Ius soli Lo ius soli di stile europeo, il solo in discussione - TopicsExpress



          

Ius soli Lo ius soli di stile europeo, il solo in discussione oggi in Italia, non prevede che il figlio di uno straniero nato sul posto diventi all’istante un cittadino, vuole che ci sia andato a scuola o che i suoi genitori ci vivano da tempo. La distinzione tra ius soli puro, che per semplicità chiamiamo all’americana, e ius soli temperato all’europea pareva ormai entrata nel dibattito pubblico nostrano. Non solo, sembrava pure che la variante europea fosse giudicata con favore da un numero crescente di politici raziocinanti di qualunque partito, non ultimo il governatore Zaia. Una riforma di questo tipo che – come è stato detto – allineerebbe la legislazione italiana alla gran parte degli Stati europei può rappresentare ancora motivo di scandalo? Pare proprio di sì. C’è chi, come Sartori, si indigna e dà dell’ignorante proprio a coloro che invece non ignorano di cosa si stia parlando. Lo spauracchio di uno ius soli all’americana, che nessun politico responsabile ha mai proposto per l’Italia, viene agitato ancora in questi giorni fuori luogo e fuori tempo: un fantoccio polemico per ripescare un’espressione di Einaudi. Ma coloro che se la prendono con una proposta inesistente, così come quelli che mugugnano perfino per una mini revisione che prevede di non tener conto di inadempienze amministrative dei genitori, di fatto hanno un bersaglio più grande e assurdo: l’immigrazione. Purtroppo l’assurdo alligna tra gli umani. La riluttanza di fondo ad accettare l’immigrazione è un malessere diffuso tra molti cittadini europei, non solo tra gli italiani. Gli scossoni sociali non si assorbono facilmente, richiedono tempi lunghi. Proprio per questo è bene inserire elementi di razionalità che contrastino le pur comprensibili reazioni di spaesamento e di insofferenza. Si tratta di un esercizio abusato, ma evidentemente vale la pena di ripeterlo di tanto in tanto. Ci riprovo. Si può razionalmente pensare che la presenza di immigrati sia un fenomeno temporaneo e reversibile? Si può ancora credere che si tratti di un incidente di percorso della società italiana, miracolosamente destinata a restare, unica nell’occidente, popolata di soli autoctoni, tutt’al più contornati da lavoratori stranieri destinati ad andarsene? Le ultime valutazioni indicavano più di 5 milioni di residenti stranieri, l’8 per cento della popolazione, con percentuali più alte sulla popolazione più giovane e sui nuovi nati. Possiamo ignorare il peso dei numeri? E vogliamo sul serio credere che le attività preminenti tra queste persone consistano nel delinquere o bighellonare per strada? Nel 2012 gli immigrati erano il 10,2% degli occupati in Italia. I lavoratori stranieri rappresentano un polmone della nostra economia: sono infatti più presenti dei nazionali nelle nuove leve degli assunti, ma sono anche stati colpiti dalla crisi molto più degli italiani. Tra il 2008 e il 2012 il loro tasso di disoccupazione è cresciuto di 2 punti percentuali in più rispetto a quello degli italiani. Chi auspica il blocco degli arrivi dall’estero dovrebbe osservare che quando l’immigrazione rallenta o si ferma è assai probabile che l’intera economia sia inceppata. La crisi ha drasticamente ridotto i nuovi ingressi di immigrati e il governo ha programmato per ora solo permessi di lavoro stagionale. Si segnalano flussi di rientro nei Paesi di origine. Sono tutti segnali negativi: ci dicono che qui manca lavoro per tutti, ma ci dicono anche che la componente straniera rappresenta un fattore di flessibilità molto importante per il sistema economico. Gli immigrati costituiscono poi circa l’80% del lavoro domestico. Mi pare superfluo ricordare a chi vede l’immigrazione come un flagello biblico, il ruolo determinante che questi lavoratori svolgono nel coprire grosse lacune del nostro welfare familiare. Le migrazioni evidenziano problemi, carenze congiunturali e strutturali. E non sempre le risolvono. In una recente conferenza al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, un brillante economista, Eric Hanushek, ha illustrato – tema ormai ben noto – la forte relazione empirica che esiste tra capitale umano, tra competenze realmente acquisite, da una parte, e crescita economica, dall’altra. E ha indicato l’Italia come un Paese perdente nel confronto con altre economie avanzate: attardato sia sul fronte delle capacità acquisite con l’istruzione, sia conseguentemente sul fronte della crescita. Si aggiunga che il nostro Paese esporta più studenti universitari, più giovani laureati e lavoratori altamente istruiti di quanti ne importi. E questo è un danno. Altro che chiudere le porte a giovani stranieri capaci, per paura che rubino il lavoro ai nostri. Dobbiamo, invece, impegnarci a importare capitale umano e dovremmo al contempo produrne di più: pretendere maggiore qualità dai nostri sistemi di istruzione e più raccordo tra istruzione e lavoro. Si tratta di investimenti a lungo termine, ma necessari e, con il tempo, tremendamente redditizi. Per intanto è bene avere chiaro che la domanda di lavoro non è un bacino immutabile o destinato a un’inevitabile contrazione, non è una torta che lavoratori nazionali e immigrati si litigano tra loro. La presenza sul territorio di lavoratori capaci ai vari livelli è uno dei fattori, anche se certo non il solo, che può attrarre capitali esteri, ingrandire la torta, creare nuove opportunità di lavoro per tutti. Una società e un sistema economico piccoli, chiusi, spaventati e senescenti sono proprio l’opposto di quel che ci serve per la crescita. E non dimentichiamo che gli stranieri sono anche consumatori, inquilini, acquirenti di case: sono anche domanda, non solo offerta. Insomma, se è innegabile che l’immigrazione crei problemi e che quei problemi vadano affrontati, tuttavia fissare l’attenzione solo sul lato oscuro non aiuta a far crescere l’Italia. La cosa vale anche con riferimento specifico ai bambini stranieri. La nostra popolazione è pericolosamente vecchia. Dobbiamo dolerci del fatto che stiano nascendo meno figli di immigrati. Abbiamo un gran bisogno di quei bambini ai quali non si vorrebbe dare la cittadinanza prima dei 18 anni. Ne abbiamo bisogno non solo per la nostra economia, in particolare per l’annoso problema del saldo pensionistico, ma perché ci piace che scorrazzino nei cortili delle nostre scuole e nei nostri giardini. Non credo che basti dare a loro e ai loro genitori un permesso di soggiorno permanente, come suggerisce Sartori. Peraltro già ora, dopo 5 anni di residenza regolare, si può ottenere la carta di soggiorno CE a tempo indeterminato e farla avere ai familiari. Può darsi che alla gran parte degli immigrati questa soluzione vada bene, ma dovrebbe preoccupare gli italiani. Operare in modo che milioni di lavoratori e di loro discendenti siano esclusi il più a lungo possibile dalla cittadinanza e dalla comunità politica non giova alla salute della nostra democrazia. Forse la bontà a volte ci inganna, ma il malanimo, a pensarci bene, ci inganna più spesso. GIOVANNA zINCONE La Stampa
Posted on: Thu, 27 Jun 2013 06:40:24 +0000

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