STORIA DELLA CHIESA Medioevale VII PARTE: La questione di Fozio - TopicsExpress



          

STORIA DELLA CHIESA Medioevale VII PARTE: La questione di Fozio sotto i successori di Nicolò I Ristabilimento d’Ignazio Prima cura di Basilio era stata quella di mandare, un veloce va­scello ad inseguir la nave che recava in Italia i messi del concilio foziano, con l’ordine di ricondurli immediatamente sul Corno d’oro; seconda cura quella di trovare contro Fozio un’accusa che gli permet­tesse di cavarselo dai piedi. A metà di novembre dell’867 era tutto fatto. Per aver respinto Basilio dalla Chiesa dopo l’uccisione di Mi­chele, il patriarca fu rapito dal suo palazzo e relegato in un mona­stero. Tutto suggeriva di rendere ad Ignazio il trono donde nove anni prima era stato sbalzato; fu dunque scelto a bella posta, per la ceri­monia dell’intronizzazione, l’anniversario della sua rimozione, il 23 novembre, e Roma fu subito informata di questo importante avveni­mento con una lettera dell’imperatore. La missiva era indirizzata al papa Niccolò I: a riceverla fu invece Adriano II. Poco tempo dopo l’imperatore ed il patriarca spedirono a Roma un nuovo corriere, onde poter mettere più esattamente la curia al corrente dello stato attuale delle cose ed anche per suggerirle quei provvedimenti che era opportuno adottare per assicurar l’avvenire. Ora è ben degno di nota che da questo momento si sentano affiorare nella lettera di Basilio intenzioni conciliative che alla curia finiranno col tempo per sembrare inopportune. Infatti, restaurare il patriarca Ignazio senza sistemare le sorti degli antichi seguaci di Fozio equiva­leva perpetuare i disordini; meglio sarebbe se ora che Roma aveva coscienza della situazione, i due partiti potessero andarvi a portar la loro causa; insieme bisognava pure che gli apocrisiari romani andas­sero sul luogo a constatare direttamente la complessità del pro­blema. Anche Ignazio sosteneva idee analoghe. Ci volle un tempo assai lungo prima che questo corriere giungesse a Roma; Adriano II non l’aveva certamente ricevuto ancora il 1° agosto 868, allorché rispondeva alla prima lettera dell’imperatore. Al latore erano capitate per istrada varie peripezie, di modo che le due missive parallele del patriarca e dell’imperatore non perven­nero alla curia che nella primavera dell’869; frattanto vi erano già arrivati gli inviati rispettivamente di Ignazio e di Fozio, che secondo i desideri dell’imperatore, dovevano perorare in contraddittorio la cau­sa dei loro mandanti. Evidentemente l’idea del sovrano — e Ignazio aveva dovuto spin­te o sponte aderirvi — era che si riprendesse la questione dal punto in cui l’aveva messa la lettera di Niccolò del novembre 865, senza te­ner conto dei fatti che dall’una e dell’altra parte avevano in seguito inasprito il conflitto; in un modo o nell’altro si sarebbe pur arrivati ad un accomodamento fra Ignazio e Fozio. Nonostante le tare della sua origine, Basilio possedeva la stoffa di grande sovrano e non gli dispiaceva affatto di esercitare nella Chiesa bizantina, da un secolo e mezzo tanto travagliata, la funzione di pacificatore. Atteggiamento di Roma Roma invece non poteva prestarsi a questo gioco. Il concilio foziano dell’867 costituiva ai suoi occhi un fatto nuovo di estrema gra­vita: prima sedes a nemine judicatur, là prima sede non viene giu­dicata da nessuno, era un assioma che si ripeteva in curia da secoli. Ora Fozio aveva commesso l’enorme errore di giudicare e di condannare sinodalmente il titolare della Sede Apostolica; il suo modo di procedere verso Ignazio scompariva completamente di fronte all’in­giuria da lui recata alla Chiesa romana. Bisogna tenere appunto pre­sente quest’idea nel leggere gli atti del sinodo radunato da Adriano II il 10 giugno 869 nella basilica di S. Pietro; tutto vi si aggira in­torno al concilio foziano dell’867, la cui condanna si concreta nel dare alle fiamme il codice mandato da Costantinopoli, contenente gli atti dell’assemblea. Parimenti vi sono riprovati i due sinodi contro Ignazio dell’859 e 861; Fozio soprattutto viene solennemente anatematiz­zato: se tornerà a resipiscenza, egli verrà ammesso unicamente alla comunione laica. Per dare soddisfazione alle esigenze dell’impera­tore si accordava l’amnistia a coloro che avevano sottoscritto il conci­lio dell’867; però le creature di Fozio dovevano essere allontanate dalle funzioni ecclesiastiche. Tuttavia la curia non tralasciava di prendere in considerazione la domanda di Basilio relativa all’invio di legati a Costantinopoli, sotto la presidenza dei quali si terrebbe un grande concilio. Al vesco­vo di Ostia, Donato, ed al diacono Marino, che nell’866 non avevano potuto arrivare nella capitale, ora veniva aggiunto il vescovo di Nepi, Stefano; le due lettere loro affidate, una per l’imperatore e una per il patriarca, precisavano ciò che Roma si attendeva dal concilio: non si trattava di ripigliare una discussione sul passato, ma solo di ratificare i decreti del sinodo romano. Si davano poi ad Ignazio istruzioni particolareggiate circa la sistemazione delle varie persone compromesse nell’avventura foziana: i prelati ordinati dall’intruso dovevano essere allontanati; solo quelli consacrati prima dell’858 potevano man­tenere le loro sedi accettando però di firmare una ritrattazione. Concilio di Costantinopoli (869-870) Più fedeli alla loro consegna che non i legati dell’861, i rappre­sentanti della Sede Apostolica, ai quali sembra desse il tono il diacono Marino, si studiarono per tutta la durata del concilio di non dipar­tirsi dall’atteggiamento loro prescritto. L’imperatore Basilio invece concepiva diversamente il compito dell’assemblea, che non doveva esser un semplice ufficio di registrazione; evitando di compromet­tersi con i plenipotenziari romani, l’imperatore aveva messo in mano a Baanes, magistrato di grande energia, la cura di dirigere le discus­sioni e d’intervenire quando occorresse. Fu obbedito, e parecchie volte i rappresentanti di Adriano cozzarono contro la resistenza di Baanes. Le prime sessioni, cominciate il 5 ottobre 869, furono consacrate esclusivamente alla costituzione dell’assemblea, la quale risultò for­mata, se così si può dire, per cooptazione: i legati, Ignazio, gli apocrisiari di Gerusalemme e di Antiochia, una dozzina di vescovi bizan­tini rimasti sempre fedeli ad Ignazio, inaugurarono, soli con i funzio-nari civili, i lavori del concilio; il piccolo gruppo si andò poi rinfor­zando, molto lentamente per?ò con il sopraggiungere dei prelati del patriarcato bizantino, ordinati già da Ignazio o dal suo predecessore Metodio, ma schieratisi poi con Fozio, i quali non furono ammessi che dopo aver firmato il libellus satisfactionis imposto da Roma. Alla quinta sessione, il 20 ottobre, non si era ancora raggiunta la cifra to­tale di ventun vescovi; tuttavia bisognò, come lo esigeva imperiosa­mente Baanes, cominciare il processo di Fozio e dei vescovi da lui con­sacrati. Per dire il vero, processo sarebbe un termine improprio, poiché i legati, senza tener conto delle proteste dei magistrati, si op­posero a qualunque discussione sul fondo della questione; in siffatte circostanze, la comparizione dei «condannati» — quella di Fozio si ebbe nella sessione del 20 ottobre e in quella del 29 — non poteva esser altro che una parata esecutiva: Fozio si chiuse in un disdegnoso silenzio, mentre alcuni dei suoi seguaci tentarono di discutere. Alla sesta sessione, uno di essi sostenne che il papa non è al di sopra dei canoni e che nella storia vi sono esempi di sentenze pontificie retti­ficate dalla posterità. Con visibile interesse, l’imperatore, che in quel giorno era presente, incominciò a discutere con lui, ma i legati, non senza veemenza, interruppero la discussione: «Voleva il convenuto sottoscrivere, sì o no, il libellus?». Essi non intendevano uscire da quell’alternativa. Il 29 di ottobre, nella settima sessione, lette le deli­berazioni del concilio romano di giugno, Fozio venne anatematizzato; otto giorni più tardi, nell’ottava sessione, il rogo consumava tutte le carte dell’ex patriarca relative al concilio dell’867, ed a quanto pare anche molte altre. Poi le sessioni, succedutesi regolarmente dal 5 ottobre all’8 no­vembre, vennero di colpo interrotte; la nona non fu tenuta che tre mesi dopo, il 12 febbraio 870, con un numero di vescovi alquanto più grande, ed in essa furono condannati i falsi testimoni che avevano deposto nel processo d’Ignazio nell’861, e così pure i compagni delle orgie sacrileghe del fu imperatore Michele. La sessione successiva, del 28 febbraio, assunse un carattere particolarmente solenne: vi conven­nero centotre vescovi, fra i quali trentasette metropoliti, sotto la pre­sidenza dei legati romani e dei due sovrani: Basilio e il figlio di lui Costantino, associato nell’Impero. I convenuti si mostravano a dito con interesse due legazioni, venute non specialmente per il concilio, ma che pure ne accentuavano la solennità: l’una era quella mandata da Boris, principe dei Bulgari; l’altra, guidata dal celebre Anastasio il Bi­bliotecario, allora al servizio dell’imperatore Ludovico II, veniva a trattare il fidanzamento di Ermengarda, figlia di Ludovico, col figlio di Basilio, Costantino. Al cospetto di così imponente consesso furono pubblicati i ventisette canoni stabiliti dal concilio, e la definizione stessa dell’assemblea. Nella serie degli articoli, oltre a prescrizioni d’ordine generale, vi era un certo numero di provvidenze ispirate dalle circostanze; la dichiarazione che leggevasi al canone 2 non era certo la meno importante. Tenendo come organo dello Spirito Santo, il beatissimo papa Niccolò, non­ché il suo successore il santo papa Adriano, noi definiamo e proclamiamo doversi custodire inviolabilmente tutti i provvedimenti da essi presi sinodalmente, così per la difesa e la reintegrazione nella Chiesa costantinopolitana del suo capo Ignazio, come per l’espulsione e la condanna di Fozio, neofito ed intruso. A pie di questi documenti apposero la firma, dopo i legati romani, Ignazio ed i tre apocrisiari dei patriarcati melchiti, l’imperatore Basilio ed i suoi due figli: Costantino e Leone, più trentasette metropo­liti e sessantacinque vescovi. Mai, nemmeno nel concilio del 681, la Nuova Roma aveva ancora affermato così grandiosamente la sua unio­ne con l’Antica; non più soltanto «Pietro parlava per bocca di Agatone», ma era lo stesso Spirito Santo che, per mezzo dei papi di Roma, emanava i suoi oracoli. Sottintesi dei bizantini Tuttavia, in chi fosse alquanto al corrente dei vari incidenti, po­tevano nascere dei dubbi. Fra i rappresentanti di Roma e i Bizantini, il loro imperatore, il loro patriarca ed i loro vescovi, la tensione era andata in realtà sempre crescendo, ed ora, quasi per una fatale coinci­denza, ecco rimbalzar fuori quella faccenda dei Bulgari, destinata ad intossicare sempre di più i rapporti fra le due Chiese, greca e latina. La tensione si avverte in tutti gli incidenti delle sedute, dove i magistrati imperiali protestano contro la condotta dei legati; si sente anche in due episodi che seguirono alla firma, il secondo dei quali è particolarmente sintomatico. I legati pontifici avevano trattenuto pres­so di sé le formule di ritrattazione che i prelati aderenti a Fozio ave­vano dovuto firmare per essere ammessi al concilio; ora, ad istigazione degli interessati, poco propensi a lasciare nelle cartelle della curia una prova della loro sottomissione, questi documenti vennero sottratti, in assenza dei legati proprio dalle persone che l’imperatore aveva in­caricato di custodirli. Proteste indignate dei legati, inchiesta, inter­vento di Anastasio che si adoperò per appianare il contrasto. Le carte involate furono restituite, ma l’incidente dice molto sullo stato d’a­nimo dell’imperatore e dell’episcopato greco. Sarebbe interessante avere una conferma sull’ipotesi suggeritaci da un documento di parecchi anni posteriore. Nulla vieta infatti di supporre che l’interruzione del concilio tra il novembre ed il febbraio possa aver avuto per causa i vivissimi attriti fra l’imperatore e la lega­zione romana, ed in particolare col diacono Marino; potrebbe essere questo il momento in cui il diacono rimase agli arresti per trenta giorni, per avere — come dice la lettera scritta nell’885 da Stefano V a Basilio I — rifiutato di concorrere alla procedura che l’impera­tore intendeva seguire. Non tutto è chiaro nella storia della dimora a Costantinopoli della legazione romana durante l’inverno dell’869-870. Il concilio — che nel computo latino sarà designato come Vili ecu­menico — non fu per la Chiesa romana fonte di sole soddisfazioni; gli eventi che seguirono muteranno ben presto quella gioia in ama­rezza. Boris si volge verso i greci La legazione bulgara non si trovava a Costantinopoli nel febbraio dell’870 solamente per far figura nel concilio, ma vi era venuta per un affare importante. Dacché nell’866 si era rivolto verso Roma, Boris era andato mutando ancora una volta di avviso; il suo cuore era de­finitivamente attaccato a Formoso, il quale verso la fine dell’867 aveva dovuto rientrare in Italia. Durante l’868 e l’869 si erano moltiplicati gli andirivieni fra la Bulgaria e Roma, sempre per la questione di trovare un arcivescovo per Boris; ma dei vari candidati che la curia gli proponeva, nessuno gli andava a genio: egli non voleva altri che Formoso. Rifiutando Roma di accontentarlo, egli si volgeva verso Bisanzio. Cosicché, mentre Grimoaldo, capo della missione latina, veniva rimandato a Roma, una legazione bulgara partiva per Costantinopoli, dove arrivò, come abbiamo detto, sul finire del concilio. S’intavolarono tosto i primi colloqui tra il patriarca, i Bulgari ed i legati romani; ad essi ben volentieri si sarebbe associato Anastasio, ma fu invece, con suo grande rincrescimento, lasciato a fare antica­mera, di che non si consolò mai più. Eppure può darsi che la sua assenza sia da rimpiangere, poiché egli avrebbe potuto rendere segnalati servigi ai legati romani con la sua perizia nel greco. Costoro ben sapevano come interpretare le disposizioni della curia, la quale non poteva che respingere qualunque presa di possesso del patriarcato bizantino sulla Bulgaria. Né lo ignorava Ignazio; egli ebbe però l’ac­cortezza di non pronunziarsi e di chiedere l’arbitrato degli apocrisiari degli altri patriarcati, i quali si pronunziarono in favore dei diritti di Costantinopoli sulla Bulgaria. Protestando contro questa sentenza, i legati romani esibirono una lettera pontificia della quale non avevano fino ad allora fatto cenno, ed infine vietarono ad Ignazio, nel modo più formale, di mandare alcuno dei suoi presso Boris. Ignazio prese bensì la lettera che i legati gli porgevano, ma per quanto costoro in­sistessero non la volle leggere per il momento; senza prendere alcun impegno, si protestò pieno di rispetto e di obbedienza verso la Sede Apostolica. E con questo si separarono. Poco tempo dopo Ignazio con­sacrava un arcivescovo per la Bulgaria ed in seguito una decina di vescovi. Sdegno di Adriano II Sebbene non venisse a immediata conoscenza di questi ultimi avvenimenti, Adriano II rimase assai male impressionato dalle infor­mazioni che gli arrivavano del concilio; i suoi legati non rientrarono in curia che verso la metà dell’871, avendo attraversato, durante il viaggio, alcune tragicomiche avventure, nelle quali erano andate per­dute anche le loro carte. Ma Anastasio, venuto con un’altra nave e che per un fortunato caso recava secco un duplicato degli atti conci­liari, aveva già potuto informarne il papa. Tuttavia la curia aspettò il rapporto ufficiale dei legati prima di esprimere il proprio parere; finalmente il 10 novembre 871 partiva una missiva diretta all’impe­ratore, che possiamo considerare come una relativa approvazione dell’VIII concilio. Essa esprimeva al sovrano la gratitudine del papa, temperata però da qualche rimostranza sia per l’abbandono in cui si erano lasciati i legati nel viaggio di ritorno, sia per le usurpazioni d’Ignazio in Bulgaria; vi si abbozzavano perfino alcune minacce verso costui, anzi la sentenza apostolica colpiva già senz’altro coloro che nel paese di Boris usurpavano l’autorità episcopale. Quanto ai proget­tati accomodamenti per riconciliare i partigiani di Fozio con quelli d’Ignazio, non c’era probabilità che riuscissero se prima, costituitesi entrambe le parti a Roma, la Sede Apostolica non avesse riscontrato un fatto nuovo che le permettesse di ritornare sulle decisioni del papa Niccolò I. Irritazione di Giovanni VIII Un anno dopo queste lettere, il papa Adriano II moriva (novem­bre-dicembre 872) e Giovanni VIII doveva accentuare ancora, ri­guardo alla questione bulgara, l’atteggiamento del suo predecessore. Sembra che veramente egli si proponesse il compito di strappare la Bulgaria all’influenza greca: « Se i perfidi Greci non escono dal vo­stro paese, scriveva egli a Boris nei primi mesi del suo pontificato, noi deporremo Ignazio; quanto ai preti e vescovi della sua comunione che si trovano in Bulgaria, saranno deposti ed anatematizzati; che del resto sembra siano in parte gente ordinata da Fozio, o che condivide i sentimenti di costui ». Nel corso poi dell’anno seguente, Giovanni VIII tornava alle minacce: «Ignazio non fu restituito nel possesso della sua sede se non a condizione di rispettare i diritti della Santa Sede in Bulgaria; s’egli li trasgredirà, ricadrà sotto i colpi dell’antica condanna». Ciò che Giovanni VIII temeva, come lo dirà esplicita­mente nell’878, era che, seguendo i Greci, la nazione bulgara potesse cader nello scisma e nell’eresia; se nello scrivere a Basilio I egli non andava tanto lontano, non tralasciava però di dilungarsi in lamentele contro la condotta di Ignazio, che avrebbe dovuto venire a Roma per giustificarsi delle sue usurpazioni. Provvedimenti di rigore contro Ignazio Nulla invece pareva vincere l’ostinazione di Ignazio; egli era in Bulgaria e ci voleva restare. Nell’aprile dell’878, la curia, vista l’inutilità dei suoi sforzi, si risolveva a prendere contro di lui provvedimenti rigorosi: partì per Costantinopoli una legazione romana, con alla testa i due vescovi di Ostia e di Ancona, Eugenio e Paolo, incaricata di procedere contro il patriarca ricalcitrante. Passando per la corte bul­gara, la legazione doveva lasciarvi lettere destinate a metter in guardia Boris «contro la perfidia greca»; all’imperatore poi doveva rimet­tere un messaggio di risposta ai suoi precedenti approcci circa i mezzi onde por fine ai disordini della Chiesa costantinopolitana. Per il pa­triarca la massima severità; in un con i più vivaci rimproveri per la sua ingratitudine, gli si rivolgeva una terza ed ultima intimazione: senza perdere un istante doveva allontanare dalla Bulgaria i suoi ve­scovi e relativi subalterni; gli si davano trenta giorni di tempo, dopo di che gli sarebbero applicate le sanzioni stabilite, e prima di tutto la scomunica; indi, se necessario, la deposizione pura e semplice. Mede­sima intimazione al clero d’Ignazio insediato in Bulgaria. Quale non dovette però esser la meraviglia dei legati, allorché, giunti nella capitale, trovarono in patriarcato non più Ignazio, piamente addormentatosi nel Signore nell’ottobre dell’anno avanti, bensì il suo antico rivale Fozio, che pacificamente ne aveva preso il posto. Fozio ritornato in grazia Tuttavia la cosa non era per nulla straordinaria. Se pure, dopo il concilio dell’869-870, Fozio aveva attraversato momenti ben dolo­rosi, col tempo la sua sorte era andata migliorando. Fin dal suo avven­to, Basilio aveva mirato alla pace religiosa; invece i provvedimenti draconiani adottati in seguito al concilio, le deposizioni di vescovi e la loro sostituzione, e la reiterazione delle cerimonie da essi com­piute, avevano mantenuto un fermento che durava da troppo lungo tempo. Ignazio però era avanzato in età e da un istante all’altro po­teva scomparire; sarebbe forse impossibile sostituirlo con Fozio, che potevasi sperare ormai rinsavito e disposto alla conciliazione? Non potremmo affermare che Basilio facesse esplicitamente questo ragio­namento; ad ogni modo ciò era implicito nel gesto del sovrano che, nel marzo dell’873, chiamava Fozio al Sacro Palazzo e poco dopo gli affidava l’educazione dei suoi due figli. Le male lingue diranno più tardi che Fozio profittasse di questa situazione per creare nuove diffi­coltà ad Ignazio ma di siffatte dicerie non c’è da tenere alcun conto; al contrario, tutto lascia pensare che tra i due antichi rivali avvenisse una riconciliazione. Ignazio, in freddi rapporti, per non dire in rot­tura, con Roma, non aveva ragione di prendersi cura degli interessi della Sede Apostolica; Fozio dal canto suo sapeva attendere la sua ora. Tre giorni dopo la morte d’Ignazio, Fozio, per ordine del so­vrano, risaliva sul trono patriarcale; né dovette faticare molto per guadagnarsi l’insieme dell’episcopato greco, il quale in maggioranza aveva serbato penoso ricordo delle sottomissioni imposte da Roma al tempo dell’VIII concilio. Soltanto un piccolo gruppo di fedeli alla memoria di Ignazio si andava formando, risoluto a non indietreggiare nemmeno di fronte allo scisma. Tale era la situazione, assolutamente inattesa, che i legati di Giovanni VIII trovarono al loro arrivo a Costantinopoli. Dubbiosi di quel che dovessero fare, essi tentarono, forse senza riuscirvi, di non prendere alcun partito, ma, invece di rientrare immediatamente a Roma, il che sarebbe stato più prudente, rimasero sul posto, evitando di compromettersi con Fozio, intanto che richiedevano nuove istru­zioni al loro signore. Essi certamente insinuarono che la riconciliazio­ne di Roma con Fozio appariva la più opportuna delle soluzioni; nel medesimo senso dovevano agire a Roma un inviato speciale del pa­triarca, Teodoro di Patrasso, ed una ambasceria mandata in Italia dallo stesso imperatore. Preoccupazioni temporali di Giovanni VIII I due legati Eugenio e Paolo non erano venuti in Oriente unica­mente per agire contro Ignazio; anche le questioni politiche occu­pavano la loro attenzione. Allorché ve li mandava nella primavera dell’878, Giovanni Vili era in procinto di partir per la Francia onde cercarvi un successore a Carlo il Calvo e un difensore per il papato in Italia; infatti la minaccia degli Arabi si andava profilando verso Roma e gli Infedeli trovavano connivenze nell’Italia meridionale. Poiché la protezione dei Franchi si rivelava sempre più aleatoria, non era vietato al papa di cercarsi altri appoggi. Dacché Basilio I aveva impresso alla politica bizantina un vigoroso impulso, l’Impero greco appariva come la sola forza capace di fermare il disgregamento dell’Italia e di impedire la presa di Roma da parte dei Saraceni. Di ciò indubbiamente si intrattennero con l’imperatore gli inviati di Giovanni VIII. La missione bizantina, che lasciò probabilmente Costantinopoli nella primavera dell’879, non andava soltanto a negoziare il riconoscimento di Fozio da parte di Roma, ma doveva regolare al­tresì la partecipazione dell’imperatore alla difesa d’Italia. Al momento in cui essa si presentava a Giovanni VIII, nell’estate dell’879, la situazione del papa sembrava sempre più difficile. Il viaggio in Francia nell’878 non aveva portato risultati di sorta; non era dunque il momento per il papa di scontentare l’imperatore, e tutto sommato il meglio era pur sempre di piegarsi a certe esigenze, anche gravose, ma che non importavano il sacrificio di alcun princi­pio dogmatico. È vero che Fozio aveva provocato la Sede Apostolica e si era levato contro Niccolò I: peccato gravissimo di superbia e di disobbedienza. Ma vi è misericordia per tutti i peccatori; non era certo la prima volta che la Chiesa facesse buona accoglienza al figliol prodigo pentito. Fozio riconosciuto da Giovanni VIII Possediamo pochissime informazioni sul concilio romano, peral­tro assai ristretto, in cui fu stabilita la definitiva linea di condotta. Vi si dichiarò che la Chiesa romana riconosceva Fozio, a patto che egli manifestasse il proprio rincrescimento per quel che era avvenuto: questo il pensiero che domina le varie lettere firmate alla metà d’agosto e rimesse a Pietro, prete cardinale, mandato a raggiungere i due vescovi Eugenio e Paolo rimasti a Costantinopoli. Con questi due ultimi, Pietro doveva rappresentare la Sede Apostolica al gran concilio di cui l’imperatore chiedeva la riunione. Tutte le lettere di­chiaravano — più o meno esplicitamente, secondo che le leggiamo in greco o in latino — che la Santa Sede, giudice supremo di ciò che fosse opportuno, avendo la facoltà di riformare le sentenze giu­diziarie del passato, riconosceva Fozio quale titolare del seggio pa­triarcale. Su questa restaurazione l’unanimità dell’episcopato bizan­tino era ormai raggiunta, i sovrani la desideravano, le presenti dispo­sizioni di Fozio erano pegno di quelle che sarebbero per l’avvenire: tutte ragioni che consigliavano a non insistere su ci? ch’era passato. I pochi oppositori, che Fozio si trovava ancora di fronte, ricevevano ordine di unirsi al resto del gregge e a Fozio, loro vero pastore, senza andare cercando pretesti per dissentirne in documenti ormai privi di valore. Col resistere, si esponevano agli anatemi di quella Chiesa romana alla quale essi stessi pretendevano appellarsi. A questo sì largo perdono la curia poneva bensì alcune condi­zioni: anzitutto le soddisfazioni che Fozio doveva dare al progettato concilio, indi la reintegrazione nei rispettivi posti dei suoi avversari che intendessero riconciliarsi con lui; tuttavia ciò che più stava a cuore alla Sede Apostolica era la definitiva rinunzia da parte del pa­triarcato bizantino a qualsiasi intrusione in Bulgaria. Né la curia si contentava di proteste verbali; soltanto il ritiro dei missionari man­dati colà da Ignazio attesterebbe le vere disposizioni di Fozio verso la Sede romana. Se il patriarca riconduceva la pace nella sua giuri­sdizione — e Roma era ben disposta a facilitargli il compito — e se d’altra parte si asteneva dall’allungare la mano sul dominio riven­dicato dalla Sede Apostolica, la riconciliazione fra le due Chiese po­teva dirsi raggiunta. Concilio dell’879-880 Ora, Fozio non aveva alcuna ragione di ricusare simili promesse; motivo per cui il concilio — le cui sessioni si svolsero dalla metà di novembre 879 al marzo 880 in — si risolse in una manifestazione di fraternità che sarebbe davvero commovente se fossimo più sicuri ; dei genuini sentimenti del protagonista. Delle disposizioni di Roma chi poteva dubitare vedendo i legati, fin dalla prima sessione, pre­sentare al condannato dell’869 i doni inviatigli da Giovanni VIII: la stola, l’omoforion, la tunica, i sandali, insegne della dignità pa­triacale. Ma i Padri del concilio non si erano radunati soltanto per ab­bracciarsi; nella seconda sessione, il 17 novembre, il cardinal Pietro pose esplicitamente le due questioni capitali: Fozio era disposto a ricevere i dissidenti che volessero aderire a lui e avrebbe accettato di far evacuare la Bulgaria? Sul primo punto, il patriarca si rimise alle decisioni dell’imperatore, che aveva esiliato i più irrequieti fra gli scismatici: quanto alla questione della Bulgaria egli fu quanto mai esplicito: «Prima ancora dell’ingiunzione della Sede Apostolica, disse egli, noi non avevamo compiuto in quel paese né ordinazioni, né promozioni di arcivescovi; noi non desideriamo altro che la pace: l’amministrazione di un nuovo territorio non ci porta che nuove preoc­cupazioni; riprenda dunque la Sede Apostolica in Bulgaria l’esercizio della propria giurisdizione». Ricevute queste promesse, e dopo una sommaria inchiesta sul modo in cui Fozio era risalito sul suo seggio, il cardinal Pietro ufficialmente e giuridicamente riconobbe il patriarca in nome della Chiesa; il medesimo riconoscimento gli fu significato in nome dei patriarcati di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, nonché in nome del catholicos di Armenia. Tutte queste cerimonie, costellate da rumorose manifestazioni di fedeltà verso i sovrani, verso Fozio, verso Giovanni VIII, non ba­stavano tuttavia a regolare taluni punti secondari ai quali Roma te­neva moltissimo; soprattutto la faccenda dell’ammissione agli ordini dei «neofiti», dove l’Occidente avrebbe voluto imporre la propria norma. La terza sessione, che si tenne due giorni dopo, il 19 novem­bre, non poté raggiungere l’accordo. La Chiesa greca, dicevano i Padri del concilio, ha le sue proprie regole; non si cerchi di imporle il diritto canonico occidentale. Questo rifiuto non impedì comunque ai legati apostolici di dichiarare, sul finir della sessione e seguendo i termini stessi del commonitorium da essi ricevuto, l’annullamento puro e semplice delle decisioni di diritto e di fatto prese nell’869-870. Frattanto il concilio andava completandosi a poco a poco: alcuni ignaziani, rimasti fin là recalcitranti, venivano a resipiscenza e la sessione del dicembre vedeva con soddisfazione sottomettersi parecchi alti uf­ficiali. Vi si lessero poi le lettere apostoliche che annullavano l’VIII concilio ed anatematizzavano gli avversari irreconciliabili di Fozio. Dopo le feste natalizie, in una nuova sessione, il 24 gennaio, il con­cilio applicava a Metrofane di Smirne, capo dell’opposizione ignaziana, le sanzioni prescritte; infine con un canone disciplinare si ge­neralizzarono i provvedimenti adottati e rimase inteso che le due sedi, di Roma e di Costantinopoli, riconoscerebbero vicendevolmente il valore delle rispettive sentènze di scomunica. Ciò non vuoi dire, come l’hanno preteso vari commentatori, che Roma abbandonasse per questo il suo privilegio di suprema istanza in qualsiasi questione di diritto o di fatto; bisogna tuttavia confessare che per scoprirvi riaffermato il diritto d’appello è necessario leggere il testo ben at­tentamente. Evidentemente i Bizantini approfittavano delle circo­stanze per esprimere il loro costante concetto, che poneva al mede­simo livello le due sedi dell’Antica e della Nuova Roma. Ultime due sessioni. La questione del « Filioque » Se potessimo esser più certi dell’autenticità dei verbali relativi alle due ultime sessioni, tenute il 3 ed il 13 marzo, bisognerebbe aggiungere che si manifestò pure la pretesa bizantina d’imporre all’Occidente il riconoscimento della propria autonomia in materia dog­matica. Abbiamo detto già quanto chiasso avesse suscitato nei primi anni del sec. IX la questione del Filioque; la questione, sebbene sopita nelle due generazioni successive, non era peraltro risolta. I seguaci della dottrina della duplice processione dello Spirito Santo, e dell’addizione al simbolo delle parole che tale dottrina esprimono, costituivano ormai la maggioranza fra i Latini; in Roma stessa — dove Leone III, contro le imperiose richieste di Carlomagno, aveva inteso mantenere il testo del Credo nella sua forma tradizionale — pare che un po’ alla volta si accettasse e si lasciasse introdurre l’aggiunta. Ad ogni modo, gli eredi della teologia carolingia consideravano degni di biasimo coloro che non cantassero il Filioque, ed in Moravia l’oppo­sizione suscitata dai Tedeschi contro Metodio toglieva pretesto sia dalla sua opposizione al Filioque come dalla sua liturgia slava. Ma dal canto suo la Chiesa greca s’impuntava e la sua lotta contro l’ag­giunta assumeva ormai un aspetto dogmatico, mentre cominciava ad affermarsi una teologia della processione delle Persone divine che si scostava dalle antiche affermazioni patristiche. Checché ne sia del resto, tra le accuse che si movevano all’Occidente, la formula del Fi­lioque e la relativa dottrina stavano in prima fila; Fozio l’aveva espres­samente segnalata nella sua enciclica dell’867 come uno dei gravi er­rori dei missionari romani. Non è quindi improbabile che il concilio dell’879-880 si occu­passe della questione; è vero che nelle lettere apostoliche relative al concilio essa non appare punto: tuttavia, dato che l’assemblea ave­va come scopo di ristabilire la concordia fra le Chiese e di sopprimere le possibili cause di attrito, era opportuno che prendesse una posizione. Non si vede d’altra parte quale fatto nuovo possa aver indotto Giovanni VIII a ritornare sulla soluzione accettata nell’879; le due condizioni poste al riconoscimento di Fozio erano rispettate; gli op­positori venuti a resipiscenza erano stati riammessi dal reintegrato patriarca e coloro che perseveravano nel loro atteggiamento scisma­tico non potevano che prendersela con se stessi per il rigore che si attiravano. Quanto alla Bulgaria, Fozio ed il suo concilio avevano promesso d’intendersi con l’imperatore e Basilio (il papa gliene espri­meva riconoscenza) aveva preso i provvedimenti necessari. Con ciò non è detto che il clero greco scomparisse da un giorno all’altro dagli Stati di Boris, né soprattutto che la gerarchia latina vi si potesse immediatamente insediare; di fatto però la Bulgaria cessò di figurare sulle liste episcopali del patriarcato bizantino. A sua volta questo non significa che diventasse una dipendenza di Roma, dato che Boris si radicava sempre più nelle sue idee di autonomia ecclesiastica e sta­vano per venire tempi in cui il sovrano bulgaro avrebbe regolato di sua testa tutti gli affari della sua Chiesa; ma questo separatismo non si può attribuire ad eventuali intrighi di Fozio.
Posted on: Thu, 24 Oct 2013 20:41:52 +0000

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