Transfer price – La dimostrazione delle valide ragioni - TopicsExpress



          

Transfer price – La dimostrazione delle valide ragioni economiche non impedisce l’applicazione del criterio del valore normale (note a Cass. n. 7343 del 31 marzo 2011). A cura dellAvv. Federico Pau Corte di Cassazione, Sez. tributaria, sent. n. 7343 del 31 marzo 2011 (ud. del 16 dicembre 2010) – Pres. e Rel. D’Alonzo Imposte sui redditi – Reddito d’impresa – Transfer pricing –Abuso del diritto – Elusione – Blocco operazioni commerciali – Valutazioni –Applicazione di sconti Massima – Il settimo comma dell’art. 110 T.U.I.R., relativo alla determinazione del valore dei beni e servizi relativi alle operazioni con società residenti in Stati aventi regimi fiscali privilegiati, impone l’applicazione del criterio del “valore normale” a prescindere dal corrispettivo effettivamente pattuito e, di conseguenza, con assoluta irrilevanza delle concrete ragioni economiche per le quali lo stesso è stato fissato dai contraenti in misura minore. 1. Premessa. Con la pronuncia n. 7343 del 31 marzo 2011 la Suprema Corte tratta nuovamente la peculiare disciplina riservata alle operazioni commerciali intercorse tra imprese residenti e soggetti economici non residenti, appartenenti allo stesso gruppo, statuendo, in un’ottica rigorosa e imperativa, che la norma di cui al settimo comma dell’art. 110 T.U.I.R. trova applicazione indipendentemente dalle ragioni economiche che hanno motivato il contribuente, posto che il limite del valore normale si atteggia, più che come presunzione, quale parametro non trattabile. 2. Transfer price: profili generali. La norma richiamata in premessa, cristallizzata nel settimo comma dell’art. 110 del TUIR , com’è noto, prevede, in deroga al principio di valutazione in base ai corrispettivi pattuiti, una speciale modalità di computo dei componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti appartenenti al medesimo gruppo, i quali, secondo la lettera della disposizione, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti. La previsione in oggetto è volta a contrastare il fenomeno del c.d. transfer pricing , ossia la pratica concretantesi, secondo lo schema classico, nella pattuizione di prezzi difformi da quelli che sarebbero stati pattuiti sulla base delle normali condizioni di mercato, per le cessioni di beni o le prestazioni di servizi tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo, al fine di trasferire redditi da un soggetto del gruppo ad altro sottoposto a minore tassazione. La soggezione del gruppo a un minore carico fiscale complessivo si ottiene, pertanto, congegnano le transazioni, interne al medesimo, in modo tale da spostare i ricavi, dalle società situate in Paesi a fiscalità elevata, verso quelle localizzate in Paesi con minore pressione fiscale, facendo figurare un aumento delle spese e una diminuzione dei ricavi nelle prime, e un abbassamento delle spese e un accrescimento dei ricavi nelle seconde. Si tratta di un fenomeno alquanto risalente, da lungo tempo preso in esame dal legislatore nazionale; è sufficiente rammentare al riguardo che la prima previsione interna sulla problematica di cui si discute si ritrova nell’art. 17 della legge 1231 del 1936 . Tale disposizione, dapprima sostanzialmente ripresa nell’art. 113 del T.U. II. DD. n. 645 del 1958, è, in seguito, confluita negli artt. 53 e 56 del D.P.R. n. 597 del 1973 e, da ultimo, ha trovato collocazione nell’art. 76 comma 5° del T.U.I.R. (divenuto, con la riforma del 2003, l’art. 110, 7° comma). La ratio della norma in commento è quella di impedire il trasferimento di utili da uno Stato ad un altro, evitando l’abbattimento del reddito sottoponibile ad imposizione in Italia derivante da un’indicazione non veritiera dei componenti di reddito che, nella forma più primitiva, avviene facendo figurare prezzi maggiorati o ridotti rispetto a quelli di mercato al fine di limitare l’imposizione fiscale complessiva del gruppo. Il legislatore, per evitare in nuce tale eventualità, prevede, secondo quanto tradizionalmente ritenuto, una presunzione assoluta di cessione a prezzo normale , di modo tale da disconoscere i vantaggi creati attraverso tale pratica . Sul punto la sentenza in esame non si allinea agli insegnamenti classici, statuendo che la norma in commento “non contiene per nulla una presunzione (sia pure legale; quandanche iuris tantum, comunque questa suscettibile di prova contraria), di percezione di un corrispettivo diverso da quello convenuto perchè, semplicemente, detta lunico criterio legale da adottare per la valutazione reddituale della particolare operazione economica, a prescindere, quindi, dal corrispettivo effettivamente pattuito e, di conseguenza, con assoluta irrilevanza delle concrete ragioni economiche per le quali lo stesso è stato fissato dai contraenti in misura minore.” 3. Presupposto soggettivo I soggetti interessati dalla disciplina di cui si discorre sono le imprese residenti in Italia che siano controllate, direttamente o indirettamente, da società non residenti, ovvero che controllino, direttamente o indirettamente, società non residenti e, infine, le imprese residenti e le società non residenti che siano controllate, direttamente o indirettamente, da una stessa impresa. Non rientrano nell’ambito della disposizione di cui trattasi, invece, le operazioni intercorrenti tra imprese residenti e imprese non residenti non aventi struttura societaria. Nondimeno, va evidenziato che – come precisato con Circ. n. 32/9/80 del 22 settembre 1980 – il concetto di “società”, al quale si riferisce il legislatore, nell’indicare il soggetto estero controllante, non deve essere inteso riduttivamente, invero, rientrano, nell’ambito di tale nozione, anche, forme giuridiche non espressamente previste nel nostro ordinamento, nonché le stabili organizzazioni, non localizzate in Italia, di società estere. Da ultimo, va menzionato – stante la mancanza di corrispondenza automatica tra le definizioni civilistiche e quelle tributarie – che la nozione di impresa è quella codicistica, pertanto, secondo il disposto di cui all’art. 2082 c.c., per essa s’intenderà un’attività economica organizzata al fine della produzione o scambio di beni e servizi. In particolare, in base alla Circ. n. 32 del 1980, rientrano tra le imprese, oltre che i vari tipi di società di capitali e di persone, anche le imprese individuali e le stabili organizzazioni di società estere operanti in Italia ed ivi sottoposte ad imposizione in base agli artt. 23, 73 e 151 del T.U.I.R. 4. Presupposto oggettivo. Il controllo. Per quanto concerne il requisito di controllo, in via preliminare rileva quanto previsto dall’art. 2359 c.c., il quale considera società controllate: 1) le società in cui unaltra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nellassemblea ordinaria; 2) le società in cui unaltra società dispone di voti sufficienti per esercitare uninfluenza dominante nellassemblea ordinaria ; 3) le società che sono sotto influenza dominante di unaltra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Tuttavia, la nozione in esame, alla luce delle integrazioni fornite nella Circ. n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980 e nella Circ. n. 42 del 12 dicembre 1981, deve essere intesa in senso ampio, finanche a ricomprendere ogni situazione in cui concrete condizioni economiche si traducano nel controllo, anche indiretto, della forza contrattuale della controparte. In sostanza, tale concetto, secondo la Circ. n. 32 del 22 settembre 1980, deve essere esteso a ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale, non essendo, dunque, limitato alle ipotesi di controllo in senso tecnico . Da quanto detto, si comprende che la normativa in oggetto è applicabile anche nel caso di operazioni effettuate tra società collegate, ovverosia, ai sensi del terzo comma dell’art. 2359, le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole . 5. Il valore normale. L’analisi del concetto di “valore normale” assume preminente importanza posto che i componenti di reddito – positivi e negativi, ordinari e straordinari – concorreranno a formare l’imponibile in base al valore normale dei beni o dei servizi oggetto delle transazioni e non, invece, in ragione del prezzo pattuito (il quale, nondimeno, rappresenta il valore civilisticamente rilevante). Tale criterio ha assunto contorni più chiari, inizialmente, con l’emanazione delle Circolari n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980 e n. 41/12/1587 del 12 dicembre 1981, le quali, fornendo una linea interpretativa della disposizione in commento, collegano il concetto di valore normale al prezzo di libera concorrenza, specificando, altresì, che ci si riferisce a quello “che sarebbe stato pattuito da imprese indipendenti per trattazioni similari” . In ogni caso, l’analisi di tale nozione presuppone l’esame del terzo comma dell’art. 9 del T.U.I.R., secondo il quale per valore normale si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti duso. Il valore normale, tuttavia, si noti, prevarrà unicamente quando la sua applicazione comporti un innalzamento del reddito dell’impresa residente, ed, in tal caso, graverà sul contribuente medesimo l’obbligo di effettuare la variazione in sede di dichiarazione. Qualora, a contrario, da tale valutazione derivi una diminuzione del reddito, la rettifica sarà possibile soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali «procedure amichevoli» previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi . In ogni caso, com’è stato più volte affermato in giurisprudenza , non incombe sul contribuente la prova della correttezza dei prezzi di trasferimento, invero, spetta all’Amministrazione Finanziaria dimostrare il mancato rispetto del principio del valore normale. Sul punto, gli stessi documenti provenienti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – che, come postea si evidenzierà, hanno avuto un peso decisivo sulla formulazione della disciplina in esame – hanno espressamente sottolineato che, laddove la normativa di una giurisdizione nazionale preveda che sia lAmministrazione Finanziaria ad essere gravata dellonere della prova delle proprie pretese, il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non prima che lAmministrazione Fiscale abbia, essa stessa, dato prova del mancato rispetto del principio del valore normale. 6. I criteri per la determinazione del valore normale. Il Comitato per gli Affari Fiscali dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha pubblicato, dal 1979 al 1987, tre studi particolareggiati, all’interno dei quali si esaminano i criteri per la determinazione del valore normale. Si tratta, in particolare, del report denominato “Transfer Pricing and Multinational Enterprises”, adottato nel 1979 e recepito dal Ministero delle Finanze con le Circolari n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980 e n. 42/12/1587 del 12 dicembre 1981, del report “Transfer Pricing and Multinational Enterprises. Three Taxation issues”, adottato nel 1984 e, infine, del report “Thin capitalization” del 1987. Tali rapporti costituiscono, insieme al Rapporto “Transfer pricing guidelines for multinational enterprises and tax administration” , pubblicato nel 1996 , documenti fondamentali, in quanto hanno dettato i principi recepiti dai diversi legislatori nazionali nell’elaborazione delle normative interne. La stessa pronuncia dei Supremi Giudici, in questa sede annotata, evidenzia come il fenomeno sia stato oggetto specifico di interessamento da parte dell’OCSE [Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici] che ha diretto agli stati aderenti apposite raccomandazioni col rapporto del 1979 (successivamente rivisto ed integrato, ancora di recente nel 2010) intitolato Transfer pricing guidelines for multinational enterprises and tax administrations (guidance on the application o/the arms length principlè for the valuation, for tax purposes, of cross-border transactions between associated enterprises), anche al fine di risolvere eventuali dispute (mediante le “procedure amichevoli dette) tra le amministrazioni fiscali dei diversi stati (capitolo quarto: Administrative Approaches to Avoiding and Resolving Transfer Pricing Disputes ). In ambito internazionale, un’altra fonte di particolare rilievo è l’art. 9 del Modello di Convenzione OCSE, il quale statuisce che il principio di libera concorrenza è lo standard di riferimento ai fini della regolamentazione fiscale dei prezzi di trasferimento. La disposizione prosegue prevedendo, in estrema sintesi, che, ove le transazioni tra imprese appartenenti al medesimo gruppo siano concluse a condizioni diverse da quelle di libera concorrenza, gli utili, di tal guisa attribuiti ad una delle due imprese, possono essere rettificati e riferiti all’altra. Anche il citato Rapporto del 1996 conferma l’applicazione, quale criterio cardine, del principio di libera concorrenza (at arm’s lenght), e precisa, inoltre, che siffatto canone trova concreta operatività, essenzialmente, attraverso tre metodi tradizionali o di base (traditional transaction methods): il metodo del confronto del prezzo (cup), il metodo del prezzo di rivendita (resale price) ed il metodo del costo maggiorato (cost plus). In base al primo di questi, il valore normale è individuato confrontando il prezzo praticato con quello che sarebbe stato proposto se la transazione fosse stata conclusa tra imprese indipendenti, operanti in medesime condizioni contrattuali e di mercato (c.d. confronto esterno), ovvero, ove la transazione fosse stata effettuata tra un’impresa facente parte del gruppo ed una società indipendente (c.d. confronto interno). Secondo la seconda metodica la determinazione avviene detraendo, dal prezzo finale di rivendita, un margine normale di profitto o di utile lordo. In altri termini, data una compravendita tra due soggetti collegati, il valore normale si ricaverà sottraendo dal prezzo della successiva vendita, conclusa tra l’acquirente collegato ed un terzo indipendente, un margine di utile lordo di mercato. Infine, in forza del metodo del costo maggiorato, il valore normale va determinato aggiungendo, al costo di produzione del bene o servizio scambiato ovvero erogato, un margine di profitto o utile lordo (mark-up) di mercato. Tale margine di utile “normale” può essere ricavato dalla comparazione tra il margine di utile della transazione e quello ricavato dalla stessa impresa in transazioni similari con soggetti indipendenti, oppure, in assenza di transazioni analoghe da utilizzare come parametro, dal confronto del margine utile ricavato dalla transazione con quello ricavato da altre imprese in simili operazioni concluse con terzi indipendenti. I tre metodi sono stati recepiti nel nostro ordinamento con la Circ. n. 9/2257 del 22 settembre 1980, la quale, fissando una gerarchia tra di essi, dispone la prevalenza del metodo del confronto del prezzo . L’eventualità che nessuno dei predetti metodi possa trovare applicazione ha richiesto la previsione di ulteriori metodi c.d. alternativi , nella cui applicazione è, nondimeno, rispettato il principio del prezzo di libera concorrenza. Va da sé che l’utilizzo dei criteri alternativi è, in linea di principio, sussidiario rispetto alle metodiche tradizionali, ed è volto a eliminare le incertezze sorte dall’applicazione di queste o nel caso queste ultime non siano applicabili . In realtà, la pratica ha evidenziato come tali tecniche si atteggino, nel contesto internazionale, sempre più come sistemi prediletti rispetto a quelli c.d. principali, da taluni ritenuti obsoleti. Nello specifico, distinguiamo i seguenti metodologie alternative: a) comparazione dei profitti, che prevede il raffronto degli utili conseguiti dall’impresa con quelli ricavati da imprese operanti nello stesso settore economico; b) ripartizione dei profitti globali, per cui occorre dividere gli utili conseguiti tra le diverse entità del gruppo in base ai costi sostenuti da queste nel processo produttivo; c) margini lordi del settore economico, secondo il quale, per la determinazione dell’utile, si deve avere riguardo al livello di efficienza delle imprese partecipanti al processo produttivo del bene o del servizio; d) redditività del capitale investito, in base ad esso il profitto dell’impresa è individuato, a prescindere da ogni riferimento ai costi di produzione o di vendita, in relazione al capitale investito. 7. La sentenza n. 7343 del 31 marzo 2011. Con la pronuncia in analisi la Suprema Corte, nell’applicare il meccanismo giuridico-fiscale di cui si è detto, esclude la possibilità, per l’impresa nazionale, di praticare sconti sistematici sulle vendite effettuate nei confronti di società estere riconducibili al medesimo gruppo. Nel caso de quo, la Cassazione era chiamata a decidere su un’ipotesi in cui la società oggetto di verifica “aveva ceduto beni a consociate estere in rapporto di collegamento a prezzi inferiori a quelli applicati a società terze indipendenti, pur essendo identici i prodotti ceduti” e aveva applicato una percentuale di riduzione del prezzo (c.d. rémise) in ragione del 2, 3 o 4% sulle vendite effettuate nei confronti di alcune collegate estere domiciliate nell’Unione Europea. Orbene, a parere dei Giudici di legittimità, i c.d. sconti d’uso non possono trovare applicazione negli scambi tra società appartenenti allo stesso gruppo “essendo evidente che siffatta pratica (capace, di per sé sola, di determinare l’anticipato spostamento all’estero del corrispondente reddito prodotto in Italia), siccome limitata alle società dello stesso gruppo economico, non rappresenta affatto il prezzo o corrispettivo mediamente praticato dal soggetto in condizioni di libera concorrenza, e, quindi, non è idoneo a fissare quel valore normale che il legislatore prescrive di considerare perché da esso ritenuto l’unico rappresentativo del prezzo o corrispettivo mediamente praticato per ì beni e i servizi della stessa specie. Discende che le cd. rémise, ovverosia le riduzione percentuali del prezzo praticate nei soli rapporti economici {operazioni) con società considerate nel settimo comma dell’art. 110 del TUIR, non costituiscono gli sconti duso contemplati dal terzo comma dell’art. 9 del medesimo TUIR perché le riduzioni percentuali del prezzo di listino e/o di tariffa che la norma prende in considerazione quali sconti duso sono unicamente quelle usualmente praticate dal soggetto sui propri listini o sulle proprie tariffe (se esistenti) per le operazioni concluse in condizioni di libera concorrenza, ovverosia per le operazioni economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo economico”. Procedendo a un esame più dettagliato di tale pronuncia, ne notiamo immediatamente il carattere giuridicamente ben articolato, infatti, dopo avere indicato i presupposti applicativi e la ratio della normativa sul transfer price, i Giudici della Cassazione ne indicano la natura richiamando, altresì, la giurisprudenza di legittimità più significativa sul punto, giungendo, infine, a definire il criterio da adottare per le valutazione e ad escludere la rilevanza delle ragioni economiche che hanno determinare l’agire del contribuente. In particolare, la sentenza indica il fenomeno di cui trattasi come lartificiale aggiustamento del prezzo di scambio di beni e/o di servizi, attuato tra le società facenti capo a un unitario centro d’interesse economico e, sostanzialmente, decisionale, che permette di spostare all’estero flussi di reddito prodotti nello Stato. I Giudici ne specificano, inoltre, il meccanismo applicativo: “la disposizione nazionale impone (in via principale) allo stesso contribuente (atteso che, come segnalato anche dalla dottrina, essa detta i criteri giuridici da seguire, in primis, ai fini della determinazione del reddito da dichiarare, quindi a prescindere dallazione di verifica dellamministrazione fiscale, esperita solo in seguito da questa) di considerare, per le peculiari operazioni dalla stessa contemplate, il criterio del valore normale del bene (ceduto o ricevuto) e/o del servizio (prestato o ricevuto) anzi che quello ordinario, previsto dallart. 53 (ora art. 85) del cit. T.U.I.R., del corrispettivo convenuto. Un aspetto di rilievo è l’inquadramento della norma, da parte dei Giudici di legittimità, nell’ambito delle clausole antielusive , che, secondo la sentenza in commento, troverebbe, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto ma, anche, immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale. In merito, si noti che, in ambito OCSE, di recente, si è evidenziato che “The consideration of transfer pricing should not be confused with the consideration of problems of tax fraud or tax avoidance, even though transfer pricing policies may be used for such purposes” . Il principio offerto dalla pronuncia, che ci si propone di evidenziare, emerge appresso, in collegamento con il carattere antielusivo della disposizione: “Da siffatta natura discende che la norma non contiene per nulla una presunzione (sia pure legale; quandanche iuris tantum, comunque questa suscettibile di prova contraria), di percezione di un corrispettivo diverso da quello convenuto perchè, semplicemente, detta lunico criterio legale da adottare per la valutazione reddituale della particolare operazione economica, a prescindere, quindi, dal corrispettivo effettivamente pattuito e, di conseguenza, con assoluta irrilevanza delle concrete ragioni economiche per le quali lo stesso è stato fissato dai contraenti in misura minore”. Sul punto la sentenza sconfessa, in maniera diretta e immediata, quanto affermato dai giudici di seconde cure, che, ritenendo che le ragioni economiche della società fossero rilevanti, affermava: “vi sono state risposte, da parte dei responsabili della società e messe a verbale, che dovevano essere valutate nel contesto macroeconomico all’interno del quale le società del gruppo operano tra loro… nel caso può trovare applicazione la norma inerente la previsione contrattuale per gli sconti d’uso di cui al terzo comma dell’art.9 del Tuir” in quanto “questi sconti hanno un valore costante sistematico e generalizzato (2, 3 e 4%) e pertanto all’interno degli scambi economici tra società del gruppo queste remise possono ritenersi sconti d’uso anche in mancanza di una previsione contrattuale, previsione invece necessaria con società terze; … la normativa tendente a contrastare l’elusione fiscale non detta regole e non interferisce nella politica economica di una società inserita in un gruppo multinazionale”, ne consegue che le cosidette remise “non possono ritenersi un’operazione elusiva scientemente programmata”. Orbene, si noti come, se da un lato il legislatore e la giurisprudenza ci hanno educati a valorizzare le ragioni economiche che spingono il contribuente a porre in essere determinate operazioni commerciali, la cui dimostrazione, di regola, neutralizza gli effetti sfavorevoli per il contribuente delle disposizioni antielusive a portata specifica o generale, sotto tale profilo, la previsione de qua si mostra singolare. In conclusione, infatti, secondo l’autorevole lettura, proveniente dalla Suprema Corte, della norma in commento, la prova delle valide ragioni economiche dell’impresa, lungi dall’avere l’effetto di sottrarre la stessa alle conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della normativa in oggetto, non impedisce l’applicazione della disciplina sul transfer price, in quanto, come visto, il criterio legale, indicato dal legislatore, si atteggia come rigido e di applicazione automatica. (Avv. Federico Pau)
Posted on: Sat, 30 Nov 2013 14:47:01 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015