Giustizia: dei delitti e delle pene… l’accusa dell’Europa - TopicsExpress



          

Giustizia: dei delitti e delle pene… l’accusa dell’Europa all’Italia sulle carceri: è tortura di Paola Mirenda Left, 6 luglio 2013Maisto: “La nostra è una giustizia di classe che riempie le galere di povera gente”. Un provvedimento di clemenza è l’unica soluzione rapida. Ma vanno ripensati i reati. L’Europa condanna il nostro Paese per le condizioni delle carceri. E dà un anno di tempo per mettersi in regola. La ministra Cancellieri sceglie una soluzione all’italiana, che rimanda il problema senza risolverlo. E confida in un’amnistia che accontenti Strasburgo. Magari all’ultimo minuto. Lo vuole l’Europa” non è solo la formula dietro cui si nascondono i ministri economici quando devono imporre sacrifici e balzelli. “Lo vuole l’Europa” è anche la frase magica dietro cui celarsi per varare un decreto sul sovraffollamento carcerario in un Paese che chiede sempre più galera. E allora per fortuna che esiste l’Europa, che obbliga l’Italia a rimediare entro un anno allo stato disumano delle sue prigioni. Senza l’Europa i carcerati italiani non sarebbero tornati in primo piano nel dibattito parlamentare: però l’attenzione di politici e stampa sul tema è durata pochissimo, giusto il tempo di farsi rassicurare che no, quello approvato il 26 giugno scorso “non è un decreto svuota carceri”. E come dare torto alle parole della ministra Cancellieri, costretta a navigare tra due sponde difficili? Da un lato la Corte di Strasburgo, con la sentenza Torreggiani, obbliga il governo a dare un immediato segnale per ridurre il sovraffollamento delle prigioni. Dall’altro c’è un’ampissima compagine di governo che ci tiene a non passare per lassista e non vuole provvedimenti di clemenza, né la rimessa in discussione delle politiche securitarie. Così la ministra ha optato per una soluzione all’italiana. Il decreto non svuoterà le carceri. Usciranno meno di 5mila detenuti secondo i calcoli più ottimisti, qualche centinaio secondo i pessimisti. Però ha un pregio: se non apre le porte in uscita, le chiude in entrata. È, a suo modo, un decreto “non riempi carceri” differito nel tempo, che rimanda a domani quello che potrebbe fare oggi, evitando lo strappo su un tema delicato a un governo già tanto impegnato a ricucire su altre questioni. “Vogliamo vederla in positivo? I provvedimenti degli ultimi anni volevano svuotare il mare con un cucchiaino, al massimo un cucchiaio. Qui almeno abbiamo un secchio”. La metafora è di Alessio Scandurra, che ogni anno cura per l’associazione Antigone il Rapporto sulle carceri. Il secchio è quello che fa fuori di botto la legge ex Cirielli sulla recidiva, consentendo anche a chi ha reiterato un reato di accedere alle misure alternative, vero fulcro del provvedimento. Vale soprattutto per chi ancora non è entrato in carcere, e che quindi potrebbe essere assegnato alle misure domiciliari o ai servizi sociali senza passare dalle sbarre. Riduce ancora di più il fenomeno delle “porte girevoli”, imponendo al magistrato di sorveglianza di verificare l’esistenza di alternative prima di ricorrere alla custodia detentiva. Ma non risolve il problema del sovraffollamento. Non risponde alle richieste del Consiglio d’Europa, che a maggio ha respinto il ricorso dell’Italia rendendo definitiva la condanna per violazione dell’articolo 3. Quello che sanziona la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. I dati sono quelli noti: 47.022 posti, per 66.028 detenuti al 30 giugno 2013, sottorganico di magistrati di sorveglianza e di operatori sociali, assenza di risposte politiche. L’Italia già era stata condannata, ma stavolta la Corte di Strasburgo ha optato per una “sentenza pilota”: il nostro Paese ha un anno di tempo per risolvere il problema, altrimenti ogni detenuto che si trovi in condizioni di sovraffollamento - più di due terzi della popolazione carceraria vivono in meno di 3 metri quadri - potrà presentare istanza di risarcimento. Avverte nella sua relazione Salvatore Nottola, procuratore generale presso la Corte dei Conti: “Nel 2012 l’Italia è stata condannata a pagare indennizzi per 120 milioni di euro, la somma più alta mai pagata da uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa” per violazioni in ambito penale e carcerario. Il conto potrebbe diventare ben più salato, se qualcosa non cambia. Potrebbe essere l’economia, che sta tanto a cuore a questo governo, la leva per tornare a ragionare dei delitti e delle pene. A partire dal codice penale. Il carcere comincia nelle norme: tre sole leggi contribuiscono a più della metà della popolazione detenuta: la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva. “Ma non credo che sarà questo governo a mettere mano alla riforma del codice”, commenta Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. “Se il buongiorno si vede dal mattino, va detto che il decreto Cancellieri è troppo timido: poteva fare di più, poteva per esempio attuare le proposte formulate lo scorso anno dalla commissione mista Csm-ministero di Giustizia, che prevedeva anche di rivedere il testo sugli stupefacenti. Ma il problema è politico: se si mette mano alla Fini-Giovanardi bisogna riconsiderare anche la Bossi-Fini, cioè le leggi che hanno riempito le galere di povera gente”. I dati, ufficiali e ufficiosi, disegnano un detenuti medio tra i 30 e i 40 anni di età, senza titolo di studio superiore, proveniente in prevalenza dal Sud che vive la galera come un passaggio inevitabile nella sua storia familiare o sociale. “Non c’è dubbio che la nostra è una giustizia di classe”, aggiunge Silvia Buzzelli, docente di Diritto processuale penale all’università di Milano-Bicocca. “Basta guardare la composizione sociale del carcere. Chi lo nega non ne ha mai visitato uno. Abbiamo per tutti”. Tossicodipendenti e immigrati sono in alcune carceri italiane più dell’80 per cento dei detenuti. Il decreto della Cancellieri li riguarderà in minima parte, perché il ricorso a misure alternative come la detenzione domiciliare è possibile solo quando si ha alle spalle una casa o una famiglia ritenute “affidabili”. Che non hanno la maggior parte degli stranieri. “Bisogna modificare il nostro approccio al concetto di sicurezza”, spiega Mauro Palma, ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, chiamato dalla Cancellieri a presiedere la commissione incaricata di studiare una soluzione per il sovraffollamento delle carceri. “Bisogna pensare a strutture più leggere, di custodia attenuata, abbandonare l’idea della marcatura a uomo. Solo così le misure alternative diventano davvero tali e danno una possibilità di reinserimento”. Gli esempi ci sono, sia da strutture italiane come il carcere di Bollate, (“che dovrebbe essere messo a sistema”, dice Palma), sia dall’estero, dove il ricorso al carcere è davvero l’opzione estrema, e la permanenza in cella non è pensata come un’ulteriore punizione. Il braccialetto elettronico, l’affidamento in prova, i lavori sociali, il sistema dei “crediti” che consentono la riduzione della pena, l’obbligo di frequenza scolastica, le pene pecuniarie prevalenti in Germania (“che rischiano però di essere discriminatorie”, avverte Silvia Buzzelli) al posto di quelle detentive. Molte di queste alternative sono pensate anche nel nostro ordinamento, ma non messe in pratica. Un problema di organico, certo, ma anche di altro. “Più che i numeri, a me spaventano le culture”, spiega Palma. “Si ha paura di decidere, si preferisce non concedere permessi o affido esterno perché timorosi di essere attaccati dalla stampa. Che cerca il sensazionalismo a scapito della correttezza dei dati”. È successo con l’indulto del 2006, si è ripetuto con ogni provvedimento che ha anticipato l’uscita dal carcere. “C’è una politica che nei convegni dice che il carcere è l’ultima ratio, ma poi misura la tutela di un bene giuridico dall’ampiezza delle pena detentiva che viene data a chi non lo rispetta”. Ogni epoca ha il suo allarme sociale: una volta sono i guidatori ubriachi, un’altra gli scippatori di vecchiette, un’altra ancora gli immigrati irregolari. C’era la lotta armata, ora ci sono gli scontri di piazza. “Ci vogliono pene severe”, dice la gente. “Ci vogliono pene severe”, ripete la stampa. A ciò si adeguano i giudici, che hanno un ventaglio di opzioni ma scelgono, sotto i riflettori, sempre la più ostativa. A destare allarme sociale non sono i grandi o piccoli reati finanziari, non sono le maxi truffe. È la microcriminalità, i piccoli raggiri quotidiani. La selezione per entrare in galera avviene anche così. “Dentro ci finisce il clochard, il clandestino, il piccolo spacciatore o il drogato”, dice ancora Maisto. “Al tribunale di Milano c’è una giustizia dei piani alti e una dei piani bassi. E al piano basso ci sono i processi per direttissima, con l’avvocato che patteggia perché c’è una difesa remissiva, che non ha nemmeno voglia di combattere. È ai piani alti che la difesa fa le grandi arringhe, non nel seminterrato. È lì che nascono le carceri”. La durata dei processi avvantaggia sempre chi detiene il potere. Un bravo avvocato che trova cavilli per rimandare le udienze, per non arrivare a processo, usufruisce della migliore amnistia che si possa trovare sul mercato delle indulgenze: quella della prescrizione che, come non si stanca di ripetere Rita Bernardini, “cancella 170mila processi ogni anno”. Anche questa è una selezione. Non naturale ma economica. Una riforma vera è impossibile. Non è un segreto che politicamente l’ostacolo sia rappresentato - direttamente e indirettamente - da Silvio Berlusconi. Ogni misura che possa riguardarlo, e gli esempi sono infiniti, sarà guardata con sospetto o con soddisfazione, osteggiata o premiata. Ma una riforma vera è necessaria e non perché “ce lo chiede l’Europa”. Ce lo chiede la nostra Costituzione, i 66mila detenuti che ogni anno passano le forche caudine di celle con uno spazio vitale di meno di tre metri quadri. La ministra Cancellieri, pragmatica e competente, sa che non si farà. Per adesso c’è il decreto, poi ci sarà la sua conversione in legge, magari con degli aggiustamenti. Ma per accontentare Strasburgo c’è una sola possibilità: l’amnistia. L’ultima è stata nel 1990, quando finiva la Prima Repubblica. L’altra potrebbe essere ora. A ogni morte di Stato.
Posted on: Mon, 08 Jul 2013 12:28:50 +0000

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