January 28, 2012. (Romereports) “The Catholic Church: Essence, - TopicsExpress



          

January 28, 2012. (Romereports) “The Catholic Church: Essence, Reality and Mission.” This is the title of Cardinal Walter Kaspers new book. It talks about the state of the Church, as seen from his experience as a theologian and former president of the Pontifical Council for Christian Unity. Card. Walter Kasper President Emeritus, Pontifical Council for Christian Unity “I wanted to share these stories with my experience in theology. I come from the school of Thuringia, where Ecclesiology is very important. I wanted to make a contribution that would help the Church overcome the crisis its now facing. I wanted to help the faithful, priests and students.” Card. Kurt Koch President, Pontifical Council for Promoting Christian Unity “The book is not only the academic work of a teacher, or just the book of a bishop. Above everything else, its a book written by a Christian who talks about his life and his relationship with the Church.” Cardinal Kasper says the book goes beyond a simple analysis of the Church. Rather it deals with three key points, including the mission of the laity, the role of women in the Catholic Church and also pedophilia. Card. Walter Kasper President Emeritus, Pontifical Council for Promoting Christian Unity “I made a real analysis, an honest one that shows the lights and shadows of the Church. I concluded that in a situation like the one were in now, we need to return to our deep roots, go back to the Scriptures, our Scholastic theologians, because we cant invent or make a new Church, we need a renewed Church, especially spiritually.” Rosino Gibellini Editorial Queriniana “After his thorough analysis, as only a German can do, he concludes that this time of crisis should become Kairos, meaning the right moment to re-evangelize in a way thats more convincing, to evangelize so people can live the Gospel in a practical way.” Walter Kasper is 78 years old. He was ordained in 1957. When it comes to higher education, hes been a leading figure. He has received over 20 honorary doctorates. But what hes most proud of is his work in promoting unity among all Christians. romereports/palio/cardinal-kasper-discusses-the-lights-and-shadows-of-the-church-in-his-latest-book-english-5938.html#.Uplqk16A1kg By Antonio Russo University of Trieste Chiesa cattolica. Essenza, realtà, missione A proposito della summa ecclesiologica di Walter Kasper Con questo recente volume, dato alle stampe in edizione italiana per i tipi della Queriniana di Brescia, Walter Kasper, Presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani e uno dei più autorevoli e rappresentativi teologi contemporanei, porta a compimento un proposito lungamente maturato negli ultimi vent’anni. Infatti, le istanze fondamentali che si snodano in tutto l’ordito dell’opera attestano ancora una volta il ricorso costante ad un animus “che vuole coniugare fra di loro accuratezza scientifica e esperienza pastorale e ecumenica” e si manifesta nell’impegno, scientifico e accademico, di rappresentare una Chiesa missionaria che vuole essere solidale con “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi”. Il suo motto episcopale ed ora cardinalizio, non a caso, è preso a prestito da un passo della lettera agli Efesini: Veritatem in caritate. Questo suo tratto peculiare può essere adeguatamente espresso dalla convinzione che la teologia e la filosofia vivono oggi in un mondo connotato essenzialmente dalla coscienza della processualità storica e che tutta la chiesa, anzi tutta la società, esperimenta “il passaggio da una concezione piuttosto statica dell’ordine della realtà tutta ad una concezione più dinamica, evolutiva, storica”. In questa ottica, la Chiesa, non più acies ordinata, accoglie in sé diverse prospettive tra di loro difficilmente armonizzabili: essa è cioè circumdata varietate, in una società in cui lo stesso Cristianesimo si trova in una situazione, nel senso letterale del termine, di diaspora. Occorre, allora, individuare, accanto a quelle già esistenti, altre forme di presenza nel mondo e propugnare decisamente e con costanza una nuova evangelizzazione, nell’ambito della famiglia, della vita privata e pubblica, della scuola e della formazione in generale. Questo non è altro che il problema del rapporto tra teologia (dogma) e storia o filosofia, cioè appunto anche il centro di gravità attorno a cui si snodano i vari contributi di Walter Kasper, nelle loro molteplici articolazioni discorsive. Si tratta, qui, di una questione che si è rivelata “come il problema centrale della teologia del Ventesimo secolo”, che è “ben lungi dallesser stato condotto ad una soluzione universalmente accettata”. Tale problema, lungamente preparato dalla Scuola cattolica di Tubinga (con J. S. Drey, A. Möhler, J. E. Kuhn), dalle ricerche di H. Newman e dall’acceso dibattito svoltosi in piena crisi modernista, emerse con rinnovata forza ed ebbe un effetto dirompente soprattutto con le polemiche suscitate attorno al pensiero e alle figure emblematiche di M. Blondel e A. Loisy, che raggiunsero verso la metà del secolo scorso il loro apice con le vicende relative alla cosiddetta Nouvelle Théologie, cioè con le posizioni di Henri de Lubac. L’allora padre Gesuita, successivamente creato cardinale da Giovanni Paolo II, venne infatti coinvolto in prima persona come capofila, o meglio come simbolo del rinnovamento teologico, e fu da più parti visto come il precursore di molte delle più significative tendenze teologiche successivamente confluite nel Concilio Vaticano II. Non a caso, le principali istanze di quelle discussioni, poi, vennero riprese, fatte proprie e ulteriormente approfondite in pieno clima conciliare: in ambito cattolico da K. Rahner, Hans Küng, J. Ratzinger, H. Urs von Balthasar, E. Schillebeeckx; e da parte protestante con J. Moltmann e W. Pannenberg. Questa dimensione storica e il tentativo di trovare una adeguata soluzione agli aspetti problematici ad essa correlati danno un’impronta dominante alla produzione di Walter Kasper, che si rispecchia fedelmente nei lavori da lui dati alle stampe. Egli, infatti, ha posto al centro della sua riflessione proprio tale nucleo tematico, per estendere il dibattito ad una valutazione complessiva del problema del rapporto teologia, filosofia e storia nellambito della teologia contemporanea. Il suo punto di abbrivio è costituito dalla convinzione che la teologia contemporanea abbia smarrito ogni costanza di contenuto e sia perciò immersa in una crisi d’identità senza precedenti, dovuta ad un eccessivo pluralismo nel tentativo di tener conto che “il problema della storicità allinterno della teologia non lo si può limitare a alcune poche questioni della esegesi, della dogmatica e della teologia morale; è un problema universale e riguarda il pensiero moderno e la fede come un tutto”. Per dare un contributo alla soluzione di questi problemi e attingere nuova linfa vitale e “nuova forza missionaria”, secondo Kasper, il compito primario della teologia è quello di essere scientifica, nella tradizione della Chiesa, a confronto con le odierne correnti di pensiero, aperta a nuove prospettive e riferita alla prassi. Il problema della storia e dell’assoluto nella storia, che non è da confondere col relativismo, è perciò il suo punto nodale. Filosoficamente, qui, il punto di partenza di Kasper è il pensiero del cosiddetto secondo Schelling, che rappresenta la dissoluzione dell’idealismo razionalistico di Hegel e, nel contempo, anche il passaggio ad una filosofia postidealista, con la scoperta della storicità della libertà. La questione metafisica si trasforma così nella metastoria e nel problema dell’assoluto nella storia. Nella libertà, cioè, si mostra un assoluto, che oltrepassa ogni inveramento autonomo del soggetto finito e rinvia ad una libertà assoluta rivelantesi liberamente nella storia. Il discorso teologico, allora, diventa una tappa obbligata per la comprensione della tarda filosofia di Schelling. Per spiegare il nesso tra filosofia e teologia, natura e grazia, Kasper, sulla scia di teologi cattolici come Drey, Staudenmaier, inserisce il tema della rivelazione e del suo apice in Gesù Cristo, nel quale Dio non solo rivela se stesso ma anche il destino umano ultimo. Ma Gesù Cristo nello Spirito è presente nella Tradizione viva e attiva della Chiesa; e così il principio dell’ecclesialità diventa fondamentale. In quest’ottica, Kasper vede Drey – e poi Möhler-, come un autore decisivo. Quest’ultimo, ha proposto una visione del Cristianesimo come universale concretum, cioè fondato sulla persona storica di Gesù Cristo, ed è partito da esso per tracciare le linee di una teologia come scienza positiva, trasponendo alcune idee di Schelling sul terreno metodologico ed enciclopedico. Tutto ciò ha comportato l’elaborazione di “una teologia come scienza ecclesiale” o sistema cattolico, con evidente riferimento alle discussioni sollevate da Kant e dalla sua celebre definizione di sistema come “l’unità delle molteplici esperienze sotto un’idea”, “concetto razionale della forma di una totalità”. Nell’ambito dell’Idealismo, con l’inserzione in esso della dimensione storica, per Kasper, questa concezione aveva dato luogo ad una visione organicistica del sapere inteso come scienza. Drey, dal canto suo, in dialogo critico con i principali esponenti dell’Idealismo tedesco, ne ha tratto profitto e ha proposto “la costruzione della fede cristiano-religiosa tramite un sapere, sulla base della Chiesa cattolica, nello spirito di quella Chiesa”. Così, ha superato il metodo dei dicta probantia e dato avvio a una teologia in cui il riferimento alla Tradizione, ma anche a una rigorosa scientificità e a una prassi costantemente orientata verso i problemi concreti, formano un tutt’uno. Nei suoi tratti essenziali, questo discorso per Kasper non è stato affatto superato. Anzi, solo oggi le esigenze più genuine della Scuola di Tubinga hanno raggiunto la loro piena maturità. Occorre allora ri-considerare la teologia come scienza unitaria; e, perciò, non si può limitare il ruolo della storia a poche questioni, perché la storia riguarda la fede come un tutto e, per dare una risposta, è necessario partire dal principio dell’ecclesialità. Questo è avvenuto con il Vaticano II, che ha fatto propria la nozione di communio o di ecclesiologia eucaristica. Per il teologo tedesco, il Concilio ha offerto in merito una precisa e normante categoria, ben conscio di queste difficoltà. Così ci ha dato la Magna Charta per l’ulteriore cammino verso il terzo millennio, parlando della Chiesa come sacramento, “signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis” (LG 1), e del fatto che omnes christifideles devono essere fermenti instar ad mundi sanctificationem. Tutto ciò significa affermare che “il principio dell’ecclesialità è quello che più degli altri connota la teologia cattolica”; e che il discorso teologico “è possibile soltanto all’interno della communio della Chiesa”. Tuttavia, “non bisogna...fare del concilio un mito, nel quale ognuno proietta e trova i propri desideri”. Per scansare questo rischio, i testi e i documenti che in esso vennero discussi e poi approvati devono essere interpretati, tenendo conto di tutti gli altri testi, delle fonti a cui essi attinsero, delle discussioni intraconciliari che hanno portato infine alla loro promulgazione e, poi, delle loro recezione viva nell’ambito della Chiesa. Una tale ermeneutica vede il Concilio come un momento di continuità e di riforma rispetto al passato e mostra che esso si è collocato all’interno della grande tradizione, “come suo interprete autentico per una nuova situazione contraddistinta da un rapido e profondo cambiamento”. Questa linea interpretativa è stata fatta propria dal Sinodo straordinario dei vescovi del 1985 e, in tempi più recenti, da Benedetto XVI, “a suo tempo uno dei teologi più influenti durante il concilio, [che] ha impresso un impulso importante all’ermeneutica conciliare”. Qui, però, ci troviamo di fronte alla necessità di dover precisare i termini del discorso, e soprattutto di dare significato effettivo a quelli di continuità e riforma. Sulla scorta della Scuola di Tubinga e della dottrina dello sviluppo di John H. Newman, e poi di Y. Congar, H. De Lubac, nella teologia contemporanea è emersa sempre di più l’idea di una tradizione viva, con la conseguente distinzione tra l’unica Traditio e le molte traditiones; tra ciò che permane ed è sempre vincolante e ciò che, invece, esprime l’unica Traditio in forme e modi storicamente contingenti ed effimeri, a volte anche deformandola, stravolgendola, come è avvenuto nel dopo Concilio, in cui ci furono zone di ombra e “un periodo oltremodo difficile”. . Secondo Kasper, la continuità non è da intendere come sterile ripetizione del passato; e la riforma non è soltanto un semplice ritorno all’origine o ad una situazione precedente ritenuta autentica, ma acquista anche il significato di rinnovamento, di attualizzazione del Vangelo, che è opera dello Spirito Santo e non nostra. Tutto ciò accade “affinché l’antico, l’originario e il permanentemente valido, non sembri vecchio, ma si affermi di nuovo nella sua novità”, per far si che la Traditio sia “sempre giovane e fresca”. Ci troviamo così di fronte ad una “ermeneutica pneumatologica del rinnovamento”, espressa a chiare lettere dallo stesso Giovanni XXIII nella Costituzione apostolica Humanae salutis (25.12.1961) quando indisse il Concilio Vaticano II. Lo sviluppo ulteriore di queste argomentazioni ha posto le basi in Walter Kasper per giungere alla elaborazione di una propria ecclesiologia in chiave carismatica e pneumatologica, sulla scia della cristologia pneumatica espressa nel suo volume su Gesù il Cristo e dell’insegnamento del Concilio. Questo quadro di pensiero è stato rafforzato dalla sua partecipazione, come segretario teologico, al Sinodo dei vescovi del 1985. Da allora in poi, Kasper ha accolto in pieno, come “determinante”, e fatto inserire nei documenti sinodali, il nucleo centrale dell’ecclesiologia conciliare costituito dall’idea di Chiesa come communio; e ha cercato di determinare meglio e di sviluppare concretamente l’idea di una Chiesa, che non è un’istituzione esteriore creata dalla comunità dei credenti e né tantomeno una specie di “ipostasi trascendente che preesisterebbe realmente all’opera di Cristo nel mondo”, ma è piuttosto “un’unica vivente realtà di comunione (communio-Wirklichkeit), popolo di Dio nella sua intera diversità di carismi, ministeri e servizi, una Chiesa che siamo tutti noi”. Questa nozione di communio o di ecclesiologia eucaristica è stata l’idea guida a cui egli si è attenuto per un costante rinnovamento spirituale che coinvolga non solo il singolo, ma anche la comunità dei credenti. Ma qual è il significato preciso e concreto di questa idea, nuova e nello stesso del tutto legata alle origini del Cristianesimo? Per Kasper, il Vaticano II, nei suoi testi ecclesiologici, ha posto l’accento sulla realtà della Chiesa intesa come communio, muovendosi sulla scia del rinnovamento teologico della prima metà del XIX sec. a cui ha contributo soprattutto Henri de Lubac, che con “le sue opere Catholicisme e Surnaturel” ha condotto “in maniera decisiva…ad una nuova determinazione del ruolo e della presenza della Chiesa cattolica nel mondo moderno del ventesimo secolo”. Il teologo francese, nel trattare del rapporto tra natura e soprannaturale, da una parte ha mostrato in maniera convincente i limiti e il carattere moderno e quindi non tradizionale della dottrina estrinsecista che è a monte del moderno processo di secolarizzazione; d’altro canto, poi, ha cercato, con un’ammirevole conoscenza della Tradizione, di offrire un solido fondamento teologico alla soluzione proposta da Blondel che ha consentito il superamento, con tutto il bene che esso implicò in pieno clima modernista, e dell’immanentismo e dell’estrinsecismo. Nelle discussioni, a volte roventi, che questo dibattito suscitò, non era in gioco soltanto un puro e semplice confronto fra diversi indirizzi teologici: il centro di gravità, infatti, era costituito dal tentativo di colmare l’abisso che si era venuto creando tra kerygma e mondo della vita, per trasformare l’uomo e rinnovare il volto della terra, così da rispondere al segno dei tempi con una nuova incarnazione del Cristianesimo e rompere con “la maladie moderne du catholicisme” o con le “verhängnisvolle Verengungen der späteren Entwicklung”. I risultati migliori di questo dibattito hanno condotto, secondo Kasper, che qui segue Le Mystère du Surnaturel, alla reintroduzione e alla attualizzazione della tesi tomana del desiderium naturale videndi Deum, dopo che la sua sconsiderata obliterazione da parte di certa illuministica teologia postconciliare aveva portato la Chiesa occidentale sull’orlo di una profonda crisi e condotto alla cosiddetta secolarizzazione, in cui si era giunti a mettere in questione lo stesso valore sacramentale della Chiesa. E così, la via d’uscita dalla crisi postconciliare, per usare il titolo di un volume del de Lubac a cui Kasper esplicitamente rinvia, in vista del superamento del Dramma dell’umanesimo ateo, è possibile soltanto con un ressourcement. Questo ritorno alle fonti ci è stato proposto dal Vaticano II, consente di rigettare “l’estrinsecismo di natura e grazia, chiesa e mondo” e trova la sua formulazione positiva nell’antropologia orientata su base cristologica della Gaudium et Spes 22 e 45. Per Kasper, la determinazione del rapporto tra natura e soprannaturale, natura e grazia, va di pari passo con l’idea di Chiesa, che, in quanto sacramento universale di salvezza, è “un momento essenziale all’interno del tema natura, grazia e cultura. In essa la corretta determinazione del rapporto di queste tre grandezze deve essere disegnata in maniera visibile. Nella sua configurazione umana essa deve rispecchiare l’annuncio della grazia e del Dio misericordioso; essa deve essere Chiesa con un volto umano; deve conservare la sua propria identità e avere il suo proprio profilo“. Il discorso, perciò, si sposta sul terreno dottrinale della Lumen gentium, cioè sull’insegnamento ecclesiologico del Vaticano II. Per Kasper, infatti, la nozione di Chiesa espressa dalla Lumen Gentium è “l’idea guida dell’ultimo Concilio” e non vi è altra via che la Chiesa possa percorrere nel futuro se non quella di attuarne i contenuti. Tutto ciò deve avvenire nel solco della Lumen gentium, della Gaudium et spes e degli altri documenti elaborati ed approvati dai Padri sinodali. Nel primo dei testi citati, non a caso, sin dalla prima parte si parla, in senso tipicamente paolino, De ecclesiae mysterio. Questo sta ad indicare che “nello Spirito e mediante Cristo noi abbiamo accesso al Padre e così veniamo resi partecipi della natura divina. La communio delle chiese è prefigurata, resa possibile e supportata dalla communio trinitaria: in definitiva, come afferma il Concilio ricordando il vescovo martire Cipriano, essa è partecipazione alla stessa communio trinitaria (LG 4; UR 2)“. L’importanza della communio sul terreno ecclesiologico risale a monte già a san Paolo (1 Cor. 10, 16sgg.), poi viene ribadita da sant’Agostino (In Johann. Tr. 26, c.6 n.13: PL 35, 1613) a cui si ricollega eplicitamente la Sacrosanctum Concilium (SC 47, ma anche Lumen gentium 3; 7 e 11). Con questo ricorso all’antica Traditio cristiana, biblica e patristica, per Kasper, il Concilio ha inteso sanare una situazione che a partire dall’11 secolo aveva portato, di deviazione in deviazione, sempre di più ad un abbandono del realismo eucaristico che fonda quello ecclesiale e ad accentuare, come è stato ampiamente dimostrato da Henri de Lubac, gli aspetti esteriori della Chiesa “nelle sue forme più contingenti”. Occorre perciò tenerne conto, e ciò significa che è necessario intendere la Chiesa non soltanto come “immagine della communio trinitaria, ma anche come la sua riattualizzazione. Essa non è solo segno e strumento di salvezza, bensì anche frutto di salvezza. In quanto communio eucaristica, la Chiesa è la risposta sovrabbondante che viene data al problema umano originario di comunione“. Nel solco di queste posizioni, si è variamente configurata gran parte della ricerca cattolica soprattutto a partire dagli anni ’60, con esiti non riconducibili ad unità di intento e di tematica. D’altronde, negli stessi documenti del Vaticano II non si è arrivati a fissare con stabilità e continuità, cioè in maniera rigorosamente omogenea e organica, pur riconoscendone l’importanza centrale, l’uso linguistico del termine communio. Accanto ad esso, infatti, sono stati adoperati altri concetti come communitas, societas, ecc; la stessa idea di communio è stata impiegata in maniera differenziata; e, infine, sono riemerse con forza nel tessuto ecclesiale dottrine individualistiche e soggettivistiche, che, insieme a molti altri fattori, hanno impedito la piena attuazione dei testi conciliari. Si spiegano così gli ostacoli e le incomprensioni a cui è andata incontro l’ecclesiologia eucaristica e che ancora hanno l’effetto di ritardarne la recezione. Tutte queste difficoltà non sono insormontabili. Il primo passo da compiere, per superarle, è quello di cogliere veramente la lettera e lo spirito dei testi sinodali come un’unità, cercando di tener conto del fatto che essi affondano “le radici in un ressourcement, in un rinnovamento basato sulla Bibbia, la patristica e l’alta scolastica”. Dobbiamo, perciò, ritornare nuovamente ai testi e alle fonti da cui essi hanno attinto e di cui la stessa Chiesa vive, perché la communio non è da intendere come una pura e semplice aggregazione di fedeli, non è “un incontro ed una assemblea della comunità” che si realizza a partire dal basso, ma è “partecipazione all’unica verità, all’unica vita e all’unico amore che ci sono comunicati da Dio, per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo, attraverso la Parola e il Sacramento”. Sul terreno ecumenico, poi, il termine koinonia o communio sta ad indicare l’idea di participatio ai doni offerti da Dio, soprattutto all’eucaristia, e implica il significato di communio sanctorum particolarmente apprezzato dalle Chiese orientali. Non a caso, nel decreto conciliare sulle Chiese orientali (OE 13) e in quello sull’ecumenismo (UR 14sgg; UR 22) si parla di communio eucharistica. Ma non solo. Difatti, anche ad intra il Concilio, e precisamente nella Lumen gentium 23, afferma “che la Chiesa cattolica consiste nelle e dalle chiese locali”. Parlare di unità della Chiesa in termini di communio, equivale di conseguenza a “ridare spazio ad una legittima varietà di Chiese locali, all’interno di una più vasta unità di fede, degli stessi sacramenti e ministeri”. Così, il legame tra comunione ecclesiale ed eucaristica, per non pochi aspetti acquista il senso di un congedo dall’esclusivismo ecclesiologico e dalla piatta, arida e unilaterale uniformità “sviluppata in termini di unità, nel secondo millennio, un tipo di riflessione ecclesiologica che è stata e resta ancor oggi una delle ragioni essenziali per la separazione delle Chiese d’Oriente dalla Chiesa latina occidentale”. Non a caso, l’ecclesiologia di communio oggigiorno è stata, secondo Kasper, riconosciuta “in larga misura come un patrimonio comune nella teologia cattolica e ortodossa e, in parte, anche nella teologia evangelica protestante”. Tuttavia, per Kasper dire che la Chiesa è caratterizzata come communio significa affermare che essa non è da intendere come se fosse una sorta di federazione, perché l’unità della Chiesa “è una determinazione fondamentale della natura stessa della Chiesa” e “la Chiesa universale non si fonda su un successivo patto, addizione o confederazione di Chiese particolari, così nemmeno queste possono essere considerate come mera ripartizione amministrativa in singole province e dipartimenti dell’unica Chiesa universale. Chiesa universale e Chiesa particolare s’includono a vicenda, tra esse esiste una reciproca inabitazione”. Da questa prospettiva discende, però e spontaneamente, anche la paritetica messa in evidenza, per reciproca inclusione o radicale correlazione, delle differenze, di ciò che è particolare. La Chiesa, è vero, è unica, ma essa è l’ “Unica Sala del Banchetto”, in cui “le vivande che distribuisce sono attinte da tutta la creazione. Veste senza cucitura di Cristo, essa è anche – ed è la stessa cosa – la veste di Giuseppe, dai molti colori...vuole legare un covone abbondante e fitto”. Allora non solo non vi è la demolizione di ogni differenza, il rigetto indiscriminato di tutti gli usi e le tradizioni che hanno caratterizzato e continuano a permeare le varie Chiese cristiane, diverse a seconda dei luoghi e degli apporti umani, ma anzi, “Dio non redime delle astrazioni antropologiche, sempre e dovunque le stesse, bensì uomini e donne fatte di carne e sangue. L’unica Chiesa si concretizza, si incultura, anzi si incarna in un certo senso nello spazio e nel tempo”. E perciò l’unità non è un’uniforme, chiusa e gretta forma di civiltà. La Chiesa cattolica o universale, per questo motivo, “esiste soltanto in e dalle chiese singole (LG 23), è rappresentata in esse e si realizza in esse, in esse opera ed in esse è pure presente”; e perciò ha la propria identità, “nella comunicazione ad intra e ad extra, come un’identità aperta”, e ciò consente all’ecclesiologia di communio di diventare “anche praticamente il fondamento della comunicazione all’interno della chiesa, nonché tra la Chiesa e le altre Chiese, con le religioni non cristiane e con la cultura moderna e postmoderna”. Su questa linfa promettente, si innestano poi altri aspetti e implicazioni. La prima, a cui il Concilio ha pensato e che investe lo stesso ruolo del popolo di Dio e tutta la vita della Chiesa, è il senso da dare alla communio fidelium. Non vi è quindi soltanto la comunione delle chiese che si fonda sull’eucaristia, ma anche una communio fidelium (LG 13) e il suo significato viene precisato dal Vaticano II quando si parla del sacerdozio universale dei battezzati (LG 10) e, poi, della actuosa participatio del popolo di Dio che si fonda su di esso (SC 14). Tutto ciò sta ad indicare che nella Chiesa non vi sono più membri attivi accanto a quelli passivi; tutti sono vocati alla grande opera d’insieme e devono apportare il loro contributo. Il primo compito, allora, viene ad essere quello di impostare una nuova pastorale, una nuova evangelizzazione per edificare “la communio piena e indivisa, la communicatio fidelium”. Tutto ciò implica intendere la trasmissione della fede non come una meccanica e sterile ripetizione del passato, ma nel senso di un processo vitale. Non a caso, alla Tradizione appartengono, secondo il comune insegnamento teologico, due aspetti tra di loro in intima correlazione ed egualmente indispensabili: per un verso, infatti, la Tradizione ha un senso attivo ed è quindi id quo traditur; per altro verso, in senso oggettivo o passivo, e cioè come depositum fidei, essa si configura come ciò che è traditum, id quod traditur. Non la si possiede, quindi, una volta per sempre, ma si è nella Tradizione e la si ha “in quanto la si vive e la si realizza”, in una continua e permanente, sempre nuova, evangelizzazione; perché la “Traditio…in Ecclesia proficit…crescit». Questo discorso acquista sempre più importanza e attualità per via della generalizzata crisi di significato e di disorientamento che oggi vede lo scompiglio delle filosofie, delle teologie, che comporta delle ripercussioni a tutti i livelli e che, in definitiva, “mette in discussione le radici cristiane del continente europeo e i valori cristiani fondamentali e li combatte spesso in maniera intollerante e militante”. In questo contesto, riluttante, scettico e finanche apertamente ostile verso la fede e non certo su punti od aspetti marginali, ma che a volte viene a colpire e si risolve in una sistematica negazione dei suoi principi fondamentali, lungi dal rifugiarsi in un fideismo rovinoso, i credenti devono più di quanto finora non sia stato fatto aver cura di approfondire le ragioni della loro fede, anche perché De fide quae est in nobis ratio reddenda omnibus. Questa motivazione ragionata implica necessariamente e va di pari passo con un impegno personale profondo nella fede, tanto che Kasper, nel concludere il suo libro, afferma, sulla scia dell’esempio dei primi discepoli di Gesù prima della Pentecoste, che “oggi il futuro della chiesa sarà determinato anzitutto dagli oranti, e la chiesa del futuro sarà soprattutto una chiesa di oranti”.
Posted on: Sat, 30 Nov 2013 05:26:03 +0000

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