FULL INCIPIT - VERSIONE - TopicsExpress



          

FULL INCIPIT - VERSIONE DUE ---------------------------------- Washington D.C Andrews Air Force Base. 23 Febbraio 2002 E’ notte, là fuori. Una notte illuminata a giorno dai potenti fari alogeni, dalle luci dell’aeroporto militare di Washington, centinaia di luci riflesse dalle giacchette catarifrangenti che come formiche si aggirano intorno all’Hercules Galaxy, il più grande aereo da trasporto di merci e truppe del mondo. Lo stanno caricando con pesanti autoblindo e jeep sovradimensionate pitturate in colori mimetici. Sta salendo sulla rampa di carico un carro armato e mi chiedo come farà l’aereo a decollare, con tutto quel peso. Poi guardo gli otto motori, e rido fra me e me. Mi avvicino ancora di più al vetro che mi divide dalla scena, lì dove mi imbarcherò tra pochi minuti, credo, dato che sono ore che aspettiamo. Soffio sul vetro, un alone di condensa si forma all’istante, per poi ritirarsi e chiudersi su sé stesso come un riccio. Mi giro verso l’angusta sala di aspetto, se così la possiamo definire, di un aeroporto militare. Decine di corpi pressati in uno spazio minuscolo, un solo gabinetto già intasato da non so quanto tempo. Una macchinetta da caffè svuotata e che mangia solo soldi, ricevendo calci e pugni dai soldati. I soldati. Avevo cercato di avvicinarli, di parlare con loro. Ma non mi avevano neanche ascoltato, si erano chiusi a cerchio. Tutti. Lasciandomi in un angolo. Non che la cosa mi interessi più di tanto, sapevo che quando saremmo stati nel teatro delle operazioni avrebbero supplicato per farsi fare una fotografia, o rilasciare un’intervista. Nessuno sfugge al potere mediatico, alla scena, alla ribalta. Alla gloria. Forse era per questo che avevo deciso di conseguire un master in giornalismo scrivendo una tesi sui fotoreporter di guerra. Questa la mia missione. La guerra. Vista da un obiettivo, interpretata dalle mille sfumature di apertura e chiusura del diaframma, distorta o raccontata nella sua più agghiacciante realtà. Era questo che volevo: l’agghiacciante realtà. E lo avevo ottenuto, certo, non da solo. Ero stato appoggiato da mio padre che aveva scalato tutti i gradini della carriera diplomatica, l’ultima carica diplomatica ottenuta: ambasciatore degli Stati Uniti a Londra, un posto di enorme importanza strategica, nel cuore pulsante del potere. Delle lobby e delle pressioni politiche e diplomatiche. Londra, la testa di ponte degli Stati Uniti, il controllo su tutta l’Europa continentale e parte del Medio Oriente. Erano bastate un paio di telefonata e il gioco era fatto. A ben pochi, forse solo ai fotoreporter veterani, era concesso il lusso di fare un reportage dietro le linee nemiche. Questo era il mio primo incarico, avevo sentito sussurrare dai soldati stipati con me il codice dell’operazione. Operazione Anaconda. Il serpente più pericoloso del Sud-America, che ingoia viva la preda e poi rimane fermo per mesi a fagocitarla e a digerirla. Mi siedo su una panchina sgangherata, ricontrollo il mio bagaglio. C’è tutto. Computer portatile, reflex digitale, uno zoom da 1000 millimetri che collegato al computer mi avrebbe restituito un’immagine lontanissima e perfettamente nitida, con ingrandimento digitale 10x. Avrei potuto fotografare l’iride di un fottuto talebano a due chilometri di distanza. Questo il mio bagaglio, in un altro zaino ben più piccolo di quello dei soldati, ci sono la tuta mimetica, gli scarponcini, razioni di cibo e acqua e poco altro. Sono vestito come sempre, con pantaloni ampi verde militare pieni di tasche, una camicia azzurra con la maniche arrotolate e un giubbetto, anch’esso pieno di tasche, che hanno una precisa funzione: avere sottomano, in qualunque momento, gli oggetti del mio mestiere. Guardo lo zaino dei soldati, è almeno il triplo più grande e sicuramente più pesante del mio. Ma io sono diverso da loro. Loro sono costretti a partire. Io, cazzo, l’ho deciso di mia spontanea volontà: il libero arbitrio. Sempre e comunque. Mi squilla il cellulare con la suoneria dei Guns ‘n Roses, decine di faccie bianche e nere contemporaneamente si voltano verso di me. Vedo uno dei soldati sputare per terra e aggrotto le sopracciglia mentre rispondo. “Amore sono Anna, dove sei?” “All’aeroporto, tesoro cara”, rispondo io ironico. “Ah sei andato a prendere qualche amico?”, chiede lei dopo qualche secondo in cui forse è rimasta perplessa. “No”, rispondo secco. “Allora che ci fai all’aeroporto, tesoro”? “Parto”. “Come parti?”, mi chiede Anna dopo una decina di secondi di silenzio. “Ma scusa non dovevamo andare via domani per il week end?”, chiede lei con una punta di ansia nella voce. “Niente week end, Anna. Sto partendo per i Caraibi con un’altra donna”. Silenzio. “Scusa?” “Hai capito bene Anna, dai ci siamo divertiti per mesi, non trovi che sia ora di darci un taglio?” “Ma che cazzo stai dicendo? Siamo fidanzati da sei mesi!”, dice lei quasi urlando. “No, Anna”. “No-o-o?” “No. Ti ho scopata per sei mesi, ora ho bisogno di altro. Ti saluto Anna, buon proseguimento”. Sento l’inizio di un vaffanculo, ma chiudo la comunicazione prima che la parola si formi completamente. Rido, mi accendo una sigaretta e mi allungo sulla panchetta. C’è un’altra vita di fronte a me, i legami del passato non mi interessano più. E poi con una ansiosa come Anna come potrei conciliare la vita da reporter e da inviato? Perché io sono un inviato di guerra, ora. Giusto? Però scopava bene, dannazione penso tra me e me. La mia mente vola ai giorni precedenti, ai saluti. Mia mamma, che mi aveva stretto forte e che mi aveva detto di seguire il mio istinto. “Basati sull’istinto, figlio mio e stai attento”. Mio padre, che mi aveva sorriso sornione quando mi aveva convocato da lui per comunicarmi che ero stato assegnato ad un’operazione in campo nemico. Ricordo bene la scena, nel suo ufficio mentre stava seduto davanti a me, a dividerci l’onnipresente scrivania in mogano tirato a lucido, seduti sulle stesse poltrone che avevamo portato in ogni angolo del pianeta. Per quanto ricordavo, l’ufficio di mio padre era sempre stato lo stesso. In Asia, in Sud America, in Europa. Non cambiava mai. E poi Harry, dolce Harry. Quasi come un padre che mi era stato dietro negli anni dell’Università e del Master mentre i miei genitori continuavano il loro pellegrinaggio infinito in giro per il mondo. Harry, che mi aveva detto di essere fiero di me. E mio nonno. Già, mio nonno. Cinque volte senatore al Congresso, nella precedente amministrazione era stato Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. Dopo la presidenza, la carica più elevata che una persona possa raggiungere. Il potere allo stato puro, decine di servizi segreti tra le Forze Alleate sparse per il mondo e di enti ancora più segreti sotto il suo diretto controllo. Non era neanche necessario che facesse una telefonata per ottenere qualcosa. Quella cosa, era già ottenuta nel momento in cui convocava il suo assistente. Già ottenuta. Questa la differenza tra chi ha il potere e chi no. I primi hanno già in mano la chiave. Gli altri, la devono cercare. Ed ero stato anche da lui, sovraccarico di energia, di ormoni e di emozioni. Avevo cercato di suscitare in lui una reazione, quando gli avevo detto dove sarei andato il giorno dopo. Ma il suo cellulare aveva squillato e lui mi aveva voltato le spalle. Senza più girarsi verso di me. Ero ritornato da Harry, chiedendogli perché mio nonno, con cui mai né io e nemmeno mio padre del resto avevamo avuto un buon rapporto, era ancora più cupo del solito. Harry mi aveva detto che pochi mesi prima era stato convocato dal Presidente, per un parere sulle modalità di attacco all’Afghanistan. “E lui cosa ha risposto?”, avevo chiesto con curiosità ma senza stupirmi del potere di mio nonno, Benedict Kenneth, di entrare nell’Ufficio Ovale. “Una sola frase, Michael”. “Vale a dire?”, avevo chiesto io. “La reazione degli Stati Uniti deve essere micidiale.” E così era stato. Poco meno di un mese dopo, nell’Ottobre 2001, un mese dopo che quei maledetti talebani avevano infilato aerei nei nostri grattacieli, avevano distrutto migliaia di vite in un secondo, avevano bucato tutte le difese aeree e preso in giro i servizi segreti, gli Stati Uniti avevano attaccato l’Afghanistan. E il mondo era precipitato nel caos. “A-ttenti”, grida il sergente nel caos della saletta, in un istante tutti i soldati sono in piedi, immobili. Silenzio totale. Svogliatamente mi alzo dalla sedia anche io, evitando con cura di mettere le braccia perfettamente allineate lungo i fianchi. Fatele voi queste pagliacciate, sorrido tra me e me. “Due minuti all’imbarco, forza prendete le vostre cose e muovete il culo”, urla il sergente. Due minuti? Come minimo mi aspettavo una mezz’ora tranquilla al gate, penso evitando di ridere. I soldati escono in fila indiana dalla porta, marciano silenziosi, mi aggrego dietro di loro, altri soldati dietro di me. Usciamo nel cuore della notte, un vento freddo e tagliente mi secca le labbra. In pochi istanti siamo di fronte al portello di imbarco del Galaxy, rimango impressionato dalla sua maestosità ma come da accordi precisi che mi hanno dato, non posso fotografare nulla di militare all’interno degli Stati Uniti. Dopo, potrò fare quello che voglio. Saliamo sull’aereo e sfiliamo stretti sfiorando il materiale imbarcato. Do una ginocchiata a qualcosa di duro, evito di far trasparire ogni emozione. Cazzo che male, penso. Ci sediamo tutti sugli strapuntini mentre il portellone viene chiuso e ancora prima che sia sigillato stiamo rollando verso la pista. Il silenzio è rotto solo dal sibilo dei jet, nessuno parla, nessuno scherza. Tutti guardano un punto indefinito davanti a sé. La paura. Decolliamo nel cielo nero come l’inchiostro, con una spinta impressionante considerato il peso dell’aereo e dopo qualche minuto i soldati cominciano a rilassarsi. Guardo fuori dal finestrino, stiamo già lasciando le coste degli Stati Uniti, sul controllo radar forse siamo solo un puntino sull’Oceano Atlantico. Mi giro verso il soldato alla mia destra. “Sai mica quante ore di volo ci sono?”, gli chiedo per attaccare bottone. Lui si gira verso di me, mi guarda dall’alto in basso e non risponde neanche. Guardo la mostrina sul suo braccio sinistro: Navy Seals. Lascio passare qualche minuto, controllo ancora la macchina fotografica mentre i soldati piombano nel silenzio scrutandomi con attenzione, quasi con rabbia. La percepisco, sono un reporter. Le sento queste emozioni, potrei anche fotografarla la rabbia, e poi con Photoshop trasformarla in gioia. Mi giro verso il soldato alla mia sinistra. “Ti va una partita a poker?”, gli chiedo facendogli l’occhiolino. Lui mi guarda di sbieco, alza il braccio come a volersi stirare poi fa partire una gomitata che mi centra in pieno sul naso, sento il caldo appiccicoso sulla faccia, scendermi sul giubbetto, infilarsi sotto la camicia. “Cristo santo”, urlo, mentre tutti fanno finta di niente. Con un fazzoletto fermo l’emorragia, sento il naso che si gonfia come se fosse rotto. Mezz’ora dopo si alza un nero, una montagna di muscoli, alto almeno un metro e novanta. Viene verso di me e appoggia una mano sul fianco dell’aereo, abbassandosi vedo la mostrina con il su nome: John P. Mi pianta gli occhi negli occhi. Niente cognome, realizzo solo in questo momento. “Senti, amico. Almeno mettiti quella divisa del cazzo e piantala di fare lo stronzo, siamo intesi?” Capisco che c’è qualcosa che non va, ma non la afferro. Rimane come una spina sottocutanea. La vedi, ma non riesci ad estrarla. Mi spoglio degli abiti civili e infilo la tuta, allaccio gli scarponcini. Guardo verso John P. che nel frattempo è tornato al suo posto. Nell’oscurità mi sembra che sorrida. Ma, forse, è solo un illusione.
Posted on: Thu, 21 Nov 2013 10:34:49 +0000

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