tratti. Per la US Navy la zona brulica di pasdaran e spara ad ogni minimo sospetto, per le marine militari dei paesi arabi son tutti pirati e sparano facile pure loro. Le flotte mercantili, incapaci di decidere tra pirati, guerriglieri e pescatori, si sono risolte a proteggersi imbarcando specialisti militari professionisti, con il rischio di incidenti collaterali inevitabili in queste condizioni di tensione permanente. Ne ha subito pesanti conseguenze persino l’Egitto che lamenta una diminuzione del traffico su Suez del 40 %, solo in minima parte dovuto all’aumento del costo dei pedaggi. Il fatto è che molti armatori preferiscono la più lunga, ma più sicura e scorrevole rotta che circumnaviga il Capo di Buona Speranza, piuttosto che correre il rischio di vedersi sequestrare carico, nave ed equipaggio dai pirati che infestano l’Indiano peggio che al tempo del Salgari. L’India per anni, in ciò contando anche sul convinto sostegno dell’Italia, ha sostenuto in ambito Nazioni Uninte la necessità di una normativa internazionale per il contrasto della pirateria. Ora che questa normativa c’è dovrebbe essere tra le prime ad allinearsi al rispetto dei trattati internazionali gestendo con lucida ragionevolezza e compostezza eventuali incidenti, non comportandosi allo stesso modo di quei pirati che condanna e persegue. Nel caso in oggetto, invece di sequestrare i militari italiani, e poi persino il nostro ambasciatore, avrebbero dovuto convincersi a procedere come si fa tra paesi civili, cioè istituire una commissione d’inchiesta bilaterale, che lavorasse in modo approfondito e trasparente per accertare la verità dei fatti, le responsabilità e produrre un rapporto con conclusioni concordate e condivise. Poi, prassi avrebbe voluto che gli atti e le risultanze così prodotte fossero resi disponibili ai rispettivi sistemi giudiziari, per istruire eventuali procedimenti a carico degli indagati, ovviamente nel pieno rispetto delle competenze giurisdizionali. Un iter che l’India ha volutamente e colpevolmente ignorato senza la dovuta e giustificatamente dura ed indignata reazione dell’Italia. I fatti. Il giorno 15 febbraio del 2012, circa alle 16.30 locali, quindi ancora in pieno giorno a quelle latitudini, la petroliera italiana della società armatrice Flli. D’Amato di Napoli viaggiava a circa 22 miglia dalla costa, dato oggettivo riconosciuto anche dagli indiani, cioè in acque internazionali al largo dello stato indiano del Kerala, rotta 330°, velocità di 14 nodi. Una piccola imbarcazione veniva avvistata sul radar a 2,8 miglia di distanza, ma in veloce avvicinamento con modalità sospette e ritenute aggressive. Nonostante le ripetute segnalazioni radio, visive e luminose il natante proseguiva su rotta di collisione, per cui intervenivano un paio dei sei Marò di scorta che sparavano in acqua tre raffiche a 500, 300 e 100 metri di distanza, che valevano a convincere gli imbarcati sul natante ad invertire la rotta e ad allontanarsi. Nel rapporto dell’accaduto, stilato in tempi e situazione ancora non sospetti, il natante veniva descritto di colore blu e della lunghezza di circa 12 m, e si precisava che nessuno era stato colpito, neanche sul natante sospetto. Chiunque può rendersi conto che il St Antony è, anzi che era, bianco con due striature longitudinali nere. Quindi, non c’è alcuna prova che il natante intercettato e respinto dalla Lexie fosse il St Antony come asserito sin dall’inizio dalla polizia indiana. Alle 18.20 circa dello stesso giorno, il peschereccio St Antony rientra precipitosamente nel porto di Kochi con a bordo i corpi di due membri dell’equipaggio uccisi. Il comandante dell’imbarcazione Freddie Bosco riferisce che stavano rientrando da una proficua battuta di pesca con oltre 3000 prede nella stiva tra tonni e piccoli pescecani. Mentre lui ed altri 8 pescatori dormivano sottocoperta, è stato risvegliato da rumori di cui non comprendeva la natura. Qualche secondo dopo, si affacciava in coperta dove scorgeva i corpi esanimi e crivellati di colpi dei due pescatori rimasti alla guida. S’è guardato intorno, ma ha solo intravisto in lontanza la sagoma di una nave nera e rossa, di cui non ha letto il nome, nè scorto la bandiera od altro dettaglio utile alla sua identificazione. Gli altri membri dell’equipaggio, tutti interrogati, sono stati ancora più vaghi affermando che solo quando si sono risvegliati si sono resi conto della morte dei colleghi, e che non hanno intravisto alcuna nave negli immediati dintorni. Ora la dichiarazione del comandante è inattendibile ed incongruente a prescindere dal fatto di essere stata smentita dagli stessi suoi uomini a bordo. Siccome alla velocità di 14 nodi la Lexie percorreva 7 metri al secondo, e posto che la sparatoria si sia verificata da un centinaio di metri, assumendo che Freddie Bosco sia salito in coperta dopo 10 secondi dalla sparatoria, ecco che la distanza tra le due imbarcazioni non poteva essere superiore ai 150 metri. E da quella distanza come fa un esperto marinaio a non leggere il nome di una nave stampato a poppa con caratteri di 1,5 metri di altezza almeno? Ergo, Freddie Bosco non ha visto alcuna nave, o ne ha vista una sulla quale tace e che non è la Lexie. Nei giorni successivi Bosco cambierà 4 o 5 volte la sua versione dei fatti per renderla via via più compatibile con la tesi colpevolista sposata dalla polizia locale, ma poi un paio di mesi dopo, in una intervista al Corriere della Sera ammetterà: “Era buio, (alle 16.30 del pomeriggio, sotto la latitudine del Tropico del Cancro non è buio, ndr) ero confuso, smarrito, ho solo intravisto una nave in lontananza, che ne so se era la Lexie, magari poteva essere un’altra. E’ stata la polizia a dirci che il nome era quello”. La trappola e l’inganno. Alle 18.20 locali, dopo aver discusso dell’accaduto, la guardia costiera escogita uno stratagemma per provare ad arrivare ai responsabili dell’uccisione dei pescatori e lancia un broadcast, cioè un messaggio-radio a tutte le navi in navigazione nella zona. Il messaggio riporta che è stato “catturato” un peschereccio che in effetti però, da riscontri oggettivi, risulterebbe una barca di pirati che si sospetta abbia attaccato navi nella zona del Kerala. Si chiede quindi di segnalare eventuali attacchi subiti nel pomeriggio e di fornire ogni altra indicazione utile a permettere di identificare come pirati i suoi occupanti. La capitaneria di Kochi registra 4 navi in navigazione nella zona, ma in effetti esse sono 5: la Lexie, la Kamome Victoria, la MBA Giovanni, la Ocean Breeze e la greca Olympic Flair. Solo la Lexie risponde al messaggio, confermando di aver subito un attacco mandato a vuoto. Non risponde neppure la Olympic Flair, nonostante un paio di ore prima abbia segnalato al centro SAR (Search & Rescue, cioè di Ricerca e Recupero) di quell’area di essere stata oggetto di un attacco da parte di pirati. Interrogata in merito, la nave greca poi smentirà questa notizia e si dileguerà rapidamente dalla zona, nonostante che lo scambio di messaggi sia stato registrato, come è prassi, al SAR e risulti tutt’oggi verificabile. Perchè i greci hanno negato l’accaduto? Temevano ripercussioni? Il sospetto è legittimo e fondato, ma su questo nessuno ha mai indagato a fondo. Ricevuto il messaggio di risposta dalla Lexie, la capitaneria di Kochi decide che fatto 30 si possa fare 31 e rivolge alla nave italiana, facendo appello ai rapporti amichevoli esistenti tra l’Italia e l’India ed al fronte comune formato dai due Paesi nel contrasto alla pirateria, di rientrare in porto a Kochi onde operare il riconoscimento ufficiale del natante aggressore sequestrato e già oggetto di indagine su mandato della locale magistratura. A quella richiesta, a bordo della Lexie si sprofonda nella più totale incertezza: rientrare o proseguire? La più alta carica della nave, il comandante, interroga in merito il proprio armatore il quale, siccome intrattiene proficui rapporti commerciali con operatori indiani, tutto vuole meno che indispettire i suoi clienti, per cui ordina l’inversione di rotta ed il rientro nel porto di Kochi. Ma la nave, in base alla legge 130 dell’agosto 2011 varata in Italia proprio per recepire le risoluzioni antipirateria dell’ONU, dispone di sei fucilieri dei Nuclei di Protezione Militare (NPM) che fanno capo al San Marco deputati alla protezione della nave e dei suoi 23 membri di equipaggio, di cui ben 15 di nazionalità indiana. In emergenza per la sicurezza, chi decide a bordo, il comando militare o il comando della nave e l’armatore? Non si sa, la legge che permette l’imbarco di militari su navi civili a rischio di pirateria dice di tutto tranne che questo. In effetti essa prevede che il Capo Nucleo NPM, che in quel caso era Latorre, assuma la gestione delle operazioni militari conseguenti all’emergenza, ma non gli assegna anche il ruolo, in deroga al Diritto Marittimo, della direzione, seppure limitata alla contingenza, delle manovre di disimpegno che la nave dovrebbe eseguire, in supporto all’azione di risposta militare. Ciò a causa del mancato varo dei decreti attuativi relativi ai NPM da parte degli enti interessati, cioè Difesa, Esteri, Marina Mercantile ed Associazione armatori. I sei Marò all’armatore costano 520 euro ciascuno per ogni giorno di missione, di cui ovvio solo una parte finisce nelle tasche dei militari, cioè 3000 euro al giorno. Tutto sommato allungare di 2-3 giorni la missione è poca cosa per l’armatore che insiste per il rientro. Il comando militare si dichiara contrario al rientro, non ne comprende il motivo. Però controindicazioni non se ne vedono, anzi c’è un cordiale clima di collaborazione tra Italia ed India, per cui non insiste dando di fatto via libera all’armatore. Il Ministro Terzi sta per andare ad inaugurare l’ennesimo stabilimento della Piaggio in India, l’Agusta sta stringendo per una fornitura di 12 superelicotteri, una commessa da quasi 600 milioni di euro, la Wass di Livorno è impegnata nella fornitura di 98 siluri Black Shark ad altissima tecnologia per altri 300 milioni di euro e già così stiamo ad un miliardo. Senza dire che “fortunatamente” i rapporti tra Cina ed India restano tesi e problematici e, come si dice, finchè “c’è guerra c’è speranza”, la speranza di attingere a piene mani nei 37 miliardi di dollari l’anno che l’India investe per ammodernare i propri armamenti in funzione anti-cinese, e che l’interscambio commerciale vada al di là del già sontuoso limite dei 10 miliardi l’anno, pochi paesi possono vantare altrettanto, per cui che ragione c’è a non collaborare con le autorità portuali di Kochi? E come Marianna de Leyva y Marino, che a forza di rinviare per mancanza di coraggio un solo no poi si ritrovò monaca di clausura a Monza ed a dire di sì a tutto e per tutto il resto dei suoi giorni, per evitare il disagio di un no la Lexie invertì la rotta e tornò a Kochi. Ma invece che sirene festose e corolle di fiori, ad attendere la nave ed i suoi ospitati a bordo c’erano navi della marina da guerra indiana, e sul ponte della Lexie si schierarono 16 membri dei reparti d’assalto armati sino ai denti. I Marò, ingannati e presi a tradimento, si dovettero arrendere e consegnarsi alla polizia locale che provvide ad arrestare due integerrimi soldati italiani convocati come testimoni, subito arrestati senza che neanche fossero stati iscritti nel registro degli indagati, ed interrogati e trattati come volgari assassini senza alcun fondato elemento a sostegno di una accusa così infamante. Per persone normali sarebbe stato facile affidarsi alla logica: se i Marò fossero stati colpevoli avrebbero subodorato il tranello e se ne sarebbero andati disimpegnandosi da ogni guaio possibile. Invece, proprio perchè innocenti ed in buona fede, sono tornati indietro per collaborare con gli indiani ritenuti amici affidabili. Lo capirebbero tutti questo, ma non evidentemente in un posto dove si stuprano e si ammazzano decine di donne al giorno e si adorano le vacche, laddove chiunque è in grado di comprendere che sarebbe molto meglio che accadesse il contrario. Ma ci sarebbe da spiegarlo questo? Del resto, avevamo già denunciato in un post giusto un anno fa il tentativo degli inquirenti indiani di depistare e polarizzare le indagini e di manipolare prove e testimonianze, ma non pensavamo che sarebbero arrivati a questi livelli di depravazione. La perizia necroscopica. Messi in galera i Marò, la polizia s’è affrettata il giorno dopo, il 16 febbraio, a recapitare i corpi delle due povere vittime sui tavoli di freddo marmo del Laboratorio di Scienza Anatomo-patologica del Kerala per le perizie di rito. L’autopsia è stata eseguita da una eminenza rispettata e riconosciuta nel campo, il professor Sisikala. Dopo aver passato attentamente in ricognizione anatomica i corpi dei due pescatori come si conviene, Sisikala redige un rapporto circostanziato nel quale, nero su bianco, scrive che i proiettili che hanno trapassato i pescatori, dei quali proiettili una sola ogiva è stata ritenuta nel corpo di uno dei due pescatori, sono compatibili con un calibro 7 e 62 lungo, non in dotazione ai Marò. Ma per uno straordinario prodigio, nella copia del rapporto che arriva sul tavolo del magistrato di Kollam, che a ragion di logica dovrebbe essere la stessa firmata dall’anatomo-patologo, il calibro cambia e diventa di 5 e 56, ovviamente compatibile con quello dato in uso alle truppe Nato, e quindi anche ai Marò. Ovvio che senza produrre l’ogiva, l’unica disponibile secondo il prof Sisikala, anche se poi la polizia ne caverà altre tre dal suo magico cilindro, ognuno può dire quello che vuole, ma non è detto che fatte le pentole riesca loro di fare anche i coperchi, cosa che come risaputo non riesce nemmeno al diavolo, figuriamoci a loro. La perizia balistica sulle armi. Per capirne di più ci affidiamo all’ing. Luigi Di Stefano, un balistico di riconosciuta fama internazionale, perito nel processo per l’incidente del DC 9 Itavia nel cielo di Ustica, l’esperto che ha dimostrato che l’aereo esplose in volo non per colpa di un ordigno situato tra i bagagli nella sua stiva, ma perchè colpito dal missile di un esercito Nato nostro alleato, che intendeva colpire un MIG di Gheddafi, che a quell’epoca era un cattivo, prima di essere ribattezzato come un buono, e poi nuovamente classificato un cattivo tanto da essere ammazzato. Ha dichiarato testualmente l’ing. Di Stefano dopo aver vagliato tutti gli elementi che riguardano i due Marò con la perizia dell’uomo di scienza : “Il documento balistico esibito dagli indiani è stato palesemente e grossolanamente contraffatto”. La sua indagine parte dai “fermo immagine” scattati sui filmati trasmessi dal Tg 1 e dal Tg 2 della Rai. Per cominciare, Di Stefano aveva già fatto notare che le pagine mandate in onda si limitavano al frontespizio ed alle conclusioni, ovvero che non si fosse fornita nessuna immagine del testo. Nel passaggio riferito a Binki, una delle due vittime, si vedono addirittura due residui dello scritto originale parzialmente rimosso e sostituito. L’indicazione del mese e il nome sono sulla destra, mentre il resto del documento è ordinatamente allineato a sinistra. La stessa anomalia si ripete quando viene citato il reperto estratto dal cervello di Jelestine, l’altra vittima, a testimonianza del fatto che l’originale e la versione finale del documento non coincidono e non sono state redatte dalla stessa persona. L’ingrandimento documenta le sbavature di una stampante diversa da quella usata per la versione originale del documento. Perfino la modalità di classificazione cronologica in esso si trasforma: nell’originale è Cr No.02/12, nella manipolazione è Cr. No: 02/12. E’ vero, ci sono solo due puntini in più, ma è una differenza significativa, perchè testimonia del fatto che si sia intervenuti a manipolare il documento originale. Perchè, a quale scopo? Si sottolinea che il 7 e 62 lungo 31 millimetri è il calibro delle pallottole in dotazione al mitra Pk di fabbricazione russa. L’arma è montata di serie sulle torrette delle piccole unità Arrow Boat in dotazione alla Guardia Costiera dello Sri Lanka. La parizia balistica sul St Antony. Il peschereccio è stato definito dal perito balistico Di Stefano il “testimone muto” della tragedia. Ma ora il St Antony non c’è più e non si può più verificare quanto riferito dalla polizia circa le sue condizioni. Non è chiaro se si sia trasformato in un vascello fantasma, che c’è ma non si vede, o se come sembra più probaile sia stato demolito e distrutto. Comunque, il nostro esperto ha potuto analizzare un filmato della BBC ed alcune foto scattate da Giuseppe Sarcina, inviato del Corriere della Sera. I vetri del peschereccio, come si vede nella foto, sono intatti, e questo rappresenta di per se già un prodigio se si dà retta alla polizia che parla di raffiche di mitraglietta a pioggia verso il St Antony. Come è possibile crivellare di colpi una persona che sta dentro un gabbiotto di vetro senza rompere i vetri? Forse non si trattava di colpi a raffica, ma di tiri mirati a colpire quella persona. Infatti, sul tettuccio di lamiera dell’imbarcazione si notavano due bernoccoli, due rigonfiamenti con la concavità in basso, come se fossero stati prodotti da colpi sparati con traiettoria dal basso verso l’alto, assolutamente incompatibile con quella risultante se fossero stati sparati dal bordo della Lexie che sopravanzava di almeno 30 metri quello del St Antony. Quindi, conclude l’ing. Di Stefano, “è appurato che i proiettili abbiano viaggiato più o meno paralleli alla superficie del mare, sparati da un’imbarcazione di altezza sull’acqua simile a quella del St Antony”. Colpi sparati da vicino, mirati e non a raffica, l’esatto contrario di quanto sostenuto dagli inquirenti indiani, che adesso hanno reso impossibile fornire controprove alle loro affrettate e discutibilissime conclusioni. Del resto, pure il caso Ustica sarebbe rimasto avvolto nel mistero se qualcuno non avesse recuperato i pezzi del DC 9, non li avesse rimessi insieme e conservati in un hangar per 30 anni. Gli indiani invece hanno fatto il contrario: avevano il relitto, ma l’hanno fatto scomparire. Ognuno si potrà fare una propria idea sul perchè. Conclusioni. Queste sono, per sommi capi, le vicissitudini nelle quali loro malgrado sono stati trascinati per i capelli i nostri Marò. Una vicenda drammatica, devastante per la vita dei militari e delle loro famiglie, piena di incongruenze, di manovre sotterranee, di comportamenti ambigui ed interessati anche da parte di chi avrebbe dovuto difendere e fornire le adeguate coperture ai nostri Marò. Solo adesso e solo dopo che si è dimesso l’ex ministro Terzi salta da un programma televisivo all’altro spiegandoci cosa si potrebbe fare per portare a casa i Marò. Ha avuto tanto tempo per farlo da ministro, perchè non ha proceduto? E se per caso, come adesso lascia intendere, qualcuno gli avesse legato le mani per evitare di irritare, per un motivo o per l’altro, gli indiani con la questione dei Marò perchè non ha denunciato il fatto anzichè nasconderlo sotto il tappeto buono del salotto? Che il mummificato professore varesino fosse solo un millantatore incapace lo sapevamo e da lui non è che ci si aspettasse molto. Ma Terzi era, ed è, un esperto e navigato diplomatico, perchè allora s’è comportato in modo così abulico e remissivo? Al governo italiano in generale, ma soprattutto a lui in particolare, noi rimproveriamo, tra le altre, queste due cose: il non aver utilizzato le giuste leve nei confronti degli indiani e di non aver colto l’opportunità del ritorno a casa per le elezioni dei due Marò, facendo anzi nella circostanza un gran casino e suscitato un vespaio che ci ha fatto passare automaticamente dalla ragione al torto. Abbiamo accennato a quanto l’India tema la Cina, che come membro del Consiglio di Sicurezza può esercitare nei suoi confronti il diritto di veto per ogni questione che la riguardi. Per questo l’India ci tiene tanto ad essere cooptata nel CdS, perchè al di là del lustro, del prestigio e dell’autorità che la carica conferisce le servirebbe ad acquisire lo stesso rango dell’odiato nemico, ritenuto un pericolo incombente. Nel CdS ci stanno oltre a Russia e Cina, tre stati che per un verso o l’altro ci sono vicini: con Regno Unito e Francia condividiamo l’appartenenza alla Comunità europea, con gli Stati Uniti antichi vincoli di amicizia. Avremmo potuto trarre vantaggio di questo fatto per chiedere a questi tre paesi di interporre i loro buoni uffici per mediare tra noi e gli indiani. Come avrebbe fatto l’India ad essere insensibile al richiamo di tre dei cinque membri che dovrebbero accettarla nel loro club, tenendo in conto che degli altri due uno, la Cina la invaderebbe volentieri, e l’altro, la Russia, la vede come un indesiderabile competitor tra i paesi emergenti? Poi i nostri rapporti con gli Usa stanno attraversando un buon momento. Nella sua recente visita ad Obama, Napolitano aveva dato molto spago alle velleità yankee di creare un grande mercato sulle due sponde dell’Atlantico. Sarebbe stato il momento buono per parlare dei Marò, invece niente. Addirittura Terzi ha rifiutato, in modo molto scortese e poco diplomatico, l’offerta del segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon di intermediare tra Italia ed India. Ma l’occasione più ghiotta Terzi e l’Italia l’hanno persa quando si sono ritrovati i Marò a casa per le elezioni. Il governo indiano riferendosi ai fucilieri del San Marco si è sempre dichiarato dispiaciuto per quanto sta loro capitando, ma di non poter intervenire a loro favore perchè in India la magistratura è un corpo dello stato autonomo ed indipendente dalla politica. Giusto, è così in ogni paese libero, civile e democratico, pure in Italia, ed avremmo potuto ripagarli con la stessa moneta. Sarebbe bastato che una qualsivoglia procura nazionale ed un qualsiasi pm di quella procura avesso iscritto i Marò nel registro degli indagati per omicidio ed aperto un fascicolo sul loro conto per far scattare l’impedimento alla loro estradazione. Inoltre, si sarebbe potuto far valere il principio costituzionale per il quale l’Italia non può estradare nessun soggetto sul cui capo pesino accuse relative a reati per i quali possa essere applicata la pena capitale, come nel caso di omicidio in India. Il passo successivo sarebbe poi stato di chiedere per rogatoria internazionale gli atti, le risultanze peritali e le testimonianze già in possesso della magistratura indiana con la quale avremmo potuto collaborare. Con New Delhi la scusa sarebbe stata la stessa che loro hanno usato con noi: magistratura autonoma, non possiamo interferire. Sarebbe stata una questione meramente giuridica, estranea ad entrambi i governi, non ci sarebbe stato nessun contenzioso diplomatico da risolvere ed i Marò già starebbero a casa. Con la scelta operata dai dilettanti allo sbaraglio di Monti ci siamo messi in condizione di venire meno ad un formale impegno preso per iscritto dal governo italiano nei confronti di quello indiano, cosa che ci ha fatto passare dalla ragione al torto, un torto talmente marcio da farci meritare i richiami e le rampogne di mezzo mondo e di tutta l’Europa. Epilogo. Cosa succederà adesso non si sa, resta un vero mistero. Presumibilmente, gli indiani procederanno a processare i nostri Marò prima ancora che la Corte Suprema decida in merito al ricorso dell’Italia che rivendica la competenza giurisdizionale su questo spinoso caso giudiziario. Sulla base delle perizie mancate, contraffatte e manipolate, di prove fatte sparire e di testimonianze costruite ad hoc i Marò saranno condannati “solo” a 7-10 anni di carcere, anche perchè nel frattempo le famiglie delle vittime hanno provveduto a ritirare la loro costituzione di parte civile e relative denunce contro Latorre e Girone accettando un risarcimento partito da 450mila euro, mercanteggiato e chiuso a quota 150mila a famiglia. Una somma significativa per noi, enorme per loro, che infatti dimostrano di non saper gestire e che sta sconvolgendo le loro vite più di quanto non abbia fatto sul piano affettivo la perdita dei loro cari. A nessuno verrà la voglia di interporre appello e di ricominciare da capo, e dopo qualche tempo, diciamo due o tre mesi, i Marò si potranno avvalere dell’accordo stipulato giusto in tempo l’anno scorso, col quale cittadini italiani ed indiani con condanne passate in giudicato potranno scontare le pene loro inflitte nelle galere dei rispettivi paesi di origine. Tornati in Italia, i Marò saranno subito gratificati da un clemente provvedimento di grazia da parte indiana, col che essi potranno riacquistare definitivamente la propria libertà. A quel punto, la Piaggio potrà inaugurare il suo ennesimo più uno stabilimento in India, la Wass da Livorno potrà continuare a rifornire gli indiani di migliaia di siluri a tecnologia avanzata con i quali potranno sterminare la flotta militare e quella mercantile della Cina, l’interscambio Italia-India raddoppierà in meno di un anno, forse all’Agusta daranno un’altra commessa da 600 milioni di euro, ed i latifondisti di origine indiana sikh trapiantati nelle ubertose pianure dell’Agro Pontino potranno esportare centinaia di migliaia di tonnellate di carciofi cimaroli e pomodori romaneschi verso le popolazioni himalaiane. E vivranno felici e contenti. Tutti, meno due. CASTA Di Paolo Bracalini per il Giornale Pillole di saggezza da uninfanzia difficile. «Donne, cominciate a ribellarvi da bambine. Io e mia sorella labbiamo fatto con i nostri fratelli e abbiamo vinto» confessa alla Stampa Laura Boldrini. Serve carattere, il resto viene. Devessere stata dura per lei, sessantottina a scoppio ritardato (è nata nel 61), ma poi ce lha fatta, ha vinto. È riuscita a farsi strada nonostante una famiglia benestante, uneducazione borghese, buone parentele, entrature giuste, buoni studi e bei viaggi, insomma una sfilza di privilegi. Ma limportante non è quello, ovviamente, è ribellarsi, sennò sarebbero capaci tutti. Lei non ha esitato, da bambina, a scontrarsi col padre, avvocato, «un uomo riservato, studioso, solitario, tradizionalista, molto religioso, amante della campagna e della musica classica», spirito conservatore che spesso si esprime in latino o greco e che cozza col fuoco rivoluzionario della giovane figlia. «I suoi princìpi non si coniugavano con la mia curiosità» dirà la Boldrini per spiegare le origini della sua rivolta casalinga. «A ventanni prende lo zaino e salta su un aereo per andare in Venezuela a lavorare in una finca de arroz, unazienda di riso», raccontano le agiografie della presidente di Montecitorio. Lei, cocciuta ventenne, non vuole più saperne del casale di famiglia a Jesi e di quella vita agiata ma provinciale. No, lei vuole raccogliere il riso, con le caviglie dentro lacqua, come le contadine sudamericane che è venuta a osservare tipo animali esotici. Chiede ad un agronomo «amico di famiglia» (ah, averceli gli amici di famiglia) e trova la finca de arroz che fa per lei, in quel di Calabozo, paesino del Sud venezuelano. Eppure niente, stranamente non la scambiano per campesina ma per una ricca occidentale in gita equosolidale, e la accomodano dietro una scrivania, in un ufficio (ma lei rimane «molto colpita dallo stile di vita ripetitivo e privo di orizzonti dei campesinos»). Per quella ribellione, comunque, il padre non le parlerà «per otto anni». La giovane Boldrini nel frattempo gira il Sudamerica, attraversa il Costa Rica, Panama, lHonduras, il Guatemala, il Messico, un tour avventuroso e ribelle che però non si conclude né a Tegucigalpa né a Caracas, ma nella più confortevole New York, prima di tornare a ribellarsi in Italia. Precisamente alluniversità La Sapienza di Roma, mandata a studiare Giurisprudenza per ereditare la professione dal padre (non quella della mamma, insegnante di storia dellarte e antiquaria), come usa nelle famiglie bene. I maligni di internet - che sulla Boldrini si accaniscono con speciale perfidia - incrociano cognomi e parentele per sconfessare il mito della donna ribelle «che si è fatta da sé», e rivelare piuttosto la classica parabola da radical chic, che ama gli ultimi ma nella vita parte avvantaggiata. Falsa la parentela con Arrigo Boldrini, partigiano (nome di battaglia Bulow), ex parlamentare Pci, vera invece - lo ha scritto Perna nel suo ritratto sul Giornale - quella con Massimo Boldrini, ex vicepresidente dellEni, amico di Enrico Mattei. Nel 1986 diventa giornalista pubblicista, facendo rassegna stampa allAise (Agenzia Italiana Stampa e Migrazione) ma anche - aggiungono le voci malevole in cerca di raccomandazioni nella sua brillante carriera - allAgi, agenzia giornalistica di proprietà dellEni. Quindi alla Rai, come precaria, ma pur sempre alla Rai, dove è difficile entrare senza amicizie. Nell88 è nella produzione, come assistente, del programma di RaiDue Cocco, regia di Francesco Pingitore, quello del Bagaglino. Proprio lei che trova disdicevole luso del corpo femminile in tv, e umiliante persino la rappresentazione delle mamme che servono la cena a casa, e che per questo si è guadagnata un Tapiro doro da Striscia. Poi, dopo la Rai, i massimi onori allOnu e quindi la presidenza della Camera. Grandi successi, nonostante linfanzia difficile. OBIETTIVO SU PELUSO-LIGRESTI-Gianni Barbacetto per il Fatto quotidiano Il triangolo no: perché il rapporto è a quattro. Mediobanca, Isvap, Consob. E i giornalisti. È in questo intreccio mistico che cresce la fusione tra Fonsai e Unipol. Le autorità che dovrebbero controllare (lIsvap le assicurazioni, la Consob le società quotate) invece di essere arbitri neutrali tifano in modo smaccato per la compagnia bolognese controllata dalle coop: è fra le sue braccia che deve finire Fonsai, portata da Salvatore Ligresti sullorlo del crac. Così ha deciso Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, che chiede di non esaminare la proposta con gli altri: cioè la richiesta della Palladio di Matteo Arpe e della Sator di Roberto Meneguzzo. Usciti di scena i Ligresti, il matrimonio va celebrato con Unipol: questa è la via maestra. Nei mesi della primavera-estate 2012 le nozze sono preparate con cura, fino al 19 luglio in cui avviene laumento di capitale che porta la compagnia bolognese all81 per cento di Premafin, la holding di Salvatore Ligresti. Ora le carte dellindagine milanese del pm Luigi Orsi, appena depositate, rivelano lincredibile groviglio tra controllati e controllori. Le intercettazioni telefoniche realizzate dai carabinieri del Noe dimostrano che gli arbitri tifavano pesantemente per una delle due squadre in campo. Protagonista di primo piano è la vice del presidente dellIsvap, Giancarlo Giannini (indagato dalla Procura di Milano per corruzione e calunnia), e cioè Flavia Mazzarella. È lei a tenere i contatti con gli altri protagonisti delloperazione e in particolare con Carlo Cimbri, amministratore delegato di Unipol. Ma è anche molto attenta ai giornalisti e a quanto scrivono i giornali. NOTIZIE E INDISCREZIONI A DOPPIO SENSO Il più assiduo è Riccardo Sabbatini, che allora scriveva sul Sole24oree oggi lavora allAnia, la Confindustra delle imprese assicuratrici. Telefona spesso a Mazzarella, chiede notizie (comè naturale per un giornalista), ma anche gliele dà. Come quando il 1 giugno riporta ciò che ha sentito dagli advisor di Fonsai, o il 9 le riferisce le indiscrezioni provenienti da Mediobanca dove dicono che potrebbe non esserci lassemblea di Premafin perché, se le banche non ristrutturano i crediti e non viene approvata loperazione, non avrebbe senso fare lassemblea. Molto apprezzato da Mazzarella è anche Massimo Mucchetti, allora commentatore del Corriere della sera e oggi senatore del Pd. La sintonia tra i due è forte, perché Mucchetti è (legittimamente) favorevole al matrimonio con Unipol e lo scrive chiaramente sul suo giornale. Il 25 giugno, Mazzarella chiama un dirigente di Mediobanca, Stefano Vincenzi, che le detta il numero di cellulare di Mucchetti e le dice che questa persona domani è a Roma e non ha nulla in contrario a prendersi un caffè con lei. Il contact name è Lorenza (probabilmente Lorenza Pigozzi, addetta stampa di Mediobanca). ARTICOLI CHE PREOCCUPANO Ma cè anche chi dà invece molte preoccupazioni alla signora dellIsvap: sono i giornalisti di Repubblica Giovanni Pons e Vittoria Puledda e il cronista del sito Linkiesta Lorenzo Dilena, che nei loro pezzi mettono in rilievo anche gli aspetti critici delloperazione Fonsai-Unipol. Pons e Puledda raccontano anche quanto dice uno studio di Ernst&Young denominato Plinio, secondo cui i conti reali di Unipol, che ha la pancia piena di titoli strutturati, sono ben diversi da quelli scritti nei bilanci ufficiali. Dilena poi pubblicherà Plinio integrale sullLinkiesta. Se sono veri i numeri di Plinio, la fusione non sarebbe più lauspicato salvataggio della disastrata Fonsai da parte di unUnipol in ottima salute, ma sarebbe invece un matrimonio riparatore, in cui si uniscono due debolezze per risolvere i problemi della banca creditrice di entrambe, e cioè Mediobanca. Il 23 giugno, Mazzarella chiama il suo presidente, Giannini, e gli parla dellarticolo apparso quel giorno su Repubblica . Mazzarella lo giudica vergognoso. Indica anche chi ritiene essere la fonte interna, che presume spalleggi la proposta Sator-Palladio: è Giovanni Cucinotta, capo di una delle due divisioni della Vigilanza di Isvap (poi spostato). Mazzarella e Giannini parlano del comportamento infedele e scorretto di una persona che non ha firmato allultimo momento... Mazzarella parla dellapertura di un procedimento disciplinare nei confronti di Cucinotta. Dice che le hanno proposto di parlare con Dilena, ma non ne vale la pena e sta pensando di parlare con Mucchetti. Parole dure, il 25 giugno, per Salvatore Bragantini, ex consigliere Consob in quel periodo consigliere Fonsai su nomina di Sator-Palladio: Mazzarella dà del bandito a Bragantini e dello smidollato a Marco Cecchini. Questultimo è laddetto stampa di Isvap, accusato di prendere i soldi da noi e lavorare per altri. Cucinotta è un truffatore e un mascalzone. CONTROLLATO E CONTROLLORE Intanto il controllato, è cioè Cimbri di Unipol, chiama il controllore, Mazzarella di Isvap, con cui scambia informazioni, preoccupazioni e documenti (una comparazione da mandare al consulente... dice che se ha già qualcosa domani gliela porterà sicuramente) e progetta incontri a Roma con lei e con il presidente Giannini. Qualche mese dopo, l11 dicembre 2012, Pons e Puledda scriveranno su Repubblica un articolo (Consob fa le pulci ai conti Unipol) che costerà loro lapertura di uninchiesta amministrativa di Consob per aggiotaggio informativo. In realtà è una mossa per ottenere i loro tabulati telefonici, poi effettivamente consegnati alla Consob dalla Procura di Milano, nel tentativo di individuare la fonte dei due cronisti. Di Giovanni Pons per la Repubblica È una storia di siciliani emigrati a Milano quella che in questi giorni sta travolgendo la famiglia Ligresti e la famiglia Peluso, in un affaire che sta minando le fondamenta del governo Letta e la credibilità del suo ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri in Peluso, accusata di essersi adoperata a favore della carcerata Giulia Ligresti. Un abbraccio quantomeno incauto, che trova una spiegazione solo se si inquadra in un contesto più ampio, che ricomprenda tra i protagonisti anche Mediobanca, merchant bank milanese fondata nel 1946 da Enrico Cuccia, anchegli siciliano trapiantato a Milano. E che mai sarebbe finito sotto i riflettori se i tradimenti non avessero a un certo punto preso il sopravvento sulle amicizie e sui patti occulti, che hanno per anni contraddistinto la storia di queste famiglie. Una storia che il pm milanese Luigi Orsi sta faticosamente, con la sua inchiesta, cercando di ricostruire anche nei suoi aspetti più incoffessabili. BORSA E IMMOBILI «La mia avventura è iniziata negli anni ‘50 quando sono arrivato a Milano come ufficiale dellAeronautica - racconta Salvatore Ligresti in uno dei tre interrogatori a cui ha accettato di rispondere - . Agli inizi degli anni ‘60 ho lavorato nella progettazione immobiliare e progressivamente ho iniziato a svolgere unattività imprenditoriale immobiliare. Sono stato agevolato dal fatto di aver conosciuto persone importanti che mi hanno fatto crescere. Lagente di Borsa Aldo Ravelli mi ha aiutato ad acquisire azioni della Liquigas, società allora presieduta dallavvocato Antonino La Russa (padre di Ignazio, altra famiglia di siciliani trapiantati a Milano negli anni ‘60, ndr.)». Oggi pare abbastanza incredibile constatare quanta strada Ligresti sia riuscito a percorrere grazie alla sua rete di persone collocate nei posti giusti. «Ho anche conosciuto Arcaini - prosegue nel racconto - il presidente di Italcasse che mi ha concesso dei fidi che ho impegnato nella costruzione di un grattacielo a Piacenza. Oltre allattività di progettazione, agli investimenti in Borsa ed alla costruzione di immobili ho iniziato ad acquisire aree, specialmente nella zona sud di Milano. Io sono un ingegnere e mi occupavo della parte tecnica mentre la parte amministrativa è stata storicamente seguita dai miei collaboratori che lavoravano con Carlo Aloisi, un immobiliarista che era anche presidente della Banca Ibi e dellUnire, lassociazione degli appassionati di equitazione». GAVETTA CON BERLUSCONI In un ventennio le conoscenze giuste hanno dunque spinto Ligresti a diventare un uomo molto potente, al centro di un crocevia fatto di immobili, rastrellamenti di Borsa, banchieri influenti ed esponenti delle istituzioni in grado di facilitare la sua ascesa. In questo Milieu così blasonato non poteva mancare Silvio Berlusconi. «Ho una particolare consuetudine con Berlusconi, siamo amici di vecchia data, veniamo dalla gavetta e gli incontri sono tanto frequenti quanto informali. Con il presidente Berlusconi si parla di tutto», racconta Salvatore quando gli si chiede di spiegare perché ha interceduto a favore dellex presidente dellIsvap Giannini, accusato di corruzione. Ed è di vecchia data anche il contatto con la famiglia Peluso, che sembra avvenire quasi per caso, nella Milano degli anni ‘70, come descrive Piergiorgio, figlio della Cancellieri, oggi ministro della Giustizia, e di Sebastiano Peluso, nel suo interrogatorio. «Negli anni ‘70 mio padre gestiva una farmacia che si trovava vicina allo studio medico esercitato da Antonino Ligresti. È nata così una conoscenza familiare. Ho avuto rapporti di lavoro con il gruppo Ligresti già nel 1999, quando lavoravo in Mediobanca alle dipendenze del dott. Pagliaro, mi ero occupato della Premaimm». LA RETE DI MEDIOBANCA A quel tempo Salvatore era appena uscito dalla bufera di Tangentopoli, non senza acciacchi. Finì dietro le sbarre per corruzione ma anche durante la detenzione il suo network si è attivato. Il tam tam della finanza milanese narra che Cuccia mandò allavvocato di Salvatore un messaggio da vero siciliano: «A quellora affacciati alla finestra e se vedi passare per strada Maranghi (lex dg di via Filodrammatici) allora vorrà dire che Mediobanca non ti ha abbandonato». E così fu. Tocca così a Peluso farsi le ossa da banchiere nel salvataggio immobiliare dei Ligresti e poi dal 2002 nel gruppo Capitalia si imbatte ancora nelle società di Don Salvatore. «In questo periodo ricordo due operazioni importanti con il gruppo Ligresti: una prima ristrutturazione del debito che il gruppo Sinergia aveva nei confronti di Capitalia e un nuovo finanziamento erogato da Capitalia a Premafin». Mentre Peluso si occupava della parte immobiliare in Mediobanca decidono di sfilare la Fondiaria dalla morsa degli Agnelli e di offrirla in sposa alla Sai di Ligresti. Unica raccomandazione di Maranghi: smetterla con la gestione tutto in famiglia. LA STAGIONE DEI TRADIMENTI Ma senza Cuccia il patto non regge e comincia la stagione dei tradimenti. É Ligresti il primo a rompere le fila e ad allearsi con le banche di sistema per far fuori Maranghi. Poi cerca la sponda con lUnicredit di Profumo portando in dote la conoscenza con Berlusconi, quindi tenta lo sganciamento attraverso laccordo con la francese Groupama. A Piazzetta Cuccia scatta lallarme rosso, Ligresti non è più affidabile, bisogna sfilargli la Fonsai (il gioiello) per metterlo in mani più sicure. E chi può essere lesecutore di una così complessa operazione? Ancora Peluso, che accetta di passare armi e bagagli nella compagnia. Ligresti è contento, pensa di essersi messo in casa uno della sua cerchia, «uno che ha visto crescere fin da bambino », come dice il teste della procura Gismondi. E invece è linizio della fine. Il pentolone della galassia Ligresti viene scoperchiato, Peluso figlio lautamente ricompensato per il suo lavoro, con la famiglia di Paternò in galera al completo. È a questo punto che mamma Peluso, diventata ministro, si adopera per segnalare la delicata situazione di salute di Giulia Ligresti. Ma così facendo finisce anchessa nella bufera. Lultimo affondo, per il momento, è di Salvatore: il 19 dicembre, dai domici-liari, ricorda al guardasigilli che non è lì per caso: «Mi feci latore del desiderio dellallora prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione. Lattuale ministro Cancellieri è persona che conosco da moltissimi anni e ciò spiega che mi sia rivolta e che io abbia trasmesso la sua esigenza al presidente Berlusconi. In quel caso la segnalazione ebbe successo perché la Cancellieri rimase a Parma». Ma la ministra smentisce tutta la ricostruzione e resta al suo posto. LARUSSA Di Walter Galbiati per la Repubblica Le loro famiglie, originarie della siciliana Paternò, si frequentano da anni. Anzi, da generazioni. Eppure, quelle parcelle pagate dal gruppo Fonsai di Salvatore Ligresti allavvocato Ignazio La Russa quando - tra il 2008 e il 2011 - era ministro della Difesa del governo Berlusconi, lasciano spazio a cattivi pensieri. A scoprirle è stata linchiesta del pm della procura di Milano Luigi Orsi che vede accusato di corruzione e calunnia lex presidente dellIsvap Giancarlo Giannini, e di corruzione Salvatore Ligresti. Il finanziere avrebbe promesso al capo dellistituto di vigilanza sulle assicurazioni private di raccomandarlo a Silvio Berlusconi per una nomina allAntitrust, in cambio della protezione goduta per tutta la durata del suo mandato. Ebbene, in una storia che intreccia sempre di più politica e cattiva finanza, dalle carte di Milano sono emersi numerosi pagamenti alla famiglia dellex ministro La Russa: al nipote Vincenzo, al figlio Geronimo. Ma soprattutto a lui, che con un primo pagamento da Milano Assicurazioni - nel 2009 - incassa 198.928 euro per altre prestazioni di servizi. Altri 98mila euro nello stesso anno da Fondiaria Sai per parcelle per spese sinistri. E ancora nel 2010, 76mila euro da Fondiaria Sai e 150mila da Milano Assicurazioni. Onorevole, negli anni in cui rivestiva un ruolo istituzionale importante ha ricevuto 450mila euro dalla famiglia Ligresti. Come le spiega? «In realtà mi sono auto-sospeso dallOrdine degli avvocati quando sono diventato ministro. Ho mandato due lettere entrambe datate 28 luglio 2008, la prima al presidente di Milano, Paolo Giuggioli, e la seconda al segretario generale dellAutorità Garante delle comunicazioni e del mercato, in cui dichiaravo di non prendere nuove pratiche e che quelle che avevo le affidavo a colleghi». Ma il dubbio è che quei lavori le siano stati affidati proprio per la sua attività politica... «Lo studio legale La Russa lavora per la Sai fin da prima dellarrivo dei Ligresti. Io ho iniziato la mia collaborazione alla fine degli anni 70, tra il ‘76 e il ‘78 con uno studio distinto da quello di mio padre e di mio fratello. Ligresti entra in Sai a metà degli anni 80, non ricordo nemmeno quando, ma sicuramente io ero già consulente. Mi sono sempre dovuto trattenere. Se avessi voluto fare lavvocato del gruppo, avrei guadagnato cento volte di più che fare il deputato» Le sembrano pochi 450mila euro in due anni? «Ho rivisto tutte le carte: si tratta di circa 300 pratiche da poco più di mille euro. Con quei soldi ci si paga a stento gli avvocati che ci lavorano, anche perché io sono impegnato a fare altro. Io capisco non mi arrabbio: se uno non fosse stato ministro, non ci sarebbe stato nulla di male. Ma mentre ero ministro ho interrotto tutti i rapporti professionali e non ero per nulla obbligato, puoi fare ministro e avvocato se hai pratiche che non riguardano il tuo dicastero. Comunque ho sospeso lattività, non sono più andato alle udienze. Ho ripreso la toga adesso per difendere Sallusti, la prima cosa che ho fatto. Poi basta guardare la dichiarazione dei redditi: lanno scorso non ho parcellato niente. Nel 2011, sono passato da redditi per 500mila euro, a uno stipendio di solo parlamentare». Nel 2009 e nel 2010 comunque ha fatturato per i Ligresti, e la dicitura «altre prestazioni di servizi» non è molto chiara? «Sono tutte parcelle professionali relative agli anni precedenti e fatturate successivamente, non ho emolumenti, alcune sono sinistri, altre pratiche sanitarie, per i medici, poi non so loro come le classifichino ». Con il gruppo Fonsai lavora anche suo figlio, Geronimo. «Quando è morto mio padre nel 2004, alla Sai, siccome sanno che è un avvocato giovane e brillante hanno voluto creare una sorta di prosecuzione, loro non io. Fra laltro il suo primo nome è Antonino, come il nonno. Hai vantaggi, ma molti svantaggi a essere figlio di un ex ministro. Il suo rapporto con Fonsai inizia quando lavora per lo studio Jaeger». E ora lei che rapporti ha mantenuto con i Ligresti? «Avrei voluto parlare con i Ligresti, ma siccome vi conosco, voi giornalisti... sarei andato a trovarli anche in carcere. Io, Giulia e Jonella, le ho conosciute quando sono nate... gli altri avvocati hanno un rapporto di lavoro. Non mi interessa se sono colpevoli o innocenti, umanamente mi dispiace, però mi sono dovuto astenere da ogni contatto con lo stretto entourage familiare». Non come il ministro Cancellieri... «La Cancellieri ha fatto una telefonata umanamente comprensibile, ma troppo avventata. La telefonata con il fratello non centra niente, ci posso parlare anchio. Lunica telefonata imprudente, che capisco benissimo e che è evidente che sarebbe stata strumentalizzata, è quella con la famiglia».
Posted on: Sat, 23 Nov 2013 19:28:03 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015