La sarabanda dell’umana follia in “TERRA ALLA TERRA” di - TopicsExpress



          

La sarabanda dell’umana follia in “TERRA ALLA TERRA” di Gianni Brattoli, Corato, Secop, 2012. Finalmente pubblichiamo la recensione di Gianni Palumbo! “Né aria, né fuoco, né acqua, / ma / terra /solo terra / saremo, / e forse / alcuni fiori gialli”: la citazione di Pablo Neruda che conclude il primo romanzo del barese Gianni Brattoli, recente nuova uscita della bella collana “Correlazione universale” della Secop, ne ribadisce l’amara essenza di dolente – ma vigorosa – contemplazione dell’animo e del destino umano. L’opera, di architettura solida, è strutturata in Ringkomposition: si apre sulle esequie di uno dei protagonisti, l’ignobile prete Antonio, e sullo strano rito di Oremus, apparentemente pura estrinsecazione di follia infantile, e si conclude con quella che l’autore stesso definisce una “sorta di Spoon River” – ossia una panoramica sul cimitero paesano – e la macabra scoperta all’interno di un isolato capannone destinato alla demolizione. La necessità immanente della naturale conclusione dell’esperienza umana aleggia costante nel corso del romanzo di Brattoli, in un crescendo di tensione narrativa, che si basa sull’adozione di una felice struttura a “scatole cinesi”. Le storie dei fragili personaggi del microcosmo romanzesco si incastonano le une nelle altre, cedendosi vicendevolmente il passo, in un caleidoscopio di analessi, che – nel finale palpitante – ci riconducono alla situazione iniziale, disvelando le complesse dinamiche sottese ai rapporti tra i personaggi creati dal barese. Tra questi emergono le figure di prete Antonio e dell’anarchico Grisenda, nome che allude, con riferimento alla bolognese torre della Garisenda, all’indole rocciosa e battagliera di costui. L’anarchico è protagonista della retrospettiva più consistente, che ci riconduce ai tempi della guerra civile tra franchisti e fronte popolare e, successivamente, all’epopea partigiana. In tal direzione, Brattoli preferisce non indulgere alle esaltanti mitologie tipiche di tanta letteratura della liberazione e pare assumere come punto di riferimento piuttosto il grande Beppe Fenoglio, che, soprattutto nella Questione privata (la folle quiete del memorabile personaggio di Milton, novello Orlando furioso) e nei racconti dei Ventitré giorni della città di Alba, aveva offerto una rappresentazione tutt’altro che oleografica di tale pagina della storia italiana. Così Brattoli opta per un realismo a tratti crudo, di cui icona appaiono il corpo nudo e i piedi scalzi dell’ormai inerme comandante Franz Muller, riuscitissima demistificazione del superomismo ariano, o l’impeto kamikaze del giovane Walter, sorretto da un odio viscerale che travalica l’attaccamento alla vita stessa. Sin dalle prime pagine sembrerebbe emergere un netto confronto tra l’anima anarchica del borgo, il Grisenda, appunto, e il suo indegno nipote, il prete Antonio. Solo apparentemente esso apparirà risolto a favore del secondo nella successiva sezione del romanzo. La figura del sacerdote appare laida; pregno di fanatismo, che lo induce ad allontanare il popolo dai sacramenti, egli si rivelerà fariseo e ipocrita, pronto ad approfittare della facile credulità di Assuntina Trequarti e di Giulia, sino ad approdare all’orrendo e ignobile delitto. Egli diviene emblema della capacità suasoria– appresa “ai corsi di teologia, nei seminari” – di chi approfitta di un superiore livello culturale e della capacità di adoperare l’arte della parola, allo scopo di raggirare gli umili. Non concordiamo, tuttavia, con l’idea che il male, all’interno del romanzo, acquisisca le sembianze del clero e della Chiesa, perché scientemente Brattoli contrappone al volgare nipote del Grisenda una figura di ben diversa statura morale, don Saverio, “un brav’uomo, a parte la iattura di essere un prete”. Nel capitolo VIII, assistiamo a un dialogo tra l’anarchico e l’anziano sacerdote, che – per il suo francescanesimo militante – gode della stima del mangiapreti. Emblema di pietas, sarà scelto dagli anarchici per accompagnare il feretro dell’amico testone, con Addio Lugano bella a fungere da Leitmotiv e la preghiera di don Saverio a discreto sottofondo. Accanto alla Chiesa corrotta e ottunditrice delle coscienze, si colloca dunque una Chiesa operosa e tutt’altro che lontana dalla società laica. In generale, quella che Brattoli rappresenta è un’umanità in disarmo, flagellata dalle stimmate della malasorte. Correlativo oggettivo dell’assoluta crudezza della sorte riservata a qualsiasi uomo, retto o gaglioffo che sia, è l’asprezza stilistica, che in alcune scene ricerca volutamente l’elemento scoptico e il particolare ripugnante (emblematica la novelletta della popolana scoperta della passione di Ignazio/Oremus per lo zucchero, con la collerica matrona che sprofonda nei suoi stessi escrementi). Anima candida della vicenda è proprio il personaggio del fanciullo lunare, esemplificazione di quanto sosteneva de André, quando affermava che “dietro ogni scemo c’è un villaggio”. Egli appare legato a doppio filo alla figura di un’attempata zia di Montalto, che si era improvvisata (quasi per “partenogenesi”) sua genitrice dopo la morte – per un parto violento – della madre Assuntina Trequarti, personaggio, quest’ultimo, di verghiana sfortuna. La zia di Ignazio – dapprincipio mera figurina scolpita nella roccia – si rivela l’unica energica figura femminile del romanzo (le altre cadranno come le foglie nel mese di autunno, sotto l’accorta regia di prete Antonio e di un fato crudele). Anche il suo gesto finale, apparentemente riconducibile a debolezza, ne rivela una sorta di titanismo matriarcale, cui è affidato il compito di concludere, riconducendo anche le ultime anime salve “alla terra”, la circolare trama del romanzo. Opera di grande passionalità, che si riverbera nelle accensioni di ira (il volto fiammeggiante come quello di un demone del Grisenda che si erge, inutilmente, a Nemesi) dei suoi viscerali protagonisti come nella petrosa vigoria dello stile. E induce il lettore, proiettato in uno scenario straniante, a partecipare simpateticamente alla sarabanda dell’umana follia, sia essa generosa tensione all’idealità o stolido amorale furore. Gianni Antonio Palumbo
Posted on: Tue, 01 Oct 2013 06:57:14 +0000

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