MEMORIE RITROVATE «La camera aveva solo un grande letto - TopicsExpress



          

MEMORIE RITROVATE «La camera aveva solo un grande letto matrimoniale con sopra una coperta rossa, una seggiola e un comò [...]. L’unica finestra aveva le persiane inchiodate e la luce veniva da una lampadina che pendeva dal soffitto. Per tre mesi è rimasta sempre accesa. E per tre mesi mi sono coperta solo con la camicetta, l’unica cosa che mi avevano lasciato» Sono le parole del drammatico racconto di Nisveta, nata a Obudovaz, un villaggio della Bosnia-Erzegovina, rinchiusa a soli 16 anni nel «campo bordello» di Brcko. Era il 1992 e la comunità internazionale aveva da poco appreso notizia degli stupri di massa perpetrati dalle truppe serbe contro le donne bosniache di religione musulmana, nel corso del conflitto civile interetnico scoppiato nei Balcani. Oltre 25000 le vittime sti- mate, in molti casi poco piú che bambine o adolescenti, sottoposte a torture, violenze sessuali e stupri di gruppo, indotte alla schiavitú sessuale o costrette a portare a termine gravidanze forzate, senza contare il numero delle donne assassinate. A sconcertare non erano però solo le cifre, che dietro ogni uni- tà nascondevano una tragedia individuale, quanto l’idea che lo stupro fosse impiegato come uno strumento terroristico e pianifi- cato per annientare il nemico. Non si trattava infatti del semplice effetto di una violenza individuale, compiuta discrezionalmente, da soldati da troppo tempo lontani da casa, costretti alla priva- zione sessuale o alla mancanza di occasioni di «incontro»; quegli stupri non potevano essere considerati soltanto come il frutto di un istinto individuale «virile». L’intreccio tra cultura militare e identità maschile era molto piú complesso. L’arma della guerra alle donne era infatti il risultato di precisi ordini militari impar- titi dall’alto, da comandi superiori. Come spiegare altrimenti la costruzione di lager o di prigioni dove le donne bosniache erano state avviate a migliaia per subire sistematiche e quotidiane pra- tiche di violenza sessuale, non solo a opera della truppa ma anche di ufficiali dell’esercito serbo? L’incanto di una società europea democratica, fondata sui valori di libertà e sul rispetto dei diritti umani, ormai pacificata dall’opu- lenza, si rompeva bruscamente. La violenza contro le donne inter- veniva a disturbare il presente e a mettere a disagio di fronte alla complessità di una contemporaneità che al di là di un superiore senso di «civilizzazione» obbligava a fare i conti con un passato lontano; con vecchi traumi di guerra, ormai calati nel silenzio del- le coscienze, tra verità nascoste e inconfessabili che si credevano relegate per sempre a un oscuro passato. La storia di Nisveta non era stata un’esperienza isolata; molto tempo prima di lei altre donne, in altre situazioni di guerra, lonta- ne nel tempo, erano state indotte alla schiavitú sessuale nei campi militari di prostituzione forzata. Military comfort women donne di conforto ai militari: era stato questo il termine inglese usato per tradurre in maniera a dir poco eufemistica l’espressione giapponese jūgun ianfu, riferita alle oltre 200000 donne asiatiche provenienti dai paesi occupati dalle truppe giapponesi come Corea, Taiwan, Cina, Filippine e in misura minore da Tailandia, Malaysia, Viet-nam e Indonesia, costrette a prostituirsi nei bordelli organizzati dalle autorità militari nipponiche, negli anni Trenta e durante la seconda guerra mondiale. La memoria nazionale (e non solo) aveva completamente oc- cultato le loro storie e la denuncia di una violenza inflitta col solo fine di migliorare il morale e di conseguenza il rendimento bellico delle truppe. Nonostante il coinvolgimento del governo giapponese fosse noto almeno fin dal 1932, solo nella seconda metà degli an- ni Novanta, a piú di sessant’anni di distanza dai fatti, diventava possibile inchiodare le autorità politiche nipponiche alle proprie responsabilità per aver attivamente partecipato alla pianificazione e alla costruzione dei campi di prostituzione militari. Tutto ciò però fu possibile solo grazie alle testimonianze delle vittime superstiti e alle polemiche seguite alle richieste di risarcimento. Uscire dal silenzio, superare il trauma, rompere con un passato di rimozioni e allontanare da sé il peso della discriminazione sociale subita dopo il ritorno nei loro paesi d’origine, erano per le vittime già delle vittorie importanti. Al pari delle comfort women, anche i racconti sugli stupri in Bo- snia, cosí come le tristi cronache degli attacchi aerei sui civili nel- la guerra del Golfo del 1990, sollecitavano ad allargare lo sguardo verso altri scenari e contesti bellici piú lontani nel tempo, riper- correndo il dramma delle violenze contro i civili nel secondo con- flitto mondiale, taciuti per quasi mezzo secolo. Non stupisce allora che, proprio nel febbraio 1992, la regista Helke Sander presentasse al Festival internazionale del cinema di Berlino un film documentario sugli stupri di massa perpetrati nel 1945 dalle truppe sovietiche dell’Armata rossa contro le don- ne tedesche, in una Germania rasa al suolo dai bombardamenti. BeFreier und Befreite (I liberatori e le liberate): un titolo tanto sar- castico quanto tragico per raccontare, attraverso immagini, docu- menti d’archivio e interviste alle vittime, l’orrore di una liberazione vissuta anzitutto come punizione, per mezzo di atroci sofferenze inflitte alle donne di un nemico ormai «vinto». Cosí a partire dalla seconda metà degli anni Novanta e poi di nuovo a seguito degli eventi politici degli ultimi decenni, dal con- flitto nei Balcani a quello in Ruanda, sino alle guerre del Vicino Oriente in Iraq o in Palestina, anche in Italia si assisteva all’emer- gere di nuove tendenze storiografiche incentrate sulle eredità del- le violenze dei fascismi e sui crimini di guerra commessi nel corso del conflitto 1939-45. Il mutato clima internazionale post guerra fredda e la rinno- vata sensibilità al tema dei diritti dei popoli portavano a un supe- ramento di quella «visione della guerra incentrata esclusivamente sulle strategie e le operazioni militari o sugli strumenti bellici»; e parallelamente a una riconsiderazione dei pesanti contraccolpi in termini di morte, sofferenze e violenza nelle vite di milioni di donne e uomini. Riprendere gli studi sulle donne in guerra, ponen- do al centro dell’analisi la loro presenza e l’attività da esse svolta nei conflitti armati del xx secolo, è da allora divenuto inevitabile. Donne come noi fu emblematicamente intitolata una raccolta di te- stimonianze di donne bosniache, pubblicata da Vania Chiurlotto con l’intento di paragonare quegli orrori al ricordo contemporaneo degli stupri compiuti in Italia dalle truppe marocchine nella primavera- estate del 1944 lungo la linea Gustav. È quindi la guerra a segnare il contesto principale nel quale in- dagare le violenze di massa del Novecento, a partire da differenti versanti: dalle violenze di genere nelle dittature latinoamericane agli stupri di massa nella ex Jugoslavia, in Ruanda e nell’area dei Grandi Laghi africani, fino ai casi di abuso sessuale compiuti nel corso del secondo conflitto mondiale, passando per la violenza al- le donne serbe da parte degli eserciti austro-ungarico, tedesco e bulgaro, durante la prima guerra mondiale. Anche questo libro parla di guerra alle donne, ma si concen- tra sul solo caso italiano durante il secondo conflitto mondiale. Al centro dell’indagine è la loro memoria sepolta da anni, il ricordo degli eventi legato al loro vissuto, frutto di percorsi individuali, famigliari, collettivi e comunitari, a volte contorti, cosí come di raggiustamenti e di rielaborazioni, in cui il passato pare ancora in- trecciarsi strettamente e in maniera magmatica al presente. Fortissime sono poi le rimozioni. «Quante altre cose ho senti- to dire che non ricordo perché ho voluto dimenticare», ha affer- mato una delle autrici. Non si tratta però di testimonianze dirette. I racconti, le storie, i diari, le lettere e le memorie che ho scelto di riportare in questo libro sono stati redatti in prima persona dopo molti anni dai fatti, nell’inverno-primavera del 1990, a seguito dell’ondata emotiva su- scitata dalla guerra in Iraq. In quel periodo l’emittente televisiva pubblica Rai3 mandava in onda una trasmissione intitolata La mia guerra, affidata alla conduzione di Enza Sampò e Leo Benvenuti, con la consulenza storica di Giovanni De Luna. Sospeso dopo sole tre puntate, il programma fu utile per raccogliere molta documen- tazione (piú di quella che andò in onda) relativa alle esperienze degli italiani in guerra. Era stata dunque la Tv a dare l’occasione, se non addirittura «la giustificazione e l’autorizzazione, a mettere sulla carta, per la prima volta, eventi ed emozioni che spesso l’immediatezza del vis- suto sconvolto dalla guerra o la successiva fretta di dimenticare» avevano relegato all’oblio. «Oggi ho preso la decisione di accet- tare l’invito della Rai – scrive Livia L. – e con un po’ di fatica mi accingo a parlare di uno dei piú significativi momenti vissuti du- rante la guerra che hanno lasciato in me un terrificante ricordo». La scoperta e il recupero di questo archivio poco visibile, quasi per niente scandagliato, ha quindi significato tornare a fare i con- ti col rapporto tra guerra e violenze di genere e con un universo di soggettività femminili complesso e sfaccettato. Una relazione fortemente intrecciata in cui la molteplicità di esperienze rispetto alla territorialità, ai contesti geografici cosí come a quelli sociali o culturali, è servita anzitutto a ridare voce al «sommerso», al «taciuto» e al «rimosso» della memoria. Ciò vale anzitutto per le «donne comuni», appartenenti ai ceti popolari, lontane dalla militanza politica, che all’epoca del conflitto non avevano trovato il tempo di scrivere – oppure non sapevano farlo –, per le quali raccontare la propria esperienza, anche a distanza di anni, si è rivelata un’irripetibile occasione di riscatto sociale. La storia delle donne tra il 1940 e il ’45 invita però anche a ri- mettere in discussione il fondamento e la legittimità del concetto di «guerra giusta», con le sue strategie e l’uso della forza, com- presa la condotta criminale dei combattenti impiegati nei conflitti armati. Una guerra in cui storicamente le donne diventano botti- no e preda degli eserciti, in quanto vittime di una cultura bellica che, dietro l’aggressione sessuale al corpo femminile, fa emergere il tacito bisogno di garantire l’umiliazione e la resa del nemico da parte del vincitore. È di questo particolare aspetto del conflitto che parlano le testimonianze rimaste sopite per anni nel silenzio o nell’indispensabile oscurità di chi nel dopoguerra ha voluto di- menticare e ricominciare a vivere. Il volume raccoglie poi una serie di lettere, memorie, stralci di diari, pezzi di interviste e appunti tratti dall’Archivio della Memo- ria delle donne del Dipartimento di Discipline storiche dell’Univer- sità di Bologna. È proprio tra queste carte che si dà conto della complessità delle vicende delle donne in guerra, «orribile parola, sinonimo di morte, distruzione, sradicamenti di luoghi e di affet- ti»: non solo la vita delle partigiane che scelsero di aderire alla lotta armata di resistenza, subendo non di rado persecuzioni raz- ziali e politiche, ma anche il racconto e le avventure di guerra di quelle donne legate agli ambienti rurali e al mondo contadino. Sono loro a subire i violenti e feroci contraccolpi della «guerra ai civili» messa in atto dalle truppe tedesche di occupazione per mez- zo di stragi ed eccidi di massa, proprio a causa della dislocazione geografica dell’Emilia-Romagna. Tranne l’unico caso di un’inter- vista – che ho voluto inserire per dar conto della violenza sessuale inflitta a una donna di una frazione di Marzabotto da un gruppo di soldati tedeschi – siamo dunque di fronte a un valido esempio di scritture femminili del Novecento, inedite e di difficile reperimen- to. Memorie in forma di missiva, raccolte nel tentativo di ridare dignità e voce alle protagoniste di quella stagione attraverso il re- cupero di ricordi nascosti, dispersi nel tempo, a volte inconfessa- bili al mondo e a se stesse. Dallo spoglio delle carte sappiamo anche in qual modo le donne conservarono quei ricordi, classificandoli e documentandoli, in os- sequio a una tradizione che da secoli ne aveva fatto le depositarie delle memorie famigliari. Archiviste ante litteram, seppure in una dimensione «privata». Come a dire che se la società si mostrava sorda dinnanzi al loro desiderio di raccontare, esse comunque non erano disposte a dimenticare. Rimosse ma non definitivamente cancellate, le memorie delle protagoniste di questi racconti erano state confinate in un luogo magmatico per poi riemergere intera- gendo con il presente, in un dinamico riagitarsi di meccanismi le- gati al ricordo del passato, all’elaborazione di eventi traumatici e luttuosi e alla narrazione storica ufficiale della guerra. « È una bella scoperta questa della memoria lontana; si rivivono cose che si credevano passate, finite. Si rivedono persone che ormai si credevano dimenticate», afferma una delle testimoni, che non a caso intitola il suo racconto Per ricordare. Assai diversi dalle scritture del tempo di guerra, coeve al con- flitto, si tratta dunque di ricordi selezionati e stimolati da una sol- lecitazione del presente, in una collocazione temporale del soggetto dissimile dall’evento raccontato, e perciò filtrati dalla contemporaneità, da riflessioni tardive e inevitabilmente lacunose in quanto frutto di un’analisi retrospettiva della propria vita. In altri termini, le donne che raccontano in anni lontani dalla guerra non sono piú «l’unica testimonianza dei parenti lontani e in costante pericolo»; la loro scrittura non assume piú il ruolo di un’unica «fonte di consolazione» e di «prezioso strumento per la circolazione di notizie sull’amara realtà del conflitto», facendone delle intermediarie di spazi, luoghi, momenti diversi della guerra totale. Come già rilevato da Annette Wieviorka a proposito delle testi- monianze dei sopravvissuti alla Shoah, al momento di raccontare la propria storia, ogni singolo testimone del passato lo fa «con pa- role appartenenti a un’epoca in cui il testimone testimonia», qua- si sempre «a partire da una richiesta e da un’attesa implicite, esse stesse contemporanee alla sua testimonianza», che pertanto «at- tribuiscono a quest’ultima delle finalità che dipendono da poste in gioco politiche o ideologiche». Nel caso delle memorie tratte dal fondo Rai-La mia guerra, l’equilibrio della scrittura è tutto giocato sul rapporto tra quan- to ricordato alla luce di quanto si è imparato a tramandare, anche in base alla selezione di reminiscenze ispirate al racconto epiconazionale, proprio dell’iconografia monumentale della guerra, e l’importanza di dare nuova luce agli aspetti sottaciuti, rimossi, as- soggettati all’oblio del tempo e all’uso politico che della storia del biennio della guerra civile è stato fatto nell’Italia del dopoguerra. Tra i racconti individuali è facile riscontrare come spesso l’emo- zione del narratore, il suo specifico punto di vista, il ricordo a distanza di anni di ciò che i suoi occhi hanno visto, giochino un brutto scherzo alla ricostruzione storica e alla comprensione degli eventi. Ne è un valido esempio il giudizio sul periodo fascista, là dove è senza dubbio possibile notare una posizione poco critica nei confronti della politica scatenata dal regime. Per alcune delle narratrici pare quasi che durante il Ventennio fascista la vita sia stata vissuta in un pacifico limbo; le violenze dello squadrismo dei primi anni Venti o la soppressione delle libertà civili e politiche sembrano quasi elementi di contorno. «Ci rendemmo conto del- la guerra solo vedendo partire i nostri soldati e ascoltando i bol- lettini alla radio», scrive Eva D. M., originaria di San Donato di Tagliacozzo, piccolo paesino in provincia dell’Aquila. Per lei e la sua famiglia il fascismo svela il suo vero volto solo quando il fra- tello, un «sottotenente di fanteria» di 22 anni, viene trasferito a Taranto, con inevitabili ricadute sulla vita famigliare: «in casa ri- manemmo la mamma, una sorella di qualche anno piú grande di me e io». Donne sole che devono ora ingegnarsi per far fronte al «razionamento dei cibi, [alle] tessere con i tagliandini, la fame del mercato nero, la carenza di vestiari». Anche Elena R. L. R. ammette candidamente di aver condotto, fino all’autunno del ’43, una vita felice prima della guerra: «Mio marito era un militare ed eravamo partiti da un piccolo paese del- la Sicilia per vivere in Abbazia, che in seguito sarebbe divenuta Jugoslavia». Poco importa che per seguire la carriera militare del marito ella abbia dovuto trasferirsi in una piccola città dell’Istria, sul golfo del Carnaro, passata nel 1920 alla provincia italiana di Fiume, lungo quelle terre di confine con la Slovenia dove il «fascismo di frontiera» attuerà la sua spietata politica d’italianizzazione della «razza slava». Le percezioni soggettive e le declinazioni di genere delle espe- rienze di guerra possono indurre ad attivare forme di distorsione della realtà, specie se riconsiderate alla luce della propria salvezza dalla violenza. Sfollata nel piccolo paesino di Rotondi, in provin- cia di Benevento, durante la ritirata tedesca, Concetta M. trova rifugio in casa del podestà assieme alla famiglia di suo fratello e di sua sorella. Un giorno questi riceve ordine dai tedeschi di «far presentare entro le 12.30 tutti gli uomini in piazza». Il cognato e il fratello di Concetta riescono a mettersi in salvo scappando «sul- le selve vicine», cosicché lei e sua sorella si ritrovano sole in casa assieme alla moglie del podestà. La «correttezza» dei soldati te- deschi, nonostante siano proprio questi a irrompere nell’abitazio- ne dandosi alla razzia delle case «alla ricerca di uomini validi e di cibarie o altri oggetti», dà una visione «onorevole» del nemico, il cui comportamento, anziché essere considerato violento, è per- cepito come «amichevole». Non a caso Concetta tiene a precisare il «rispetto» mostrato da «questi soldati in ritirata verso due gio- vani donne», che hanno «offerto loro quanto di meglio aveva[no] da mangiare e da bere: i migliori liquori, le sigarette e tante cose buone anche da portare con loro», sicuramente per distrarli e per timore della loro presenza: Ricordo benissimo che il loro capo era molto comprensivo del fatto che aveva trovato solo due donne e bambini piccoli e ci raccomandò, per il giorno dopo, di metterci al sicuro perché ci sarebbe stato un forte bombardamento perché loro si ritiravano e bombardavano tutto al loro passaggio. Questo ci permise di metterci in salvo insieme con i nostri bambini. Sapemmo poi che gli uomini che erano stati radunati in piazza e poi deportati morirono durante la ritirata dei tedeschi. Ben diversa è la storia di Maria Luigia F., abitante di un pae- sino in provincia di Potenza, che tra i suoi flashback ha presente quando «sono arrivati i tedeschi» con i «carri armati in piazza» e del panico tra la gente che già «il giorno seguente si era chiusa in casa perché i tedeschi violentavano le ragazze e alcune signore na scondevano le figlie sotto la paglia». Sua madre se li vede arrivare in casa, un giorno, all’improvviso: «non fece in tempo a chiudere la porta ed entrarono in casa con delle galline vive in mano; in te- desco dicevano di pulirle e di cucinarle. [...] alla fine un signore del paese che parlava un po’ la loro lingua li convinse ad andare a cucinare i polli in un’osteria». Appare chiaro come il racconto delle testimoni, proprio perché individuale, sia in grado di misurare solamente un microscopico frammento del complesso contesto legato al fascismo e alla guerra totale. Analizzare la memoria significa, dunque, avere la consape- volezza di essere dinnanzi a un’analisi retrospettiva della propria vita: i ricordi individuali non costituiscono descrizioni «oggetti- ve» della realtà storica, di cui pure si è fatta esperienza, ma rico- struzioni a posteriori, sulle quali sono destinate a pesare non solo le forme della rimozione individuale, tanto piú influenti a seconda del livello di traumatizzazione subito, ma anche paradigmi cultu- rali e modelli collettivi d’interpretazione del passato. La necessità di non appiattire il discorso storico sulla sola vi- sione degli eventi data dai testimoni rende inoltre necessario, nei limiti del possibile, smussare il proprio senso di compartecipazio- ne empatica col loro dolore, cercando di sforzarsi ad adottare una visione critica delle loro tragiche memorie. Ciò è vero soprattutto per i racconti delle vittime dei conflitti armati, là dove lo storico si trova dinnanzi a un rischio di carattere etico ancora piú profon- do; quello per cui, in virtú della pietà suscitata dai racconti, si può essere indotti a identificarsi con le vittime in una comune empa- tia del dolore, sacrificando cosí il giusto distacco critico che deve muovere ogni serio tentativo di ricostruzione al di là delle distor- sioni date dalle memorie individuali. È infatti umano provare solidarietà con i racconti di chi ha su- bito uno stupro, di chi ha vissuto la prigionia, la deportazione, le violenze e le persecuzioni nei campi di sterminio o d’internamento. Quando poi a elaborare questi racconti è una donna, può suben- trare addirittura un problema deontologico, perché il fenomeno del transfert tra chi parla o racconta e chi ascolta è costantemen- te presente, fino al rischio di creare una «solidarietà di genere» certamente apprezzabile da un punto di vista morale ma che può condurre in un vicolo cieco. Anche tra le donne esistono infatti differenze socio-culturali ed economiche che meritano di essere tenute presenti al fine di di- stinguere le singole esperienze di guerra e illuminare la complessi- tà dei contesti bellici: le condizioni di vita, sia durante sia dopo il conflitto, non sono le stesse per tutte. Ecco allora spiegarsi il mu- tare del giudizio sul fascismo e l’impatto della guerra per le figlie dei contadini della bassa Romagna, perseguitate per l’attività po- litica dei padri fin dai primi anni Venti e poi per la loro militanza nella Resistenza; le loro storie non sono certo paragonabili a quel- le delle donne con un livello culturale piú alto, appartenenti alla piccola e media borghesia, protette dalla loro condizione di classe anche nelle fasi piú tragiche del conflitto. A dimostrarlo sono le stesse testimoni quando raccontano della possibilità di rifugiarsi all’estero o nelle case di campagna (ex luoghi di villeggiatura dive- nuti rifugi), o di altre condizioni di privilegio. Nelle memorie di Matilde P. tutto ciò è reso con evidente chia- rezza. È la sera del 7 febbraio del ’43 quando si fa ricoverare nel reparto maternità dell’ospedale Niguarda di Milano in preda al- le doglie. Per lei la possibilità di partorire in una «stanza privata, a pagamento», assistita da un’infermiera personale: «trattamen- to ottimo, privilegiato, nell’armadio ho i miei indumenti e la mia pelliccia di agnello sardo. Dico questo perché nella corsia di ma- ternità (gratuita) non si potevano tenere gli indumenti privati e bisognava indossare la vestaglia dell’ospedale (regime fascista)», tiene a precisare. Questa condizione di «favorita» perdura anche durante i bombardamenti sulla città, mentre altre donne sono costrette a scendere nel rifugio, senza nemmeno una coperta per coprire il proprio figlio appena nato: indosso la pelliccia, l’infermiera avvolge nelle copertine della culla il bimbo e scendiamo nel rifugio in cantina. [...] un grande stanzone pochissimo illuminato con tante persone (senza pelliccia) e tante donne dei reparti ostetricia e ginecologia avvolte nelle bianche coperte di lana dei loro letti. Volti sofferenti e spaventati, pallidi di puerpere e operate. Alcune mormoravano il S. Rosario, altre gemevano. In un angolo alcune sedie a sdraio per le private, coperte delle loro pellicce finte o meno e i bimbi in braccio alle madri che non avevano quasi la forza di reggerli. Attigua a questa sala, la sala parto di emergenza (poiché i bimbi nascevano anche durante i bombardamenti) con medici e infermieri meravigliosi. Intanto a tratti si udiva un fischio, poi il colpo di una bomba e immancabilmente a ogni soffio rispondeva un vagito. Microscopici frammenti di un conflitto mondiale, i racconti in- dividuali contenuti nei diari e nei memoriali possono tuttavia tor- nare utili nel restituire un ampio spettro di percezioni soggettive, di esperienze, di motivazioni, di comportamenti e anche di strategie di sopravvivenza, intese come diversi aspetti di un vissuto di guerra; una «guerra totale» che non è solo un asettico oggetto di storia contemporanea ma una dimensione globale dell’esistenza, un terreno di esperienze umane irrimediabilmente segnato dalla distruzione, dallo sfacelo morale, dalla dissoluzione di ogni rapporto sociale. Allo stesso modo, le scritture femminili aiutano a comprendere quale diverso significato il «fare la guerra» abbia avuto per le donne e se sia possibile rintracciare elementi che connotano il linguaggio che descrive e commenta il conflitto come «femminile», piuttosto che «maschile». L’ottica di genere torna ad acquisire importanza pure nel riven- dicare, su un piano di pari dignità storica, il racconto di guerra della gente comune, destinato a rimanere in una sfera personale e famigliare, a differenza di quello ufficiale-istituzionale, retorico e celebrativo tipico delle grandi narrazioni collettive. Non è un caso che questi racconti privati si rivelino spesso assolutamente stridenti con i modelli e i topoi della letteratura resistenziale, chiamati nell’Italia del dopoguerra a esaltare l’eroismo dei combattenti. Le memorie femminili svelano, da questo punto di vista, anche quale sia stato il reale, complesso, articolato e faticoso rapporto della Resistenza col mondo contadino, essenziale per garantire la vita degli uomini. La resistenza armata combattuta da un esercito di volontari, che ha dato credibilità e autorevolezza a quei partiti antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale, già oppo- stisi al regime durante tutto il Ventennio, non segna ovunque una «novità dirompente e un momento di massima discontinuità nella storia nazionale», né gode sempre del pieno appoggio della gente. L’esperienza delle «zone libere» delle «repubbliche partigiane» nell’Astigiano o nella Val d’Ossola, piuttosto che in alcuni comuni dell’Oltrepò pavese o nelle aree contadine dell’Emilia-Romagna, con l’esperimento di una reale gestione del potere popolare «dal basso», attraverso i Cln periferici e altre organizzazioni di massa, è destinata a rimanere in una dimensione confinata ad alcune aree di montagna, mentre nella maggior parte dei casi è lo stesso terri- torio locale a percepire la presenza dei partigiani come un’«inter- ferenza». Ciò significa che i criteri con cui la guerriglia instaura un contatto permanente e bilaterale col tessuto sociale locale non sono ovunque omogenei; e in questo rapporto finiscono per pesare retroterra economici e socio-culturali votati alla conservazione del proprio particolarismo piú che alla condivisione dei radicali pro- getti di mutamento vagheggiati dalla dirigenza politica del movi- mento partigiano. La memoria delle donne aiuta a comprendere questo intricato rapporto grazie a un livello di lettura degli eventi capace di andare oltre il mito del sostegno di massa alla Resistenza, riportando alla luce una realtà dissonante dalla retorica della solidarietà comuni- taria, del consenso politico diffuso, dell’appoggio incondizionato e del sostegno morale e materiale delle popolazioni di paesi, città o villaggi alle formazioni partigiane. Ce lo ricorda con parole mol- to dure Marisa Sacco, l’unica donna della III divisione Giustizia e libertà che opera nelle Langhe al comando di Giorgio Agosti: C’è un problema che mi tormenta un po’, ed è questo: troppe poche donne hanno dato il loro contributo alla Resistenza. Veramente poche. Io dopo la Resistenza per anni non ho avuto amiche, solo amici uomini, perché ero disgustata con le donne. [...] per esempio su una strada del Roero: c’è un coprifuo- co alle sei e mezza, dalla banda mi hanno mandata lí a fare una determinata cosa. C’è una formazione partigiana su, in alto, però io non faccio in tempo a raggiungerla, oltretutto il comandante in quel momento non c’è. Allora c’è un paese, e io busso a tutte le porte, c’erano tutte donne in questo paese, un paese sulla strada. C’era il coprifuoco e dico: «Per favore, in un fienile, in un sottoscala datemi da dormire stanotte». «Va’ via partigiana! Va’ via, vattene, non vogliamo farci bruciare il paese per te!» «Non è vero, io faccio la borsa nera!» «Non è vero, sei una partigiana, va’ via!» Alla decima porta ho mollato. Mi ha dato poi da dormire un uomo che aveva una macchina, faceva il tassista [...]. Io avevo delle amiche, amiche care, amiche da anni. Ogni tanto quando ero in città, c’erano dei momenti non tanto belli in cui dicevano: «Dormite fuori casa stanotte». Io chiedevo a un’amica, chiedevo a un’altra; non ne avevo duemila. Dicevano: «Sí, una notte sola e poi basta». Io dopo la guerra quelle non le ho neanche piú guardate in faccia. Il racconto di Marisa assume il senso di un vero banco di prova delle capacità della guerriglia di radicarsi nel territorio. Esso te- stimonia quanto l’efficacia dell’azione partigiana si possa valutare solo dall’esame delle modalità di formazione, adattamento, inse- diamento e mobilità delle bande sul territorio: sia nella prospettiva di misurare l’attitudine militare dei partigiani, la loro abilità nel muoversi rapidamente nelle aree in cui sono installati, colpendo e occultandosi; sia nell’ottica di ricostruire le forme del rapporto con le popolazioni locali, fondamentale non solo per conseguire un buon successo militare, ma anche per saldare quei legami di soli- darietà umana ancorché politica che consentono di attraversare i momenti piú difficili dell’occupazione tedesca e del passaggio – o della sosta – della linea del fronte. (einaudi.it)
Posted on: Thu, 31 Oct 2013 22:22:39 +0000

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