QUANDO AL VALENTINO C’ERA IL CAFFE’ MORBELLO L’altra - TopicsExpress



          

QUANDO AL VALENTINO C’ERA IL CAFFE’ MORBELLO L’altra domenica, dopo la prima comunione del mio nipotino, ho incontrato sulla scalinata dellaBasilica del Valentino, un vecchio amico. “Andiamo al Morbello a prenderci un caffè…”mi ha invitato l’amico. “…Come ai bei tempi- ho risposto io- così scambiamo quattro chiacchiere con gli amici…”. Ma il Morbello aveva la saracinesca abbassata ; ed era anche una saracinesca malandata. “Il Morbello ha chiuso, non c’è più- ci ha informato un passante sollevando gli occhi dal giornale spalancato- aprono una banca…”. +++ Lo stradone era lungo e polveroso; polvere di primavera e d’estate e fango nelle altre stagioni; o polvere e fango, o i cassoni dei carri che ballano su selciati in pietra; meglio perderli che trovarli questi selciati… Sullo stradone batteva già caldo il sole di maggio; la polvere era una cipria impalpabile ma pungente, sembrava, tanto bruciava, la cenere di un incendio ancora in corso ; dai campi saliva un profumo dolce e voluttuoso che invitava al sonno e sollecitava gli ardori… Lo stradone partiva da dove un tempo c’erano prati e vigne ed ora erano sorti stabilimenti di cemento; il Ronzone era un quartiere extra moenia che nessuno sapeva cosa significasse però era scritto sui documenti( nato in Ronzone di Casale, extra moenia) ed anche a Crea nella cappella del Paradiso. I contadini giovani, avevano afferrato il gioco dei turni e lavoravano in stabilimento continuando, durante il giorno, ad aiutar in campagna; ma i vecchi scuotevano il capo “Questi stabilimenti sono una rovina, i giovani ora prendono la settimana e con i quattrini in tasca alzano il becco e vogliono dire la loro; le loro donne , poi, dio ce ne scampi…, mettono la puzza sotto il naso e non c’è verso di comandarle; appena hanno messo da parte qualche scudo convincono il marito - e le donne quando vogliono tirar dalla loro un uomo , povar faso!..., gli argomenti li trovano e come li trovano...- a metter su casa per conto loro …così è la fine del mondo…”. Avevano capito, i vecchi “ barba”, che ,con l’industria, la vita patriarcale su cui da secoli si fondava la società contadina dove la cassa la teneva solo la “granda” e gli altri sotto a lavorare con il motto dei carabinieri “obbedir tacendo”, era finita. Il Jaku, sdraiato sul carro sopra i sacchi di cemento in juta da un quintale l’uno, ronfava beato; tanto il Bandur (cioè il cavallo; lo chiamavano Bandur perché, a quanto dicevano, non c’era cavalla che resistesse al suo fascino) la strada la conosceva. Il Bandur, se si era a metà pomeriggio, una prima fermata la faceva ai “Pesci vivi”, l’osteria sulla curva di Corso Manacorda appena prima della fornace di Marsanasso; questa osteria era famosa, oltre che per il vino “ateo”, cioè non battezzato con l’acqua come era prassi quasi dappertutto, perché dalle quattro in avanti i pescatori la rifornivano di pesci del Po che transitavano dalla sacca alla padella, ancora vivi . Si trattava di pesci piccoli come le alborelle che si mangiavano integralmente, resche e coda comprese. I pesci più grandi , come le carpe, l’Antonietta li sbatteva sul piano in marmo con colpo secco e preciso (“ Così non soffrono, poveretti!”) poi li puliva degli interiori e li cucinava con un soffritto di cipolle e fagioli od in carpione da mangiare il giorno dopo; i lucci, i quajastar e gli squarsasac li friggeva e poi li cucinava con le patate “comodate”; quando l’Antonietta friggeva i pesci, si sentivano miagolare i gatti fin da fuori provincia. Quel pomeriggio la torre batteva le due ed il Bandur tirò dritto( il Jaku dormiva beato sotto al sole con la pancia scoperta ormai più nera del Negus Neghesti), poi fece un ampia curva ed infilò il corso che portava a San Germano, allungò il passo e , quando fu quasi al piccolo trotto, si fermò di colpo; era la tattica che il Bandur adottava da sempre per svegliare il suo padrone che allo scossone improvviso scattò come un anguilla e, facendosi reggere su un raggio della ruota , saltò a terra. “C’è gia il Fidlin? –si informò entrando nel grande caffè Morbello; e il padrone, continuando a lavare i bicchieri con l’acqua corrente che sprizzava da un rubinetto, fece cenno con la testa come per dire “Eccolo!”. Lo chiamavano Fidlin perché era alto magro come la miseria anche se mangiava per tre; ma aveva due braccia nerborute e due mani che , se ti dava una sberla, dovevi rifarti i documenti; stava arrivando con il suo carro dalla via adiacente, lunga si e no cento metri, che dalla Marchino si innestava ad angolo retto con lo stradone per San Germano, -Alessandria. E lì proprio in quell’angolo c’era il caffè Morbello. Il Jaku ed il Fidlin si trovavano lì tutti i giorni dopo le due, piovesse, nevicasse o ci fosse il sole; entravano nel caffè Morbello (caffé non osteria) addirittura pulendosi gli scarponi, quando erano infangati, nella lama di acciaio piantata nel pavimento a filo dell’ingresso; prima di entrare sputavano sullo stradone perchè, dentro al Morbello, non c’erano sputacchiere. Era un mito, il Morbello, perché dentro tutto era lindo, aveva addirittura la macchina del caffè- una Cimbali di rame che solo al guardarla ti costringeva ad alzarti in piedi togliendoti il cappello- ed il rubinetto con lavandino e l’acqua corrente collegata all’acquedotto, acqua potabile e non la solita del pozzo. Il proprietario lavava le stoviglie ed i bicchieri, anziché nel mastello attinto al pozzo che prima di sera aveva l’acqua nera come il carbone , sotto al rubinetto con l’acqua che correva via. “Un bel spreco…” commentava il Jaku che però ne era ammirato; non riusciva nascondere la sua soggezione… ma quella del Morbello era una tappa obbligata sia nell’andata che nel ritorno; servivano dei sanguis di salame sotto grasso o di salame cotto con delle biove da mezzo chilo, che erano un inno;; ed anche il vino era buono; il padrone, anziché mettere sul tavolo i quartini od i mezzi litro con lo stemma della misura, stappava la bottiglia e versava personalmente nel bicchiere come si diceva facessero i camerieri nei ristoranti frequentati da quelli con il portafogli a bocca di coccodrillo. Quel giorno il padrone ebbe in serbo per il Jaku ed il Fidlin, due sorprese; la prima fu al quinto sanguis: mise nella biova tagliata a metà, quattro sleppe di mortadella che fece andare i due carrettieri, per i quali la novità era assoluta, in estasi; la seconda: anziché riempire il bicchierone di vino, versò un liquido giallo che fece anche una grande schiuma. Il Jakù ed il Fidlin si guardarono allibiti. “E’ birra- disse il padrone- viene dalla Germania”. Portarono il bicchiere alle labbra scettici (la schiuma gli bagnò baffi e punta del naso), poi tentarono il primo sorbetto, e poi bevvero spediti. “Buona!- eslamarono all’ unisono come ebbero scolato il bicchiere; e, mentre si passavano il dorso della mano sulla bocca tirando un ampio sospiro di soddisfazione- Unaltra!..” ordinarono. L’altra, furono sei o sette ed il padrone smise di versare quando cominciò a gracchiare la radio (al Morbello fu installata una delle prime radio di Casale). “E’ Il Duce…” disse il padrone; e tutti dovettero alzarsi in piedi; il Jaku mormorò “ciapulla” ma tutti fecero finta di non aver sentito. “Il maresciallo Badoglio telegrafa –scandiva la voce metallica del Duce- oggi cinque maggio alla testa delle truppe vittoriose sono entrato in Adis Abeba…”. Il Jaku ed il Fidlin si convertirono alla birra e se gli chiedevi, anche dopo anni ed annorum quando ormai i cammion avevano soppiantato i cavalli e loro erano vecchi circondati dai nipotini, cosa era successo il 5 maggio del 1936, rispondevano: “ Fu quando il padrone del Morbello ci fece bere la prima birra…”: ++++ Il Morbello continuò ad essere punto di riferimento per generazioni e generazioni; un nome mitico come dire il Colosseo a Roma. Anche per chi veniva da fuori era quasi un titolo di merito fermarsi al Morbello per bere qualcosa e scambiare, anche con sconosciuti ma che lì sembravano vecchi amici, due parole. Vide generazioni di tornei notturni che si disputavano nell’oratorio del Valentino; d’estate quando si disputavano i tornei in pratica il Morbello non chiudeva perché, quando se ne andavano gli ultimi avventori della notte, già stavano entrando i primi della mattinata. …Il Morbello…La prima acqua potabile, il primo rubinetto, la prima birra, la prima radio (e poi, per i campionati del mondo del 1954, la prima televisione; quando Castelletti, che lì si può dire fosse nato, esordì in Nazionale contro l’Inghiltrerra, davanti alla TV al Morbello c’era tanta e tanta gente che debordò sulla strada ed il Valentino per due ore fu chiuso al traffico)… il primo locale pubblico a chiamarsi “caffè”… …E quelle birre per il Jaku ed il Fidlin… Il mondo è tutto una bottega ed anche la memoria, che è l’ancora della vita, viene presa a calci e si trasforma in una banca… E qualcuno lo chiama progresso… GIANNI TURINO
Posted on: Mon, 25 Nov 2013 19:01:58 +0000

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