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Da un articolo su Panorama.it Da un articolo di Cinzia Meoni Nel luglio del 1997, sotto la presidenza di Guido Rossi la società approda in Borsa a 10.902 lire per azione (5 euro circa, oggi ne vale 0,5). Lo Stato esce quasi completamente (prima mantiene il 3,5% del capitale poi solo la cosiddettagolden share, ancora in vigenza subentra un nocciolo duro di investitori italiani L’avventura del nocciolo duro, sotto la guida (già allora) di Franco Bernabè, dura poco. La società è una cash cow (ovvero macina cassa), il business è strategico, l’azionariato è diffuso. Ecco quindi che si affacciano i cosiddetti “capitani coraggiosi” (Emilio Gnutti, Roberto Colaninno e altri 180 imprenditori del nord) che, con l’appoggio di fatto del governo di Massimo D’Alema danno l’assalto al gruppo con un’offerta pubblica di acquisto (arrivano al 51% del capitale) finanziata indebitandosi. E’ l’unica volta in cui il controllo di Telecom Italia passa dal mercato, ovvero vede coinvolti anche i piccoli azionisti. La scalata costa ai capitani coraggiosi la bellezza di 61 miliardi di lire che vengono addossati alla società sotto forma di debiti. Telecom Italia è oberata da debiti insostenibili, i piani industriali non riescono a risolvere il problema, mentre le grandi società straniere investono per espandersi Colaninno mette in vendita Meie, Italtel, Sirti. I capitani coraggiosi si appropriano delle plusvalenze e nel 2001 cedono la quota di riferimento della catena di controllo del gruppo a caro prezzo, al vertice subentrano Pirelli e la famiglia Benetton. Nonostante un ingente piano di dismissioni (immobili, Auna e Telespazio), le operazioni di il debito sale a 44 miliardi di euro. Nel 2006 entrano Mediobanca e Generali nel tentativo apparente di salvare l’azienda,Marco Tronchetti Provera non riesce a trovare l’ appoggio governativo a un piano di riorganizzazione del gruppo che, sulla carta, prometteva una riduzione della leva e garantiva alleanze internazionali (all’epoca si parlava persino di contatti con Rupert Murdoch). Pirelli lascia il timone del gruppo nel marzo 2007 . Sono molti gli stranieri interessati, si fanno avanti At&t e America Moviles ma il governo si oppone: Telecom Italia costituisce un asset strategico dello Stato non può passare in mani straniere (sulla rete di telecomunicazioni passano infatti informazioni rilevanti economiche e militari) si trova una soluzione di compromesso e il controllo passa a Telefonica e a un pool di azionisti italiani (Generali, Intesa, Mediobanca e solo in un primo tempo Benetton). Sotto la guida di Franco Bernabè, tornato al vertice, si procede ad altre svendite (tra gli altri: Alice France, Hansenet, Sparckle, BBned, Etecsa). Oggi sul gruppo pesano poco meno di 30 miliardi di debiti (con un margine operativo lordo di 10). Gli azionisti italiani, a sei anni dall’ingresso, hanno gettato la spugna e ceduto il controllo a Telefonica. Oggi a quanto pare, contrariamente al 2007, il concetto di asset strategico dello Stato è passato di moda. E cosa farà il colosso tlc guidato da Cesar Alierta una volta arrivato a dentiere le redini del controllo? Probabilmente proseguirà con le svendite per ripianare il debito (quello di Telefonica ammonta a 51 miliardi di euro) ed evitare i problemi di antitrust in Brasile. Insomma tanti padroni ma una sola costante: vendere gli asset e incassare.
Posted on: Wed, 25 Sep 2013 23:44:16 +0000

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