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PENSIERI Meno speranze possiamo avere riguardo al fatto che il popolo italiano – fra i più furbi e spregiudicati d’Europa – guarisca da un moralismo ingenuo e vagamente giacobino, che gli fa rimpiangere Place de la Concorde quando ancora si chiamava Place de la Révolution. Meglio tagliare una testa di troppo che lasciar libero un colpevole. Una giustizia che funziona male non è avvertita come uno dei nostri grandi mali perché le sue malefatte non si abbattono su tutti contemporaneamente ma sui singoli: e finché non ne sono danneggiati personalmente, finché magari non finiscono in galera da innocenti, i cittadini continuano a pensare che chi si lamenta esagera. Si arriva al delirio di proclamare che le sentenze non si possono criticare, quasi fossero sempre e comunque espressione di quella Giustizia di cui neanche la magistratura potrebbe ardire di essere l’interprete. Già la Legalità è spesso parecchio di più di ciò che è capace di realizzare. Per anni la nazione è andata avanti nascondendo la spazzatura sotto il tappeto del debito pubblico. Purtroppo non si vive eternamente a credito. Ora il Paese è in una gravissima recessione, dovrebbe completamente cambiare mentalità e istituzioni, ma il governo non può imporci le necessarie riforme. Perché gli italiani si ribellerebbero. Il figlio di papà crede che il denaro si ottenga chiedendolo, e quando il papà fallisce pensa soltanto che bisogna chiederlo più imperiosamente. È difficile capire che non si ha il diritto al lavoro ma solo il dovere di tenerselo stretto, se uno lo ha. Che non si ha il diritto alla casa ma il dovere di guadagnare i soldi per comprarsela, soprattutto da quando lo Stato ha ucciso il mercato delle locazioni. Che è eternamente valido il detto per cui “ogni volta che qualcuno ottiene un bene che non ha guadagnato c’è qualcuno che non ottiene un bene che ha guadagnato”. E alla fine il cittadino produttivo può decidere di andare ad operare altrove. Qui sono calati gli Hyksos, non quelli in camicia nera, ma quelli col maglione di cachemire che, invece di dirti ‘va bene’, ti dicono ‘okay!’ e che hanno sempre sulla bocca la governance, giacché, come ti spiegano, siamo entrati ormai nell’era della governance, caratterizzata da processi e strumenti che seppure riferiti a istituzioni pubbliche «esulano tuttavia delle tradizionali forme e dai tradizionali strumenti di governo». Insomma, insieme all’italiano (lingua agonizzante), assieme al mercato (selvaggio), gli anglo-innovatori vogliono buttare alle ortiche anche la vecchia democrazia rappresentativa, con la sua divisione dei poteri, delle responsabilità e delle competenze. Come si vede, tout se tient, per esprimersi in un’altra lingua moribonda, il francese. Analizziamo la possibilità che in uno Stato Democratico, fatto 100 il numero degli aventi diritto al voto, 51 decidano di fare una regola che stabilisca il dovere per gli altri 49 di lavorare per il loro mantenimento (dei 51).Nessuno potrebbe dire che non e’ una regola democratica.Si può arrivare a questo “facendo” non con una regola sola, ma con un deterioramento del sistema realizzando “troppe regole”.Potrebbe accadere nei Paesi dove la furbizia prevale sull’intelligenza, dove il male prevale sul bene, dove la corruzione prevale sul merito e dove la politica prende il sopravvento su chi produce.Questo potrebbe essere successo anche in Italia ed in altri Paesi.Chi maggiormente pagherebbe il conto sarebbero i Giovani dato che l’unico modo per alimentare un sistema “democratico clientelare” e’ quello di alimentare il debito pubblico. Un Paese nel quale il pensiero, le opinioni, le parole devono ubbidire a una certa Ortodossia pubblica, imposta per legge, non è un Paese libero. L’Italia - con gli innumerevoli divieti che, opponendo un ostacolo alla libera manifestazione del pensiero, prefigurano, di converso, il reato d’opinione - lo sta diventando. L’ignoranza dei fondamenti stessi della democrazia liberale ha prodotto una «bolla culturale», generatrice, a sua volta, di una «inflazione legislativa», che sta progressivamente portando il Paese alla fine delle sue (già fragili) libertà. L’eccessivo numero di leggi che, spesso, si sovrappongono e/o si contraddicono l’un l’altra, è l’effetto di 2 cause concomitanti. Prima: della crescita esponenziale, per legge ordinaria, di una tendenza allo statalismo già presente nella Carta fondativa della Repubblica. Se si riflette sul fatto che nella stesura della Prima parte della Costituzione - quella sui diritti - ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss, si spiegano le ragioni del disastro verso il quale la Repubblica, nata dalla Resistenza al fascismo, si sta avviando. Secondo: la dilatazione del potere discrezionale della magistratura, diventata, con le sue sentenze in nome del popolo, il nuovo «sovrano assoluto»; che ha spogliato, di fatto, il Parlamento dell’esercizio della sovranità popolare e vanifica il potere del governo di gestire il Paese; unifica in sé tutti e tre i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) che dovrebbero restare separati e divisi secondo il moderno costituzionalismo. Si vuole creare - attraverso la via del costruttivismo politico e della palingenesi giudiziaria - un uomo artificiale, «l’uomo democratico». Si sta producendo un cittadino - che si crede iper-democratico, ma è solo suddito - fra gli entusiasmi della borghesia salottiera; l’indifferentismo del proletariato, che sogna la rivoluzione socialista; la pigrizia dei media, che girano intorno ai problemi come gattini ciechi; i silenzi del centrodestra, concentrato sull’ombelico del proprio padre-padrone; la nullità del centrosinistra che si aggrappa a chiunque - persino al Papa gesuita! - si mostri ostile alla modernità, al capitalismo, al mercato, alla ricchezza, e aperto al pauperismo. Siamo inclini ad attribuire populisticamente tutte le colpe alla politica o, meglio, ai cattivi politici, che pure non ne sono esenti, e non ci accorgiamo che ci stiamo scavando noi stessi la fossa sotto i piedi, non solo votando certi personaggi, ma ispirandone culturalmente e politicamente la cattiva politica. La «democrazia dei partiti» - col suo carico di progressismo immaginario, di costruttivismo, di vocazione autoritaria e totalitaria, di illiberalismo - non è peggiore del Paese. È il Paese che si porta appresso tutte le tare della sua storia: dalla divisione fra Guelfi e Ghibellini, che è adesso quella fra berlusconiani e antiberlusconiani, alla (mancata) Riforma protestante e alla diffusione della doppia morale (cattolica e controriformista); dal trasformismo, che aveva decretato, nel 1876, la morte della Destra storica (e cavouriana) e creato le premesse del fascismo, al fascismo stesso e, da questo, all’antifascismo; dalla fine del comunismo, come filosofia della storia, alla sopravvivenza dei comunisti come protagonisti della nostra realtà quotidiana: sul filo del trasformismo, hanno cambiato nome, ma non la vocazione collettivista, dirigista e statalista, che ci ha portato, con l’eccesso di spesa pubblica, sull’orlo della bancarotta. Un Paese allo sfascio. Un Paese, , che non sa risollevarsi, e non ci prova neppure, perché la sua crisi, politica, economica, civile, è culturale; a sua volta, il prodotto di una scuola passatista e antimodernista, ancora governata dai reduci del gramscismo e dal cosiddetto cattolicesimo democratico, parodia solidaristica, confessionale, parimenti velleitaria e fondamentalmente totalitaria, dell’egualitarismo comunista. Chi denuncia questo stato di cose, e il fatto che Berlusconi abbia tradito le sue stesse promesse di cambiarle, è condannato, con un salto logico che è una contraddizione in termini, come berlusconiano. In tali condizioni, non si vede come se ne possa uscire, si capisce perché tanti giovani preferiscano emigrare che crescere in Italia e molti talenti non pensino affatto di tornarci dopo essersene andati. Ogni sistema parlamentare liberale, basato sul pluripartitismo, la competizione, è la quintessenza della«compravendita» del voto. Un mercato del consenso, sempre più falsato da sistemi elettorali maggioritari che vengono fatti passare come razionalizzanti il voto, quandolo scopo recondito è quello di coartare le scelte dell’elettorato in modo da dirottarle verso il centro-sinistra dello scenario politico. Luogo notoriamente presidiato dai cosiddetti «moderati-intelettuali,depositari del verbo e della sapienza», di norma esponenti dei ceti sociali medio-alti. Una sorta di canalizzazione della volontà popolare, che permette ai ceti dominanti di restare al potere, arginando la rappresentanza di chi potrebbe andare a destabilizzare il sistema. I restanti sistemi, di solito di tendenza liberal-socialista, progressista o semplicemente centrista, vengono racchiusi nel campo delle dittature, o peggio ancora del totalitarismo. La democrazia parlamentare è il miglior involucro per il capitalismo. Quello toccato da Lenin il tasto giusto per capire come dentro il guscio liberale vi sia il capitalismo con tutte le sue contraddizioni irrisolte: disuguaglianze crescenti, esclusione sociale, sfruttamento del lavoro,imbarbarimento dei ceti medio-bassi,alienazione,mancanza di competitività , cancellazione del compromesso keynesiano e il definitivo smantellamento del welfare state. E’ il capitalismo liberato dalla cosiddetta concorrenza di sistema abbia potuto dare libero sfogo ai suoi istinti peggiori. Il regime liberale, proclamato democratico tout court, si risolve in una architettura istituzionale congegnata appositamente per celare dietro le sbandierate libertà , un potere in realtà oligarchico, dominato da potenti lobby, imprese economiche e media, di segno fortemente classista. Questo sistema politico è una postdemocrazia,formalmente regolata da norme democratiche che vengono svuotate dalla prassi politica. E’ ilo golpe delle caste condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, perfino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le elite che rappresentano esclusivamente interessi economici. EDITORIALE Di Ernesto Galli Della Loggia Dal Corriere della Sera – «Non è mica colpa nostra! È lui, sono loro (a piacere Monti,Napolitano, Berlusconi, Prodi, la Sinistra, i sindacati,la Destra) che hanno ridotto il Paese così». La grande maggioranza degli italiani è ormai consapevole della gravità della situazione in cui ci troviamo, avverte che a questo punto solo scelte coraggiose e magari anche impopolari, solo drastiche rotture rispetto al passato possono allontanarci da quel vero e proprio declino storico che altrimenti ci attende. Ma questa maggioranza è tenuta in ostaggio da quel grido lanciato di continuo dalla minoranza disinformata e settaria dell’opinione pubblica: «Non è colpa nostra! È colpa di altri». Un grido, un giudizio intimidatorio, che ha il solo effetto politico di dividere, di impedire quel minimo di accordo generale sulle responsabilità passate e perciò sulle decisioni audaci di cui c’è tanto disperato bisogno. Contribuendo così a rendere la soluzione della crisi ancora più lontana. Invece bisogna convincersi - a destra come a sinistra - che non è «colpa loro». Della situazione drammatica in cui si trova l’Italia è colpa nostra, è colpa di tutti, sia pure, come si capisce, in grado diverso. La politica, i politici, per esempio, hanno certamente responsabilità primaria perché alla fine è la politica che decide. Ma in realtà la vera colpa della politica nel caso italiano è stata soprattutto quella di non avere alcun progetto, alcuna idea; e se l’aveva di non essere stata capace di realizzarla. Di non aver fatto. Per esempio di non essere stata in grado di opporsi alle richieste caotiche e spesso alle pretese (nonché ai vizi antichi) della società italiana. E quindi di aver scelto ogni volta la soluzione più facile e più demagogica: che naturalmente era quasi sempre anche la meno saggia e la più costosa per l’erario. L’Italia insomma è stata per un trentennio la scena di un grandioso concorso di colpe: tra i partiti e la politica da un lato, e dall’altro gli italiani e - elemento non meno importante - le élite economico-burocratiche che di fatto hanno anch’esse (eccome!) governato il Paese. Oggi, insomma, paghiamo per errori e omissioni che rimontano indietro di decenni. La nostra crisi odierna viene da lontano. Viene dal consenso ricercato da tutti - sì da tutti, dalla Destra come dalla Sinistra - ricorrendo alla spesa pubblica. Viene da centinaia di migliaia di pensioni di invalidità elargite a chi non le meritava, e in genere da un sistema pensionistico che per anni ha consentito a decine e decine di migliaia di italiani di destra come di sinistra di andare in pensione con un’anzianità ridicola; viene da troppi lavori pubblici decisi da amministrazioni di ogni colore e costatati dieci volte il previsto; da troppi posti assegnati in base a una raccomandazione (solo agli elettori del Pdl? Solo a quelli del Pd?). Viene da troppi organici gonfiati per ragioni clientelari ad opera di tutte le pubbliche amministrazioni; da troppi investimenti sbagliati, rimandati o non fatti dagli imprenditori e dalla loro propensione a eludere le leggi; dalle troppe tasse evase da commercianti e professionisti (davvero tutti di destra o tutti di sinistra?); viene dalla troppa indulgenza usata nella scuola e nell’università, dall’aver accondisceso a tante illegalità specie se potevano (non importa con quale fondamento) invocare ragioni «sociali» (vedi le «occupazioni» di ogni specie); da una miriade infinita di piccoli abusi quotidianamente praticati e tollerati - per esempio nell’edilizia, nell’urbanistica, nella circolazione, nella raccolta dei rifiuti - che tutti insieme hanno rovinato e spesso reso invivibili le città e il paesaggio italiani. Da tutto ciò viene la nostra crisi: da questo multiforme sfilacciamento del tessuto collettivo, da questa indifferenza al senso della realtà. Chiamarsene fuori facendo sfoggio di virtù e cercare un capro espiatorio nella parte politica che non ci piace testimonia solo di una cieca faziosità. È quella stessa faziosità propria della minoranza settaria che tiene in ostaggio anche il discorso pubblico del Paese e si manifesta nell’irrefrenabile pulsione a trovare complici del male specialmente nella stampa: in chi scrive nel modo che essa non gradisce. Sempre rivolgendo la sua ossessiva domanda inquisitoria che suona: «Ma voi dove eravate quando A faceva questo?», «Che cosa avete scritto quando B diceva quest’altro?». Domande inquisitorie che naturalmente contengono già dentro di sé la risposta, dal momento che secondo questi accusatori - che credono di ricordare tutto e invece non ricordano nulla - la stampa che a loro non piace avrebbe sempre chiuso gli occhi, sempre taciuto, finto di non vedere, e suonato la grancassa in onore del Potere. Se avesse senso verrebbe da rispondere: «Fuori le prove!». In realtà una tale accusa è solo il segno della superficialità disinformata e settaria, unita al moralismo aggressivo che ci hanno regalato gli anni della Seconda Repubblica. La superficialità e il moralismo che portano a credere che chi non si proclama preliminarmente contro vuol dire che allora è necessariamente a favore; che l’unico commento possibile a qualsiasi cosa che non piaccia debba essere la maledizione. Che rifiutano visceralmente l’idea che capire e analizzare è più importante - e soprattutto più utile al lettore - che non aizzare o capeggiare una tifoseria. Alla domanda «Dove eravate quando...?» la risposta dunque è: eravamo dalla parte di questa idea dell’informazione e del giornalismo. Di certo ve ne possono essere legittimamente, e ve ne sono, delle altre. Ma ancora più certo è che non sarà con le filippiche ossessive, con le cacce all’untore né con le autoassoluzioni a buon mercato, che l’Italia riuscirà a correggere i mille sbagli commessi. Che essa riuscirà a costruire quel minimo di accordo su quanto è realmente successo nel suo passato senza il quale non può esserci speranza alcuna di un futuro. INTERNI Dismissioni, tecnici Senato bocciano piano Letta: “Gettito non plausibile”. Dismissioni di patrimonio pubblico, privatizzazioni a partire dalla vendita di immobili di proprietà pubblica: se questa è la strada maestra per aggredire la montagna del debito pubblico che grava sui conti dello Stato, inizia decisamente in salita. Il piano Letta, puntualmente compreso nell’ultima Legge di Stabilità, non ha passato il primo esame sulla sua fattibilità. Le misure relative alle dismissioni previste dallaLegge di Stabilità non “forniscono elementi informativi relativamente alle caratteristiche rilevanti del programma di cessioni immobiliari sufficienti a valutare la plausibilità del gettito”. Lo rilevano i tecnici del Senato nel dossier del Servizio Bilancio. Parere che mortifica le aspettative del presidente del Consiglio Letta che aveva annunciato il piano direttamente dalla City di Londra durante la sua visita di luglio e rilanciato a settembre in un intervista rilasciata al Messaggero. Ricordiamo che dal piano dismissioni il Governo pensava di ricavare addirittura 400 miliardi di euronella sua declinazione più aggressiva e ottimista. Quella sponsorizzata dal centrodestra con Renato Brunetta fra i più accaniti sostenitori: riduzione strutturale del debito pubblico per almeno 400 miliardi di euro (circa 20-25 punti di Pil), così da portare sotto il 100% il rapporto rispetto al Pil in 5 anni. Oggi i tecnici del Senato sembrano invitare a riporre nel cassetto i sogni più avventurosi. ECONOMIA CONTANTI-Ridurre la soglia dei contanti a meno dimille euro. Questa una delle proposte per la revisione della legge di Stabilità avanzata in Senato dal ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che hanno attirato le ire del Pdl e della Lega Nord. Se con il governo Monti era di mille euro la soglia sotto cui l’uso dei contanti era consentito, per Saccomanni il tetto massimo è da abbassare. Tra le alre misure allo studio del ministero c’è l‘aumento del bollo, il ritorno dell‘Irpef per gli immobili sfitti, la seconda rata dell’Imu 2013 ancora aperta per le case di lusso e la revisione di Tari, Tasi e Trise, oltre all’Imu sulla seconda casa. Mario Sensini scrive sul Corriere della Sera: “Saccomanni ha confermato al Senato la disponibilità del governo a rivedere le nuove tasse sulla casa, a riflettere sulla tassazione dei titoli di Stato, fissata al 12,5% sugli interessi, «troppo bassa» e a introdurre nuove vincoli sull’uso del contante, (attualmente il limite è di mille euro) attirandosi prima un attacco violento dal Pdl, poi della Lega Nord. «Saccomanni ritiene di intervenire per limitare l’uso del contante. Noi la pensiamo all’opposto» ha fatto sapere via Twitter, mentre l’audizione del ministro era ancora in corso, il segretario del Pdl Angelino Alfano”. Lo sgravio per i lavoratori e le aziende previsto dalla manovra, spiega Sensini, ha scatenato le perplessità dell’Istat, della Corte dei conti e della Banca d’Italia: “Per l’Istat, che ieri tra l’altro ha sottolineato come sia raddoppiato il numero dei cittadini in condizioni di povertà assoluta (da 2,4 a 4,8 milioni tra il 2007 ed il 2012), l’aumento delle detrazioni sul lavoro dipendente si tradurrebbe in uno sgravio medio pari a 116 euro annui, meno di 10 euro al mese. Secondo la Banca d’Italia, per un lavoratore medio, il peso del cuneo fiscale, cioè la parte della busta paga mangiata dalle tasse e contributi, scenderebbe dal 48,5 al 48,1%. In pratica «meno di cento euro l’anno». Peggio ancora, dice la Corte dei conti, l’intervento sul cuneo non è neanche equo, perché taglia fuori «25 milioni di contribuenti», tra lavoratori autonomi, pensionati e «incapienti», cioè i più poveri”. INDIA Di G.D. per Il Sole 24 Ore È stato estradato lunedì in Italia Guido Ralph Haschke, lintermediario ed ex consulente di diverse società del gruppo Finmeccanica arrestato a Lugano il 17 ottobre nellinchiesta sulle presunte tangenti per 50 milioni di euro che, secondo laccusa, sarebbero state versate da AgustaWestland per ottenere una commessa da circa 560 milioni in India. Haschke è in carcere a disposizione dei magistrati, potrà essere interrogato nel processo per corruzione internazionale in corso a Busto Arsizio (Varese) nel quale limputato principale è Giuseppe Orsi, ex numero uno di AgustaWestland ed ex presidente e a.d. di Finmeccanica. La partita non si gioca solo sul fronte giudiziario. Per Finmeccanica e la controllata AgustaWestland è in corso un serrato confronto con il governo indiano, acquirente dei 12 elicotteri Aw101 per trasporto Vip nel 2010, quando Orsi era il numero uno della società elicotteristica. Dallesito del confronto con New Delhi dipende la possibilità per Finmeccanica di recuperare almeno parte della somma pattuita per la commessa e coprire i costi sostenuti. Sono stati consegnati al ministero della Difesa indiano tre elicotteri. Ulteriori tre macchine sono state prodotte ma sono bloccate nella fabbrica di Yeovil, in Gran Bretagna, in seguito alla sospensione dei pagamenti comunicata il 15 febbraio con una lettera da New Delhi. Nella stessa lettera il ministero indiano ha prospettato anche una possibile cancellation del contratto. Pochi giorni fa, ha riferito lAnsa il 23 ottobre, il ministero della Difesa indiano ha inviato ad AgustaWestland una nota in cui annuncia il proposito di richiedere la «cancellazione» del contratto, «data la presenza di una violazione del patto di integrità». Sono formulate quattro domande cui la consociata britannica di Agusta deve rispondere entro metà novembre. Nella relazione sui conti del primo semestre di Finmeccanica si legge che sulla commessa indiana il gruppo al 30 giugno «aveva rilevato ricavi cumulati pari a 388 milioni, a fronte di incassi complessivi pari a 250 milioni (coperti da garanzie bancarie, a cui si aggiungono 28 milioni di euro di performance bond). A livello patrimoniale, le attività nette riferibili al contratto in esame erano pari a 146 milioni di euro. La recuperabilità di tali attività è significativamente condizionata dalla regolare prosecuzione del rapporto contrattuale». Nel bilancio 2012 Finmeccanica ha segnalato che «la valutazione dei possibili impatti derivanti dalla minacciata interruzione del contratto dipende dalla clausola contrattuale» invocata dalla controparte. Lipotesi più grave è la domanda di cancellation, in questo caso «lintera fornitura verrebbe annullata con effetto retroattivo, con conseguente rimborso a controparte delle somme fin qui ricevute», più gli interessi ed eventuali danni in favore del cliente, fatta salva la possibilità per Finmeccanica di reimpiegare gli elicotteri prodotti. Ed è proprio questa la clausola ora invocata da New Delhi. Finmeccanica fino a giugno ha ritenuto «pienamente valide le proprie ragioni di credito». Adesso rischia non solo di non incassare più nulla, ma di dover restituire agli indiani i 250 milioni incassati più i danni. CULTURA LIBRI-1-LA LEGGEREZZA DELLESSERE DIVENTA UNA VERTIGINE SENZA FINE di Antonio Gnoli per la Repubblica Dopo anni di silenzio Milan Kundera torna al romanzo e lo fa regalandoci una piccola e incantevole commedia umana che, come un cerchio, inizia e si conclude nei parigini giardini del Lussemburgo: un luogo gaio, carico di storia patria, e di natura addomesticata, dove la gente, rilassata e tranquilla, ride e passeggia con evidente buonumore. Cosa cè di meglio di un parco per farci sentire, nella grazia livellatrice dellesistenza, al riparo dalla storia e dalle sue incombenti tragedie? Qui, proprio allinizio, Alain - uno dei protagonisti de La festa dellinsignificanza - è affascinato e turbato da certe ragazze che esibiscono lombelico. In cosa consiste il suo potere di seduzione, si chiede lo scrittore. Ogni volta che si impone una moda, lerotismo riscrive la sua vitalità prorompente e tende ad adeguarsi ai nuovi dettami. Ma quel perturbante dettaglio anatomico rinvia, come vedremo, a una riflessione più epocale sul mondo: la sua stessa insignificanza è lemblema di qualcosa che è accaduto e che coinvolge anche gli altri protagonisti, i cui trascurabili destini personali si intrecciano nel vasto paesaggio della vita. Di loro non si conosce alcun gesto eroico, alcun pensiero alato, alcuna riflessione profonda. Non a caso Alain medita sullombelico. E gli altri: Ramon, DArdelo, Charles e Caliban come trascorrono le loro esistenze? Nessuno sembra proiettarsi verso le vette del successo. La mediocrità che li avvolge attenua ogni possibile dramma. O ne fa il pretesto di un evento inattendibile. Sicché, quando DArdelo scopre di non avere un cancro ma confessa a Ramon, senza una vera ragione, di averlo, è come se quella morte imminente e solo immaginata possa dare spessore e senso alla sua vita. Anche Alain non è estraneo al dramma: cè nella sua memoria una madre che non ha conosciuto e di cui conserva una sola foto. A suo tempo si è rivelata una donna terribile: per uccidere la creatura che porta in grembo è disposta a lasciarsi affogare nelle acque della Senna. Un ragazzo che osserva la scena, mentre lei sta annegando, si tuffa e con poche bracciate la raggiunge. Prova a salvarla, ma la donna, ostinata nel suo rifiuto, farà morire il giovane al suo posto: una potenziale suicida si trasforma in assassina. E il commento di Kundera riflette, in questo caso, la cristallina e assurda ferocia della vita: «Colui che ha voluto imporle la vita è morto annegato. E colui che lei voleva uccidere nel suo ventre resta vivo. Lidea del suicidio è cancellata per sempre. Nessuna replica. Il ragazzo è morto, il feto è vivo, e lei farà di tutto perché nessuno scopra quel che è accaduto». Che singolare scrutatore di anime è Kundera. Guarda al fondo di una persona che ha fermamente deciso di farla finita e ci fa scoprire come la sua storia vada beffardamente in tuttaltro modo. Lo scrittore non partecipa al dramma. Non prova né pietà né dolore. A che servirebbe, dal momento che è la vita a prendere o a dare ciò che magari neppure ci aspettiamo? Egli descrive i tempi perfetti di un evento come fosse regolato dal battito di un orologio segreto che gli è stato trapiantato al posto del cuore. Eppure, è difficile resistere alla tentazione di pedinare ogni mossa dei nostri personaggi e scoprire non tanto a quale destino sono chiamati, ma a quale comunità appartengono. Sono davvero lultima, epigonale, manifestazione di una specie condannata allinsignificanza? Può stupire che il romanzo riveli al suo interno una deliziosa e feroce parodia dello stalinismo. Improvvisamente, le innocue derive contemporanee, le inconsistenti biografie dei nostri fragili protagonisti sembrano risucchiate nel cupo orrore del dispotismo novecentesco. In quellintollerabile, meschina, ridicola esperienza che lo stesso Kundera, come sappiamo, fu costretto a subire. E della quale egli si vendica raccontando, in rapida e alternata sequenza, le sublimi idiozie di Stalin e dei suoi sottoposti. Sono pagine di sibilante ferocia quelle che lo scrittore praghese ci consegna. Il sovietismo - nella ridicola successione di atti dai quali Charles vuole ricavare uno spettacolo di marionette - si erge qui a categoria dello spirito comico e svela le esilaranti e smarrite figure di Berija, Zdanov, Kaganovic, Krusciov, Breznev, Kalinin. Proprio questultimo è scelto da Stalin per ribattezzare Königsberg, patria di Kant, in Kaliningrad. Un nome così palesemente idiota, ci avverte Kundera, doveva nascondere qualche ragione segreta: «Stalin provava per Kalinin uneccezionale tenerezza », ma la parola tenerezza non si addiceva alla fama del despota crudele. Senonché egli era il solo che potesse permettersi di prendere una decisione assolutamente personale, capricciosa, irragionevole, meravigliosamente bizzarra, superbamente assurda. Non è in fondo anche il più tenue e stravagante degli arbitrii a darci la misura del potere assoluto? Strano romanzo: tocca tutte le corde di una civiltà al tramonto senza prenderle mai troppo seriamente. Crisi, angoscia, disorientamento - stati danimo che conosciamo bene - lasciano il passo a un buonumore che si fa strada tra le rovine della storia e la polvere che essa ha depositato. Quale enigma si nasconde? «Solo dallalto dellinfinito buonumore », scrive Kundera, citando Hegel, «puoi osservare sotto di te leterna stupidità degli uomini e riderne». Se il comico è la sola risorsa spirituale che ci resta, allora può anche accadere che Stalin tenga una lezione su Schopenhauer, che Breznev veda un angelo con le ali dispiegate e che lombelico diventi davvero il luogo dellerotismo del nuovo millennio: «come se qualcuno, in quella data simbolica, avesse sollevato una tenda che per secoli ci aveva impedito di vedere lessenziale: che lindividualità è unillusione!». Mai Kundera si era spinto così a fondo nelle spire del conformismo, mai si era vista la verità immolata, così ironicamente, sullaltare dellopinione. In questo romanzo, di flaubertiana seduzione, senza rimproveri né colpe, linsignificanza è lessenza stessa della vita. Essa si riproduce nei gesti, nelle scelte, nelle parole, nei drammi delle persone, tocca perfino lanima delle cose. Cancella il valore degli individui, esalta lopaca uniformità del loro sentire. E, infine, accoglie tutto questo come fosse il mistero più gioioso. Nel Sipario Kundera aveva scritto: «Solo il romanzo ha saputo scoprire limmenso e misterioso potere della futilità». E la futilità, con i suoi toni sventati e ilari, è davvero laltra faccia dellinsignificanza. Stretti nella loro morsa, siamo assaliti dalla vertigine di un bizzarro disorientamento, e assistiamo al repentino venir meno dellingrediente principale di ogni tragedia: la serietà. Su questa assenza scivola, senza esitazioni, il romanzo fino a concludersi con la festa nei giardini del Lussemburgo. Qui, dove la Francia coltiva ancora pomposamente il suo passato, si rivedono i protagonisti di questa irrilevante avventura. E noi scopriamo, con incanto, che tutto quello che è accaduto somiglia a una recita. Qualcuno - certamente un maestro - ha tirato i fili della storia. E gli altri hanno obbedito come farebbero delle marionette. Al demiurgo sta a cuore non la vita, ma solo quello che, con la sua sfida artistica, lui della vita è riuscito a creare. 2-LANTICIPAZIONE DEL ROMANZO Il senso della nostra epoca? Sta nellombelico delle ragazzedi Milan Kundera Era il mese di giugno, il sole del mattino spuntava dalle nuvole e Alain percorreva lentamente una via di Parigi. Osservava le ragazze, che mettevano tutte in mostra lombelico tra i pantaloni a vita molto bassa e la maglietta molto corta. Era affascinato; affascinato e persino turbato: come se il loro potere di seduzione non fosse più concentrato nelle cosce, nelle natiche o nel seno, ma in quel buchetto tondo situato al centro del corpo. La cosa lo fece riflettere: Se un uomo (o unepoca) vede il centro della seduzione femminile nelle cosce, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: la lunghezza delle cosce è limmagine metaforica del cammino, lungo e affascinante (per questo le cosce devono essere lunghe), che conduce alla realizzazione erotica; infatti, si disse Alain, anche in pieno coito la lunghezza delle cosce conferisce alla donna la magia romantica dellinaccessibilità. Se un uomo (o unepoca) vede il centro della seduzione femminile nelle natiche, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: brutalità; allegria; il cammino più breve verso il traguardo; traguardo tanto più eccitante perché duplice. Se un uomo (o unepoca) vede il centro della seduzione femminile nel seno, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: santificazione della donna; la Vergine Maria che allatta Gesù; il sesso maschile inginocchiato davanti alla nobile missione del sesso femminile. Ma come definire lerotismo di un uomo (o di unepoca) che vede la seduzione femminile concentrata al centro del corpo, nellombelico? Cenacolo, video: così è rinata l’Ultima Cena di Leonardo «Ci sono dei passaggi tonali quasi impercettibili. Mezze tinte, mezze ombre, con velature scure, e con un colore grigio. E’ una pittura levigata, che peccato, oggigiorno, ha perso moltissimo. Dunque, la lettura è soltanto a piccoli brani». Parole di Giuseppina Brambilla Barcilon, dal video di Koji Miyazaki girato e montato con Gilberto Richiero (Libre) per la presentazione a Milano del restauro definitivo dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, anniversario celebrato dalla Soprintendenza ai beni culturali con il convento dei domenicani di Santa Maria delle Grazie. Le Alpi a Bruxelles con Tino Aime, pittura e video Si intitola “L’attesa” il video con il quale Libre accompagna la visione poetica delle Alpi interpretata dall’artista piemontese Tino Aime, che presenta a Bruxelles una grande esposizione antologica in programma all’Espace Wallonie dal 19 novembre al 24 dicembre, nel cuore della “capitale” europea. Pitture, incisioni e sculture che documentano la lunga indagine di Aime sull’intimità del paesaggio alpino: il linguaggio silenzioso di vecchie case spolverate di neve, tra i monti illuminati dalla luna. E’ la cifra più autentica di Aime, schivo cantore della perduta civiltà alpina, in bilico tra la desolazione dell’abbandono e l’incanto della bellezza. SCUOLA Di serena ferente da medioevo futuro da BLITZ-Università: tre domande sul futuro di un’istituzione medievale Tra tutti numeri da depressione degli ultimi mesi uno in particolare ha attirato poca attenzione, il calo del 17,3% delle immatricolazioni universitarie tra il 2004/05 e il 2011/12 e ilcalo del 22% del numero dei docenti universitari (tutti i numeri li trovate nelrapporto del Consiglio universitario nazionale). Il dato è davvero agghiacciante, perché anche durante gli anni della crisi e della recessione non c’è stato nessun paese Ocse, nemmeno la Grecia, in cui il numero degli iscritti non sia complessivamente aumentato (Oecd, Education at a Glance, 2012, p.15) – e l’Italia già partiva da un numero di laureati storicamente molto basso (oggi 19% contro una media europea del 30%, e oltre il 55% della popolazione giovane in Giappone e Corea del Sud). Come se fosse semplicemente una burocrazia ipertrofica l’università pubblica italiana è stata colpita da tagli drastici e dallo stesso discorso denigratorio che ha investito quasi tutto il “pubblico” in Italia – dalla politica, alle amministrazioni, alla magistratura, alla scuola, alla sanità – paradossalmente mentre si lottava con successo per mantenere la pubblicità di un bene come l’acqua. Alcune delle accuse erano giustificate e alcune delle perdite autoinflitte. L’università ha peccato di tutti i peccati italiani: governo oligarchico, gerontocratico e maschilista, dunque poca meritocrazia e qualche caso lampante di nepotismo. Gli studenti le rimproverano soprattutto il fatto di non garantire un posto di lavoro decentemente retribuito. In quel 17,3% di scoraggiati, circa 58.000 persone, ci dev’essere chi l’università ha scelto di farla all’estero, ma molto più numerosi saranno ragazzi e ragazze che hanno pensato non ne valesse la pena. Il discorso anti-università ha funzionato anche come schermo conveniente del problema profondo, cioè quello delle risorse – il famoso povero 1% del Pil – per pagare (meglio) più docenti/ricercatori, strutture migliori, borse di studio. La spesa per scuola, università e ricerca è una spesa per il futuro, una delle pochissime voci del bilancio dello Stato che vanno a beneficio dei cittadini giovani e di quelli non ancora nati. Non sorprende troppo che il nostro bilancio pubblico dica che l’Italia è un paese che non pensa al futuro, ma è una posizione inaccettabile. L’università è l’istituzione medievale per eccellenza. I due modelli originari, a partire dalla fine dell’undicesimo secolo, erano il modello Bologna – università come corporazione di studenti – e il modello Parigi – università come corporazione di docenti. Le università sorte come fondazioni del re (le prime furono Salamanca nel 1218 e Napoli nel 1224) erano variazioni su uno dei due modelli. Da allora le università sono cambiate molto, soprattutto con l’intervento massiccio dello stato, a partire da fine Settecento, che apriva l’era dell’egemonia del modello tedesco, e di nuovo dopo la seconda guerra mondiale, quando la torcia è passata al modello americano (altri modelli moderni sono esistiti ed esistono, naturalmente, incluso quello francese che comprende le Grandes Écoles, e quello inglese che ha una tradizione sua propria). L’università non soltanto è sopravvissuta ma si è adattata straordinariamente bene a cambiamenti storici radicali. Col suo essere assai più vecchia sia dello Stato-nazione che del modello diorganizzazione capitalista della produzione l’università non è riducibile ad un ente dello stato né ad un’azienda, nonostante il linguaggio che si usa per inquadrarla. Le sue origini medievali costituiscono ancora il codice genetico specifico dell’istituzione: il rapporto tra maestri e allievi come rapporto personale (che rischia sempre di diventare clientelare ma che in ogni caso non è un rapporto con “utenti” o “customers”), la libertà dell’autogoverno corporativo (che dovrebbe garantire la possibilità del dissenso e l’indipendenza, ma si è visto che nelle università pubbliche durante comunismo, fascismo e nazismo, e in parte il maccartismo, questo non avvenne), e la congiunzione di insegnamento e avanzamento del sapere (con uguale enfasi su entrambi, per tutte le discipline). La fedeltà o meno a queste caratteristiche così medievali dell’istituzione è il terreno sul quale si gioca il futuro dell’università, in Italia e nel resto del mondo. 1) Chi deve pagare per l’università? Gli studenti o lo Stato? Negli Stati Uniti e ora anche in Inghilterra gli studenti contribuiscono in modo sostanziale a finanziare l’insegnamento universitario (ma non la ricerca, che è in grandissima parte finanziata con denaro pubblico), però il problema del debito studentesco è ormai di tali dimensioni che potrebbe diventare la prossima devastante bolla finanziaria. In molti dei paesi scandinavi l’università è, insieme, di buon livello e gratuita per gli studenti. 2) Chi deve controllare l’università? Possono farlo in modo autonomo i membri principali dell’università (docenti e studenti), oppure la sua amministrazione (rettori e direttori amministrativi, nonché collegi di controllori), ma lo Stato da sempre vorrebbe il controllo per sé (poiché quasi ovunque paga) con tutti i rischi di illibertà che questo comporta, mentre l’opinione pubblica (per esempio i giornali o le agenzie che si occupano di classifiche e ‘league tables’) esercita una pressione dall’esterno che funziona come rete di controllo. 3) Infine, come bilanciare produzione di nuovo sapere e insegnamento senza separarli? Istituti dove si fa solo ricerca e luoghi dove si fa soltanto insegnamento (come i liberal arts colleges americani) non sono propriamente università. Nel reclutamento e nel finanziamento, l’università soccombe spesso alla tentazione di sfruttamento dei nuovi entrati a vantaggio di chi è già all’interno dell’istituzione, scaricando il peso dell’insegnamento sui primi: un problema molto italiano, ma anche molto americano, in un momento in cui la “tenure”, cioè la cattedra fissa diventa meno diffusa tra i giovani accademici. Eppure perché il sapere avanzi l’università deve essere il luogo del nuovo, dove nuove idee e nuove energie devono, impietosamente, trionfare su quelle vecchie. Nonostante tutto questo, l’università è, al livello globale, in un momento storico di splendore senza precedenti. Nessuno ha davvero dubbi sulla sua capacità di durare oltre la crisi, sebbene sia vitale discutere in quali forme. Non ci sono dubbi, quindi, nemmeno sul fatto che investire (individualmente e collettivamente) sull’università sia un ottimo investimento: dire «ci sono troppi laureati» o «l’università non serve a niente» è di fatto soltanto un altro modo per evitare di investire nel futuro. CHIESA Editoriale di don Aldo Buonaiuto-Dalle tenebre alla luce-Il fenomeno Halloween in contrasto con le tradizioni cristiane di Don Aldo Buonaiuto - 31 ottobre 2013 9:14fonte ilVelino/AGV NEWSRoma Il salto di qualità che possiamo compiere in questi giorni è notevole: dalle tenebre alla luce! L’infausta ricorrenza di Halloween viene nuovamente ad oscurare la nostra società già così spenta e lontana da Dio. Come ogni autunno, da oltre un decennio a questa parte, il mese di ottobre si tinge di nero e di arancio, i colori delle streghe e delle immancabili zucche vuote, quasi che questa strana moda importata da oltreoceano sia da sempre esistita nella nostra tradizione storica e culturale. Sembrerebbe essersi perso, in larga parte della comunità, il significato della ricorrenza di Ognissanti con quel senso religioso ben radicato che univa i vivi ai propri cari defunti attraverso la commemorazione delle anime, le Messe in suffragio e le immancabili visite al cimitero. Oggi a questo memoriale antico, introdotto dalla Chiesa secoli or sono, si sovrappone il macabro fenomeno di Halloween, costruito ad hoc dall’occultismo in comunella con molti mass-media e multinazionali assetate di profitti. Il suo forte appeal è infatti desumibile attraverso l’analisi economica delle vendite e delle spese affrontate dagli italiani in vista e durante la serata del 31 ottobre. Nel 2010, la “notte delle streghe” ha fatto registrare entrate fino a 400 milioni di euro, 50 milioni dei quali solo per le zucche! Nei due anni successivi, a causa della grave crisi economica, anche tale comparto ha subito una contrazione del 10%; ciò significa comunque che gli italiani hanno scelto di spendere parte dei propri risparmi in articoli legati a questa festività nonostante la povertà crescente e la penuria di lavoro che ha colpito una larga fascia della popolazione. L’aspetto commerciale della vendita di costumi, caramelle, cocuzze giganti e l’organizzazione di eventi e festini vari, sono solo la punta dell’iceberg di una questione ben più seria: Halloween nasconde un messaggio negativo realmente preoccupante per la psiche e lo spirito dei ragazzi e dei tanti bambini coinvolti. Questi ultimi sono bombardati, già dall’asilo nido, da immagini orrende quali streghe e fantasmi, incomprensibili per loro e per niente costruttive. Eppure non c’è scuola di ogni ordine e grado, pubblica o privata, che il 31 ottobre non organizzi qualche festicciola in maschera o non prepari in classe, per settimane intere, lavoretti con le solite zucche, i fantasmi, le scope volanti e i gatti neri; oppure non insegni poesiole di dubbia utilità su mostri, zombie o brani tratti dall’immancabile libro di Harry Potter. Organizzatori, produttori e insegnanti affermano che si tratta solo di una festa innocua e che ormai la sua simbologia è entrata a far parte della cultura globale. Travolti da un’onda apparentemente inarrestabile, sembra quasi di essere costretti a subire in silenzio, anno dopo anno, l’indiavolata invasione autunnale di spiriti e folletti. Quei pochi tra sacerdoti, sociologi ed educatori che cercano di porre il problema, vengono semplicemente bollati come bigotti. Halloween, però, ha un’anima nera poiché affonda le sue radici nei culti superstiziosi di antiche civiltà celtiche che celebravano, verso la fine di ottobre, rituali di passaggio tra la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno dedicati a Samhain, il “signore della morte” e “principe delle tenebre”. I celtici ritenevano che, durante tale notte, gli spiriti dei defunti si aggirassero liberi per la terra dei viventi. Il culto pagano è rimasto sepolto per secoli nelle tradizioni dei popoli del nord fin quando non venne assorbito, ma mai del tutto eliminato, dalla predicazione evangelica. Samhain venne perciò sostituita dalla festività dei Santi e, in un secondo momento, anche dalla commemorazione dei morti. Nelle lingue anglosassoni Halloween è infatti la contrazione del termine All hallows Eve, “veglia di tutti i santi”. Gli irlandesi, particolarmente legati agli antichi riti celtici delle loro origini, li esporteranno in America grazie alle ondate migratorie di inizio novecento, trasformando Halloween nel fenomeno di massa che è ancora oggi. Ma dietro l’apparenza burlesca e innocua si nasconde comunque una radice magico-esoterica che non è mai andata persa. Non è un caso, infatti, che il 31 ottobre sia considerato il giorno più magico dell’anno dalla vasta schiera di gruppi neo-pagani e stregonici e addirittura il capodanno diabolico dei satanisti. Le cronache riportano sempre più frequentemente che, durante questa notte, si compiono innumerevoli riti malefici, profanazioni di camposanti, furti di ostie consacrate, sacrifici di animali e vere e proprie messe nere. Il mondo dell’occulto, inoltre, ritiene le persone che festeggiano Halloween, anche solo travestendosi o ponendo una zucca fuori casa, come coloro che contribuiscono alla realizzazione di un rituale satanico universale. Per i seguaci di satana è la grande occasione per adescare nuovi adepti per obiettivi nefasti e pericolosi. I ragazzi e i giovani sono i più esposti a causa di incontri “festaioli” che in certi casi possono diventare vere e proprie trappole infernali. Di fronte ad una realtà sempre più radicata e, paradossalmente, altrettanto sottovalutata da istituzioni e famiglie, molti uomini, sia cristiani che non credenti, si sono interrogati sul modo migliore di arginare il problema. Dalle diocesi come da singoli laici sono partite numerose proposte alternative quali veglie di preghiera, celebrazioni eucaristiche, missioni di evangelizzazione in strada, preghiere di riparazione come pure feste in piazza dedicate alla riscoperta della figura dei santi con immagini, testimonianze e giochi per bambini. Aldilà della propria appartenenza religiosa ogni cittadino di questo Bel Paese dovrebbe essere più geloso della propria tradizione compresa quella cattolica di cui la nostra terra respira. Passiamo dallo squallore di volti deformati da maschere grottesche alla luce della vita vissuta dai santi, uomini e donne che hanno amato il Creatore e le creature in modo incredibile divenendo un punto di riferimento per tanta gente! Certamente molti tra educatori, insegnanti, catechisti, genitori, religiosi e sacerdoti dovrebbero chiedersi quanta passione si mette per infondere e trasmettere questa sana cultura della bellezza della vita o quanto magari, restando in silenzio, non si diventi complici di un mondo che vuole imporre sempre più l’assenza di Dio. La solennità cristiana di Ognissanti è un’occasione per tutti di tendere verso l’amore vero così come la commemorazione dei defunti è il miglior modo di ricordare e rispettare coloro che sono trapassati nella vita senza fine. Don Aldo Buonaiuto STORIA Di serena ferente Di tutte le notoriamente litigiose città-repubbliche italiane, l’unica senza costanti sussulti tra guelfi e ghibellini, nobili e popolari, Questi e Quelli era, si sa, Venezia. Serenissima perché imperturbabile. Il mistero della pace politica e sociale che regnò a Venezia e la rese oggetto di meraviglia nel resto d’Italia e d’Europa, dopo le ultime turbolenze nel Trecento, ancora anima la curiosità degli storici. Venezia si era organizzata presto come un’oligarchia istituzionalizzata, nel senso che soltanto i membri di alcune famiglie scritte in una lista godevano della pienezza del diritto di governare la repubblica. La lista era abbastanza ampia, all’inizio, da soddisfare quasi tutti, mentre, come osservò (invidioso ma anche segretamente critico) Machiavelli, quelli venuti dopo non avevano conosciuto altro sistema che l’esistente, si accontentavano di vivere in pace ed erano liberi di fare montagne di soldi. A Venezia l’unico conflitto più o meno prolungato, fra partiti più o meno solidi, dopo il Trecento, fu quello tra Giovani e Vecchi, che diventò acuto tra gli anni 1580 e i primi del secolo diciassettesimo. I nomi Giovani e Vecchi a volte si riferivano all’antichità delle famiglie – più recenti o meno recenti –, e anche a veri programmi politici divergenti (più o meno supini rispetto alla Chiesa Cattolica, più o meno supini rispetto alla superpotenza spagnola, eccetera). Ma alla base e all’inizio c’era proprio uno scontro generazionale, fra i giovani e i vecchi della classe dirigente, appunto, esplosivo quando i vecchi tentavano esplicitamente di escludere i giovani (i trent’anni erano spesso lo spartiacque) dagli organismi dove si decideva qualcosa. Anche se sapevano che, con ogni probabilità, prima o poi sarebbe toccato a loro, i giovani volevano entrare subito. Venezia, come tutte le repubbliche oligarchiche d’Europa era governata dauomini vecchi – la maschia gioventù era antipolitica per definizione, sempre a star dietro alle gonnelle, a bere, a far bisboccia, quando non a far risse, a insultare, a violentare. (Le donne patrizie avevano una gioventù assai più limitata nel tempo, prima di essere spedite a fare figli o a chiudersi in convento, spesso controvoglia, come denunciò l’indomita Arcangela Tarabotti – autrice della Tirannia Paterna – altro che la monaca di Monza.) La gioventù al potere se la potevano permettere solo le monarchie, e anzi si permettevano perfino l’infanzia al potere, perfino – orrore in una repubblica come si deve – le donne al potere. Le repubbliche non dovevano temere la morte del re, la pazzia del re, la tirannia del re. Ma il prezzo da pagare era nel lungo termine. In nessun’altra delle repubbliche oligarchiche d’Europa è altrettanto chiaro quanto a Venezia che la repubblica stessa moriva lentamente, di vecchiaia, di vecchiaia e di ostinazione, non per niente il difetto tipico dei vecchi nella commedia del Seicento (con l’avarizia). Le stesse famiglie decade dopo decade, lo stesso modo di pensare, sempre meno persone dentro le segrete stanze, sempre meno idee. AFORISMIASSIOMI e BATTUTE Mi metta la spesa nella busta di cefalon avvolta nella carta spagnola poi nel forno a microbombe.
Posted on: Thu, 31 Oct 2013 07:39:00 +0000

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