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Rassegna Sindacale WWW.RASSEGNASINDACALE.IT Sito di informazione su lavoro, politica ed economia sociale di PIERO SOLDINI Responsabile immigrazione Cgil nazionale Il Consiglio dei ministri del 9 ottobre ha stanziato 210 milioni di euro per fronteggiare l’emergenza profughi e ha rimandato il finanziamento della cassa integrazione in deroga: messa così sembra che ci sia un nesso fra le due cose, con l’obiettivo d’incattivire l’opinione pubblica e alimentare la guerra fra poveri, italiani e stranieri. Ennesimo esempio di cattiva informazione: la verità che non è stata detta è che i 210 milioni stanziati sono soltanto una parte dei soldi versati dagli immigrati per la regolarizzazione (mille euro ciascuno per oltre 130.000 domande), per la tassa sul rinnovo del permesso di soggiorno, per la richiesta di carta di soggiorno e per la cittadinanza (una media di 100 euro per oltre due milioni di domande). Anzi, bisognerebbe chiedere al governo dove sono e come sono stati spesi gli altri soldi, che la legge prevedeva dovessero essere spesi per loro (senza dimenticare la misteriosa scomparsa, denunciata anche nei giorni scorsi dal commissario europeo per gli Affari interni Cecilia Malmström, dello stanziamento europeo di 100 milioni risalente al 2012 e finalizzato all’emergenza profughi). Un’altra decisione del Consiglio è stata quella di ratificare la Direttiva europea n. 51 del 2011 (che avremmo dovuto ratificare entro maggio scorso), che prevede di estendere il diritto al permesso Ce per i lungo soggiornanti (ex carta di soggiorno) anche ai titolari di protezione internazionale. Questa norma senz’altro migliora le condizioni dei rifugiati, che con quel titolo di soggiorno che gli viene riconosciuto dopo cinque anni di presenza nel paese, possono anche trasferirsi in un altro paese europeo, ma non affronta la questione dell’oggi, di coloro che continuano a morire e di coloro che arrivano e che secondo le norme di Dublino devono presentare domanda di asilo nel paese dove sbarcano e non possono più lasciarlo anche se volessero andare da un’altra parte. Le questioni sono complesse, le risorse sono poche e le leggi italiane sono sbagliate e vanno cambiate, ma non basta, torna sempre in ballo l’Europa e l’urgenza di rendere agevoli e sicuri corridoi umanitari per trasferire i profughi e raccogliere le domande d’asilo nei paesi di transito prima della partenza. Il richiamo all’Europa sta diventando un luogo comune, un’esortazione generica e propagandistica. Cosa dobbiamo chiedere all’Europa? Non certo un intervento militare a difesa delle frontiere, che oltre a non essere previsto dai trattati, sarebbe assolutamente sbagliato; bensì corridoi umanitari e una flotta civile per rendere sicura e legale la navigazione degli immigrati »» SEGUE A PAGINA 2 Serve un’iniziativa politico-culturale che coinvolga organizzazioni e reti in vista delle prossime elezioni comunitarie e che promuova un principio di inclusione e di uguaglianza per i migranti che vivono o approdano nel continente IL TEMA DELLA SETTIMANA EMERGENZA PROFUGHI Torniamo a parlare di diritti. Vecchi e nuovi, negati e offesi, da riaffermareerilanciare Donne tra lavoro e famiglia genda 2014 EDIT COOP Via dei Frentani, 4a • 00185 Roma tel. 0644888228 • [email protected] CAMPAGNAd’EUROPA 37p01-02-03_ok 15/10/13 16.54 Pagina 1 2 EMERGENZA PROFUGHI: campagna d’Europa 17 - 23 OTTOBRE 2013 | N. 37 I rifugiati non sono u PARLA CHRISTOPHER HEIN (CIR) Sonia Grieco Ogni volta che si ripete una tragedia come quelle che negli ultimi giorni hanno fatto centinaia di vittime nel Mediterraneo, si riapre il dibattito sulle politiche di accoglienza italiane ed europee. Si scopre che sono le nostre leggi a creare i clandestini, a costringere centinaia di persone in fuga da violenze e miseria a percorrere strade lunghe e pericolose, affidandosi ai trafficanti di esseri umani. La paura di “invasioni” di migranti ha prodotto sistemi di difesa, più che di accoglienza, e un paradossale squilibrio nel sostegno internazionale alle persone in fuga: la maggioranza dei rifugiati del mondo è accolta da paesi meno ricchi e sviluppati dei nostri. Sulle coste italiane, greche, spagnole approda un numero crescente di persone in cerca di protezione, che nella maggioranza dei casi vuole raggiungere parenti e amici in altri paesi dell’Unione. Ma la strada per ottenere asilo politico è impervia e sul banco degli imputati è finito il Regolamento di Dublino, in cui si stabilisce che il migrante può fare richiesta di asilo soltanto nel primo Stato dell’Ue in cui mette piede. “Più barriere alziamo, più costoso e pericoloso diventa il viaggio di queste persone e più si arricchiscono i trafficanti di esseri umani. Dall’inizio dell’anno in Italia sono arrivate quasi 34.000 persone: un business enorme – spiega Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) –. Il treno di Dublino è andato. Se n’è discusso dal 2009 allo scorso giugno, quando il regolamento è stato approvato in forma definitiva, quindi è soltanto retorica pensare di ridiscutere Dublino. Cosa è stato fatto negli ultimi quattro anni? Io sono contrario a questo regolamento, però ci vuole un po’ di realismo politico e di impegno a capire come ridurre il danno”. Rassegna Come si può ridurre il danno? Hein La nostra prima proposta è di dare la possibilità di fare richiesta di protezione nelle ambasciate europee nei paesi di transito o, quando è possibile, di provenienza, non soltanto sul territorio dell’Unione europea. Se un cittadino somalo ottenesse un visto d’ingresso per l’Italia in Libia, si risparmierebbe una traversata rischiosa e costosa. L’Italia, che è così esposta al fenomeno, potrebbe farlo in via sperimentale, aprendo la strada a un’evoluzione della normativa europea che altre volte ha recepito le “proposte” migliorative dei singoli Stati. E poi il danno di Dublino può essere arginato attraverso la Direttiva europea sui soggiornanti di lungo periodo (2011/51/Ue, ndr), per favorire la libera circolazione di cittadini di paesi terzi, che ne estende l’applicazione ai titolari di protezione internazionale. Rassegna Il governo italiano, seppure in ritardo di qualche mese, si sta muovendo per recepire la Direttiva in questione. Hein È un passo nella giusta direzione, ma i tempi previsti dalla Direttiva per ottenere un LE NORME DA CAMBIARE Per un asilo comune Gianfranco Schiavone* Gran parte dell’opinione pubblica è stata scossa dalla tragedia di Lampedusa e ha iniziato a pensare, a ragione, che ci siano dei profondi errori nella politica italiana ed europea sull’immigrazione e sull’asilo; ancora la stessa opinione pubblica fa fatica a comprendere però che, pure nella sua immensa drammaticità, l’ultimo naufragio di Lampedusa non è affatto un caso isolato, ma è la manifestazione di una strage continua che è in corso da molti anni e che ha causato la morte nel Mediterraneo, dal 1998, di almeno 19.372 persone. Una strage silenziosa, cui gli organi di stampa dedicano spesso poche righe, perché i fatti di cui si parla sono incerti (naufragi in alto mare) e le persone che perdono la vita non hanno un’identità, non sono cittadini europei, non ci sono parenti che ne rivendicano i corpi, né tanto meno esigono soccorsi o l’apertura di inchieste. La contestatissima agenzia europea denominata Frontex, nell’effettuare il pattugliamento e nel controllo dei confini, ha tra i suoi compiti quello di intercettare e soccorrere i naufraghi e il canale di Sicilia è un’area geograficamente abbastanza contenuta, oltre che costantemente attraversata da imbarcazioni commerciali di ogni genere. Spesso i migranti che vengono tratti in salvo riferiscono con disperazione di avere visto navi passare non lontano da loro (e persino aerei a bassa quota), che non si sono fermati alle loro disperate richieste di aiuto. Di fronte a esiti così scadenti dobbiamo chiederci se forse un segreto inconfessabile non sia celato dentro le scelte dei governi europei di questi decenni; un segreto fatto di silenzi e omissioni nella speranza che il problema – l’accoglienza dei rifugiati – sia sempre di competenza di qualcun altro. Proprio l’annuncio, dato in questi giorni, dell’avvio entro il 2013, del programma europeo Eurosur (European border surveillance system) per rafforzare le operazioni di salvataggio nel Mediterraneo rappresenta da un lato una scelta doverosa che fa ben sperare, ma dall’altro lato rappresenta una mascherata ammissione di colpa. Come con Frontex, nata già nel 2005, anche nel caso di Eurosur non ci sarà nessun punto di svolta se non vi sarà una piena consapevolezza politica che il focus delle operazioni va nettamente spostato dalle politiche del contrasto degli arrivi alle politiche di intercettazione e soccorso. Qui va sgombrato il campo da ogni possibile equivoco: non si tratta di accettare l’immondo traffico internazionale di migranti, oggi terreno di crescita privilegiato della criminalità internazionale; attenzione e risorse, anche ingenti, vanno messe su questo terreno. Si tratta però di comprendere che il contrasto delle organizzazioni criminali può avvenire solo in minima parte con gli ordinari strumenti della repressione, perché, oltre alla forza che deriva dalla loro natura transnazionale, esse si alimentano sulla base di una domanda di viaggi da parte dei rifugiati pressoché illimitata. Non solo: la lotta alle organizzazioni criminali, se condotta ciecamente, sul terreno del contrasto materiale delle partenze dei rifugiati dai paesi di transito in cui si trovano (esempio: la Libia), invece che su quello delle attività di intelligence finalizzata a spezzarne le ramificazioni internazionali, si traduce di fatto in lotta contro i rifugiati che cercano vie di fuga e contribuisce solo a rendere più pericolosi, e come tali venduti a maggior prezzo, i servizi resi da dette organizzazioni. Nelle litanie sulla necessità di aumentare i controlli, ripetute ogni giorno da molti esponenti politici europei e italiani, si intravede quindi solo una tenace ignoranza e un’elevata insensibilità etica. Proprio sul campo del contrasto all’arrivo dei rifugiati l’Italia ha scritto pochissimi anni fa una delle pagine più fosche della storia europea, con la politica dei respingimenti in mare attuata dal governo Maroni nel 2009 e nel 2010. Per quelle scelte affinché cessino le tragedie nel Mediterraneo. Non solo. Il sostegno a un Piano nazionale per l’accoglienza che sia strutturato e garantisca gli standard di protezione previsti dalla norme internazionali, dove l’Italia deve fare la sua parte e l’Europa deve fare altrettanto, con finanziamenti adeguati e la consapevolezza reciproca che si tratta di un tassello importante e strategico di un sistema di accoglienza ed essenziale per un governo efficace del fenomeno migratorio europeo. Oggi un sistema d’accoglienza non c’è. Siamo invece in presenza di una situazione di emergenza, improvvisazione, inadeguatezza dei centri, gestioni disomogenee e improprie, assenza di strutture, infrastrutture e personale specializzato. L’unico esempio positivo, ma assolutamente insufficiente è dato dallo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che coinvolge 130 Comuni volontari coordinati dall’Anci e le associazioni umanitarie. Da qui bisogna partire per estendere questa rete con tanti Comuni e altrettanti centri di accoglienza di piccole dimensioni che garantiscono una gestione più efficace e un impatto meno invasivo, che siano diffusi e distribuiti sul territorio: questa è la sfida per l’Italia e per l’Europa. Ma non è tutto. Sulla scia della campagna “L’Italia sono anch’io”, forte e persuasiva, che vede la Cgil impegnata insieme a una vasta coalizione di organizzazioni della società civile italiana, dobbiamo lanciare una nuova campagna, “l’Europa sono anch’io”, altrettanto forte, che coinvolga organizzazioni e reti europee. Una campagna politicoculturale che traguardi la scadenza delle prossime elezioni europee e che si rivolga da una parte ai giovani, al mondo del lavoro e all’insieme dei cittadini europei e, dall’altra, ai partiti e alle istituzioni. Una campagna che rivendichi una svolta per un’Europa dei cittadini e delle cittadine a partire dalla condizione emblematica in cui si trova la popolazione migrante. In Europa ci sono 32 milioni di migranti, a cui vanno aggiunti circa 5 milioni di persone senza documenti, essi rappresentano quasi un decimo dell’intera popolazione. Circa un terzo è composto da cittadini europei che migrano in altri paesi dell’Europa (intraeuropei) e due terzi da cittadini di paesi extraeuropei. Si tratta di una componente storica, stabile, strutturale e tendente a crescere e ad alimentarsi con i flussi dei prossimi decenni, prevedibili e inevitabili, di mobilità fisiologica e patologica delle popolazioni di paesi e continenti in espansione demografica verso paesi e continenti in declino demografico. Queste presenze stabili fanno dell’Europa un grande paese plurale e interculturale e segnano la sua fisionomia e identità. L’Europa non sarebbe tale senza di loro e quindi anche loro sono l’Europa. Oggi la condizione di queste persone è caratterizzata da uno status di cittadinanza diseguale; il quadro legislativo dei paesi europei, fortemente disomogeneo, è sostanzialmente basato, dove più dove meno, su un approccio proibizionistico di difesa fisica e identitaria di frontiere nazionali. In una parola forte, ma di sicuro appropriata, si potrebbe definire una condizione di apartheid. Questa condizione si riversa purtroppo anche sulle seconde generazioni. Ciò è anche il frutto di una strumentalizzazione politica del tema immigrazione da parte di alcuni partiti e movimenti politici in diversi paesi dell’Europa, che hanno investito nel razzismo e nella xenofobia per raccogliere consensi nella popolazione più confusa e disagiata. Si tratta di un quadro di scelte assolutamente sbagliato e fallimentare di fronte alle caratteristiche del fenomeno migratorio mondiale che riguarda tutti i paesi indistintamente: è bene ricordare che un terzo dei migranti nel mondo, secondo i dati dell’Onu, migra dai paesi più ricchi ai paesi emergenti. Quindi, un fenomeno globale che non può essere governato con la contrapposizione fra paesi di immigrazione e paesi di emigrazione e con norme nazionalistiche di difesa delle frontiere, bensì con norme e politiche globali e internazionali. La campagna “l’Europa sono anch’io” deve avanzare tre grandi rivendicazioni: • la ratifica nel Vecchio Continente della convenzione dell’Onu del 18 dicembre 1990 “sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”: si tratta di una carta fondamentale per avere un quadro di riferimento omogeneo e universale di diritti delle persone migranti. È uno scandalo che a distanza di 23 anni dal varo da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, non sia stata ratificata da alcun paese europeo; • l’omogeneizzazione da parte dell’Europa di norme di riconoscimento del diritto di voto alle elezioni amministrative e del Parlamento europeo, per colmare una gravissima discriminazione nell’esercizio del più elementare diritto alla partecipazione democratica di coloro che vivono e lavorano in una comunità; • l’uniformazione di norme di riconoscimento della cittadinanza europea agli stabilmente residenti e ai figli nati in Europa o trasferitivisi in tenera età e frequentanti le nostre scuole. Si tratta, anche in questo caso, di promuovere un principio di inclusione e di uguaglianza per uscire dall’apartheid. • »»DALLA PRIMA Soldini 37p01-02-03_ok 15/10/13 16.54 Pagina 2 17 - 23 OTTOBRE 2013 | N. 37 3 L’ODISSEA DEI MIGRANTI La parte del sindacato Sara Picardo Sono due le frontiere che un migrante deve superare quando arriva in Europa. La prima è fisica e guarda al mare, alle montagne, al retro di un camion in cui sperare di non morire soffocati. La seconda guarda al lavoro ed è fatta di fatica, precarietà e sfruttamento, della paura di ritornare “clandestini” e invisibili. “La tragedia di Lampedusa, con decine di morti diventati centinaia in poche ore, quei bambini, quegli uomini e quelle donne senza più vita, hanno scosso l’opinione pubblica, fatto indignare, ma passato lo sdegno rimane la realtà, che per i sopravvissuti rischia di diventare un incubo: dall’incriminazione per reato di clandestinità al Centro di identificazione ed espulsione, al lavoro nero e la schiavitù”, spiega Jean René Bilongo, responsabile nazionale immigrazione della Flai Cgil. “Come sindacato non possiamo che guardare al futuro, oltre che al presente, e lottare per i diritti di queste persone, che, se non andranno subito via, rimarranno sul nostro territorio per lavorare e rischieranno di cadere nelle maglie del lavoro nero, come spesso succede ai lavoratori della nostra categoria”. Perché se è vero che la crisi colpisce tutti, per i più fragili il colpo è maggiore. “Ero su quella barca e ho visto la gente morire, con uno stavo parlando fino a poche ore prima, gli dicevo che volevo raggiungere mia madre in Svezia, lui aveva un fratello in Germania”: Mohammed è palestinese, ma viveva in un campo profughi in Siria, non vuole chiedere il permesso di soggiorno in Italia, perché – secondo la legge comunitaria – rischia di rimanere bloccato da noi, dove sa bene che il lavoro non c’è. Ora è con la Croce rossa a Roma ed è contento di avercela fatta. “Come Flai, ci occupiamo non solo di agricoltura, ma anche di pesca – aggiunge Bilongo – e molti pescatori, spesso immigrati anche loro, ci hanno chiesto aiuto. La Bossi-Fini, infatti, impedisce loro di prestare soccorso alle imbarcazioni di migranti se non vogliono essere accusati di reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e perdere lavoro e imbarcazione, oltre alla libertà. Come sindacato non possiamo che chiedere l’abolizione di questa normativa, che va contro ogni legge umana e del mare”. La Flai da anni si occupa di immigrazione e insieme alla Fillea si è fatta promotrice di numerose battaglie di civiltà, tra cui “Stop caporalato”, che ha dato risultati sicuramente positivi, ispirando la legge che introduce nel nostro paese il reato penale di caporalato. “Io lavoravo per 20 o 25 euro al giorno. Tutti i giorni: Barletta, Pontecagnano, ma anche Trapani... pomodori, fragole, olive. Veniva il caporale la mattina a prenderci in una piazzale di sosta sulla statale, oppure in qualche via di campagna. Ci sceglieva e ci faceva salire in macchina o sul furgoncino: tu, tu, poi tu... i più forti, i più bravi, e se parlavi minacciava di denunciarti. Il mio aguzzino era marocchino, come me. Io ero contento di lavorare, ma non vedevo futuro”. Alì ha lavorato in nero per anni, prima di incontrare il sindacato e i ragazzi di “Nero e non solo”. Ora fa il mediatore culturale e senza il furgoncino itinerante della Flai non avrebbe mai conosciuto i suoi diritti: “Sono venuti loro un giorno vicino a dove lavoravo e mi hanno spiegato come stavano le cose, che potevo denunciare. Avevo dei diritti e non mi avrebbero messo in carcere o rispedito via. Io ho una famiglia a cui mandare i soldi e non potevo ritornare con la vergogna di non avercela fatta”. Nelle campagne italiane lavora circa un milione di persone, di cui il 10 per cento immigrati non comunitari. Di essi la gran maggioranza non raggiunge le 51 giornate lavorative, che sono l’attuale limite per accedere ai diritti previdenziali minimi; ma sarebbe meglio dire che non le dichiara. “Il problema è che quando un immigrato perde il lavoro diventa automaticamente clandestino e questo crea una spirale di ricattabilità”, conclude Bilongo. Non vanno meglio le cose nel settore dell’edilizia: su quasi due milioni di addetti, il 30 per cento è composto da immigrati, di cui oltre il 56 per cento irregolari. “Molti sono costretti ad accettare di aprirsi la partita Iva, pena la perdita del lavoro, o a cambiare la tipologia di lavoro da tempo pieno a part time, e non mi riferisco solo ai migranti. Purtroppo, con la crisi, il nostro settore ha visto polverizzarsi ben 500.000 posti di lavoro”, racconta Mercedes Landolfi, responsabile nazionale immigrazione della Fillea Cgil, l’altra categoria che, insieme alla Flai, ha promosso la campagna “Stop caporalato”. “Come categoria siamo impegnati da anni nell’inserire nella contrattazione nazionale capitoli come la formazione linguistica o professionale finalizzata agli stranieri”. Ma il sindacato, ormai, non si occupa più solo di lavoro: “In Calabria alcuni nostri sindacalisti stranieri ci hanno raccontato che giornalmente si trovano a dover dare risposte sociali agli immigrati, dall’accoglienza al sostegno. La tutela sindacale si allarga sempre più a nuovi tipi di bisogni”. Ma le “buone pratiche” non si fermano lì, nei territori: “Uno dei punti che attualmente impegna la nostra azione – commenta ancora Landolfi – è rappresentato dalla Direttiva europea sul distacco, per cui delle ditte straniere, spesso dell’Est, impiegano lavoratori con contratti di altri paesi in Italia, mentre in realtà sono a tutti gli effetti lavoratori che già prima si trovavano nel nostro paese, ma non erano regolari. Questo accade soprattutto nei cantieri delle grandi opere, come l’Expo di Milano, i lavori della Salerno- Reggio Calabria o l’Alta Velocità Torino-Lione. Un dumping sociale estremo, parliamo di paghe di tre euro l’ora”. Proprio sulla scia dell’Expo, la Fillea è riuscita a inserire nella contrattazione nazionale un articolo che prevede che anche i lavoratori distaccati debbano essere iscritti alla Cassa edile. Un fenomeno, non solo italiano, che si sta propagando a macchia d’olio, complice anche la catena dei subappalti, nei cui anelli si insinua di tutto: dalla criminalità organizzata alle imprese estere che non rispettano i contratti nazionali. “In Sardegna dei lavoratori che non avevano mai lasciato la regione hanno denunciato tramite la nostra categoria la loro ditta, che voleva impiegarli con un contratto polacco, solo per pagarli di meno”, spiega Landolfi. “Ora la situazione rischia di peggiorare con lo sfaldamento del sistema economico in tutta Europa: è attualmente in discussione al Parlamento di Strasburgo una nuova normativa sul distacco che peggiorerà la vecchia e inserirà un articolo che stabilisce che, nel momento in cui c’è un caso poco chiaro, si applicherà il contratto del paese d’origine. Un ritorno al passato, ai tempi della Bolkestein”. E a pagarne le conseguenze non saranno solo gli immigrati, ma chiunque voglia spostarsi per lavorare altrove. • permesso di “lungo-soggiorno” sono troppo lunghi: cinque anni di residenza in uno Stato membro. Questa condizione non dovrebbe essere applicata ai rifugiati, i tempi dovrebbero essere molto ridotti. Non ha senso che un siriano che ha fatto richiesta di asilo in Italia, perché è il primo paese dove è arrivato, aspetti mesi dormendo alla stazione Termini di Roma per ottenere un permesso da lungo soggiornante e così raggiungere il fratello a Stoccolma. L’Italia dovrebbe portare questa istanza in Europa nel suo semestre di presidenza. Rassegna Dopo la tragedia di Lampedusa si è scatenata la polemica sul reato di clandestinità previsto dalla Bossi-Fini. Hein La Bossi-Fini con gli sbarchi non c’entra niente. L’abolizione è certamente un gesto di civiltà, ma è fuorviante pensare che con la cancellazione del reato di clandestinità si eviteranno simili tragedie. Chi scappa dalle persecuzioni non si preoccupa delle nostre leggi, è disposto a spendere molti soldi e a rischiare la vita. L’unica cosa che conta davvero è che non può avere un visto per l’Italia, né per altri Stati europei, e per questo deve pagare i trafficanti. Rassegna Il Consiglio d’Europa ha accusato l’Italia di non incentivare le persone arrivate nel nostro territorio a chiedere asilo, lasciandole andare verso il Nord Europa. D’altro canto, l’Italia ritiene di farsi carico da sola dell’accoglienza. Dov’è la ragione? Hein Il punto è capire se la questione è percepita come europea o nazionale. Lampedusa, per esempio, non è stata sufficientemente percepita come questione europea. Viviamo in una contraddizione: da una parte, c’è la dichiarata volontà di costruire un sistema europeo di asilo, che a giugno è stata codificata in un pacchetto legislativo. D’altra parte, ogni volta che si verifica una tragedia l’atteggiamento è di trattarla come se fosse una questione interna ai singoli paesi. Gli Stati del Sud Europa sono interessati da flussi consistenti per la loro posizione geografica. Le nazioni del Nord Europa, però, hanno importato manodopera straniera da decenni e questo ha determinato il formarsi di grosse comunità di immigrati. Adesso che nei paesi d’origine di queste persone ci sono guerre e miseria, è naturale che chi scappa voglia raggiungere queste comunità, dove ha delle conoscenze e dove sa di trovare un sistema di accoglienza efficiente che l’Italia non ha. Rassegna Chi arriverà nei prossimi mesi? Hein Con l’arrivo dell’inverno gli sbarchi diminuiranno, ma il flusso verso l’Europa non si fermerà, sia via mare, sia via terra. Arriveranno più siriani; fino a quando la crisi non sarà risolta, la gente continuerà a fuggire. In due milioni hanno lasciato la Siria e da sempre una piccola percentuale di profughi, dopo un certo periodo di tempo, lascia il primo paese di rifugio verso destinazioni più stabili. Non sto parlando di numeri enormi, intendiamoci. Non c’è alcuna emergenza: accogliere richiedenti asilo non è emergenza, è un servizio. I rifugiati ci sono sempre stati e ci saranno sempre. • o un problema e scellerateil nostro paese è stato condannato per violazioni gravissime dei diritti umani fondamentali dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, che con la sentenza 23/2/2012 n. 27765, causa Hirsi, ha evidenziato come occorrono norme nazionali più rigorose e dettagliate per evitare la violazione, alle frontiere e nel mare, del principio del non refoulement (non respingimento) Il cosiddetto “Sistema europeo comune di asilo”, secondo il Programma di Stoccolma del 2009, il terzo programma di lavoro quinquennale dell’Unione europea in materia di libertà, sicurezza e giustizia, “dovrebbe essere basato su norme elevate in materia di protezione e si dovrebbe accordare la debita attenzione anche a procedure eque ed efficaci che consentano di prevenire gli abusi. È essenziale che agli interessati, indipendentemente dallo Stato membro in cui è presentata la domanda d’asilo, sia riservato un trattamento di livello equivalente quanto a condizioni di accoglienza, e di pari livello per tutto quanto riguarda le disposizioni procedurali e la determinazione dello status. L’obiettivo dovrebbe consistere nell’assicurare che casi analoghi siano trattati allo stesso modo, giungendo allo stesso risultato”. Si tratta di risultati dichiarati, ma lontanissimi dall’essere raggiunti, in quanto il grado di armonizzazione delle normative dei diversi Stati europei è ancora molto modesto, a fronte dell’esistenza delle elevatissime rigidità date invece dal cosiddetto Regolamento Dublino III del 2013 sulla determinazione dello Stato competente a esaminare le domande di asilo. Il programma di Stoccolma accenna fugacemente, senza svilupparla, alla tematica, che assume invece oggi un rilievo centrale, della cosiddetta “dimensione esterna dell’asilo”, ossia le misure che dovrebbero essere adottate per garantire una maggiore protezione ai rifugiati in fuga verso l’Europa che si trovano ancora nei paesi di transito. È in questo campo, di cui oggi si inizia a discutere, ma troppo timidamente, che si inseriscono i programmi europei di reinsediamento di rifugiati dai paesi di transito, e anche il dibattito sulla possibilità di accesso dall’estero alla procedura per chiedere asilo nei paesi della Ue. Su tutto ciò, di decisioni comuni a livello Ue, ancora nulla. C’è quindi una lunga strada da percorrere per rendere il sistema europeo dell’asilo in grado di rispondere alle sfide del tempo difficile in cui viviamo. • * Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione Servono misure di protezione eque ed efficaci a prescindere dallo Stato in cui vengono richieste © F. VILLA/BUENAVISTA 37p01-02-03_ok 15/10/13 16.54 Pagina 3
Posted on: Sat, 19 Oct 2013 10:11:09 +0000

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