LA MECCA Come non ricordare, e alla stregua di sublime senza - TopicsExpress



          

LA MECCA Come non ricordare, e alla stregua di sublime senza tempo, perdurante, permanente maniero avvolto fra le ceneri di tutte le fenici che ci riguardarono e ancor ci guardano, senza rovine, paradiso oltretombale al di là di ogni cacciata, caduta o inabissamento atlantideo, la nostra Mecca? “Mecca” era il nome della pasticceria della nostra adolescenza più sconveniente, quella riverberata di tardi pomeriggi baluginanti; la Mecca di straforo, prima delle tristanzuole cene casalinghe, cameratesco suggello di antiche o effimere amicizie, ma anche terrore, gotico meridionale, anfratti e misteri eleusini da picciolo laboratorio di picciolo napoletano. Mi sembra interessante puntualizzare la natura puramente nominale, prima che locativa, di quella Mecca, giacché la vera Mecca era precisamente lui, il pasticciere Giuseppe Mecca… e se i mori, anzi il Moro, l’avrebbero poi ripresa e riconquistata, a nulla o forse a tutto valse comunque la parrocchia cristiana dirimpetto; in ogni caso, la prossimità di crociati a ufo e partenopeo tartufo generava allora senza dubbio un connubio cultuale da stordimento, da idiozia integrale. Si dava da fare fra pizzette e babà, il Mecca, ma soprattutto fra cumuli di paste “mattonate” ch’egli preparava febbrilmente sulla temibile scorta di una ricetta privata, certo inedita, sfornandole a tempo pieno fra capo e collo degli ammaliati frequentatori , tutti imberbi, i quali vi indugiavano a più riprese. Una Mecca nel bel mezzo del deserto capitolino, richiamo ed eco , naso alla luna. E difatti nel gergo romano, nasale e strascicato, l’annuncio di simili reiterate sortite suonava come un arabesco “oh, sto annà alà Mecc’aaah”, un annuncio da muezzin delle tenebre enterologiche. Il giorno della prima scomparsa giunse senza preavviso. La Mecca chiudeva, e il suo officiante veniva rimpiazzato dai mori, anzi dal Moro Carabà, il negro senza stivali, noto accompagnatore di donne di mezz’età, raffinato pasticciere parigino. E la Mecca recitò per anni la propria macabra assenza, ostentando un’identità quasi lapalissiana, talmente lapalissiana da sembrare finta a tutti gli effetti, in un florilegio di chiacchiere e sospetti. Era ripresa, ad libitum, e per sempre. Eppure qualcosa non quadrava – l’oscena quadratura del cerchio vital-demoniaco – , quasi che il fato autentico fosse ancora lungi dal compiersi; si era alla quiete prima della tempesta, alle convulsioni da spiritismo… anni di interminabile sospensione. La Mecca ormai nomata Carabà, nostra Mecca era soltanto a metà, e anche per lo scorrere del tempo, i congedi , gli addii. Dopo un lustro, ancora una volta senza preavviso, giunse il giorno della seconda scomparsa, quella definitiva: volantini sparsi per il quartiere riportavano : “Giuseppe Mecca: scomparso”, assieme alla congettura di un probabile “vuoto di memoria”. Seppi allora che non era bastato prendere la Mecca, trascinarla verso il basso e convertirla in un’oscura minaccia di autodissipazione , un collasso, un prolasso, un viaggio al centro della terra fatto di abissi ed eterne giravolte, dibattersi per poi tacere. Correva , il piccolo pasticciere, fra i rovi e gli alberi di frutta, nell’indifferenza del gelo invernale. Sprofondò nel fiume di peso, e come il precipizio dei suoi tartufi napoletani si inabissò nella cavità esofagea del mondo, divorato, mesmerizzato dal destino. Aveva sessantanove anni, gli anni del giro di vite, del giro di boa, della spirale e del ritorno. Poco tempo dopo scomparve anche Carabà, nel nulla dal quale era venuto alla luce, inspiegabilmente. È oggi la Mecca una ferita asciutta, senza sangue, una caverna cubicolare scavata nel nulla, asfissia pietrificata della materia, immemore di fasti e nefasti, di leggende, di ufi e tartufi, di voi e di me. Coucou, Sèlavy!
Posted on: Tue, 24 Sep 2013 12:15:09 +0000

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