Tutte le volte che mi sono venduta Di studiare all’estero - TopicsExpress



          

Tutte le volte che mi sono venduta Di studiare all’estero non mi era riuscito perché al secondo anno di Università ero rimasta incinta, di tentare la strada della ricerca non mi era riuscito perché la bambina si era ammalata e per 4 anni avevo trascorso il tempo tra un Ospedale e l’altro, di lavorare a Bruxelles – finalmente laureata - non mi era riuscito perché mi avevano diagnosticato un male incurabile (ma sono passati 20 anni e sto ancora qui), insomma mi chiedevo perché mai il destino mi inseguisse malevolo come la nuvoletta della pioggia che ti cammina sulla testa. Io non volevo essere sempre e solo il direttore di Telemolise, un mestiere oltretutto che mi aveva affibbiato la sorte. “Saprò fare anche qualche altra cosa, dio santo!”, andavo piagnucolando di qua e di là, “qualcosa che mi gratifichi di più, che vendichi almeno la metà dei sogni di gloria finiti a calci in culo”. Fu così che decisi di mettermi a scrivere. La notte, allora, invece di trascorrerla a riflettere sull’inutilità dell’esistenza, mi organizzai per riempirla di parole. E scrissi 40 racconti, tutti veri e tutti in prima persona: preferivo immedesimarmi, perché l’«io» letterario mi era più familiare e le parole sgorgavano dai ricordi con maggiore facilità. I personaggi delle mie storie, realmente esistiti – un ipocondriaco, uno schizofrenico, una prostituta di lusso, un’anziana inaridita dal declino, e perfino una madre immaginaria – componevano nient’altro che l’umana varietà delle nostre vite, convinta com’ero, e come sono, che ognuno di noi porti dentro di sé qualcosa degli altri. Rimaneva da decidere il titolo. Cercai allora qualcosa che accomunasse un po’ tutti i miei protagonisti, una specie di sintesi emotiva del loro agire. E lo trovai, questo qualcosa, in un particolare scabroso che tuttavia aleggiava nelle scelte operate e nei destini compiuti: la vendita di se stessi, anche a un prezzo molto basso, per ottenere un beneficio. Chi aveva venduto il proprio corpo, chi la propria coscienza, chi un’idea, chi un ricordo, chi un amore antico o segreto, insomma ognuno dei loro traguardi prevedeva un prezzo ed ognuno di loro era stato disponibile a pagarlo. Elessi perciò a titolo dell’intera raccolta quello che mi sembrava il più idoneo, quello che avevo scelto per il racconto della «prostituta» di lusso, una donna in carriera, bellissima, che superava gli ostacoli offrendo se stessa: “Tutte le volte che mi sono venduta”. E con la facilità di relazioni e rapporti, propria di chi si muove nel mondo televisivo da tanti anni, chiesi ai media amici di pubblicizzarmi il lavoro e di collaudare qualche racconto on line, anche per intercettare l’eventuale gradimento del pubblico. Non immaginavo a quale catastrofe stessi andando incontro. I colleghi mi accontentarono (@ltromolise per primo) e diffusero la notizia, ma non avevo previsto - mitomane di provincia quale sono a giorni alterni - che il passaparola su un nome abbastanza noto come il mio, su un titolo abbastanza indecente come quello e, per di più, in una terra piccola e abbastanza bigotta come la nostra, si sarebbe trasformato in una prengbombe cylindrisch all’uranio. Infatti scoppiò. La notizia «Il direttore di Telemolise ha scritto una raccolta di 40 racconti dal titolo “Tutte le volte che mi sono venduta”», di bocca in bocca subì una mutazione genetica scontata, perse qualche termine, ne caricò qualche altro e divenne «Il direttore di Telemolise ha scritto un’autobiografia dal titolo: “Per fare carriera mi sono venduta 40 volte”». Un risultato grandioso, il premio oscar del perfetto imbecille, se fosse esistito, lo avrei vinto a tavolino. Ora, a parte che mi andavo chiedendo quale grande carriera avessi fatto, visto che lavoravo sempre e solo a Telemolise e per di più a quattro soldi; a parte che quaranta uomini influenti a cui offrirmi allegramente nel Molise non si trovano, nemmeno se a cercarli fosse la digos (tant’è che gli sportivi delle cazzate domenicali riuscivano a tirare fuori dal cilindro non più di tre o quattro nomi)… Il problema era un altro: cosa dovevo fare per chiarire questo orribile malinteso? Il suggerimento me lo diede Antonio DAmbrosio, uno dei pochi amici sinceri e sinceramente costernati per la figura di merda alla quale mi ero fatalmente candidata. “Fai un’intervista a Telemolise”, mi disse, “e spiega tutto con grande serenità”. Infatti gli diedi ascolto. Mi piazzai davanti alle telecamere e spiegai l’equivoco. Le voci si spensero - potenza della televisione - e cominciai a lavorare di nuovo al progetto del libro: la pubblicazione, quali case editrici contattare, come contattarle e così via. Erano le nove del mattino del 3 febbraio del 2007, quel giorno, e mio fratello, Roberto, tutto contento e concentrato, sedeva in un taxi di Milano, per raggiungere la sede dove si svolgeva un convegno sulle patologie cardiovascolari. Un convegno importante, in cui era relatore. La radio era accesa, ma mio fratello – assorto e avvolto in ben altre riflessioni - udiva sì e no un brusio lontano e fastidioso. Lontano e fastidioso, questo brusio, finché non gli sembrò d’aver captato un nome familiare, qualcosa come “Campobasso, Molise, scandali”. Si congedò per un istante dai suoi pensieri e chiese all’autista di alzare il volume. “E come si chiama questo puttanone?”, stava dicendo uno. “Manuela Petescia”, rispondeva l’altro, “pare che sia il direttore di una tv, Telemolise”. “E che direttore, allora ci provo pure io!” “Ahahaha, ma tu non conti niente, quella la dà per fare carriera, se ne è trombati quaranta”. Mio fratello non poteva credere alle sue orecchie. Incazzato nero, si fece dire dal tassista di che emittente si trattasse e mi telefonò: “Devi querelare due cretini di una radio di Milano, stanno dicendo che...” Non gli lasciai terminare la frase: “Dovrei querelare tutta l’Italia, tesò, qualunque canale accendo parlano di me”. Era successo, infatti, che il chiacchiericcio molisano, confezionato ad arte da qualche bontempone (per non dire coglione), era diventato un articolo di stampa ed era stato spedito nientedimeno che a Dagospia. Il quale Dagospia, a sua volta, lo aveva condito di particolari piccanti e lo aveva pubblicato in prima pagina. E da lì, ritenuto credibile e affidabile, era approdato sulle principali reti radiofoniche e televisive nazionali. Io non so se mio fratello quel giorno, durante la conferenza, abbia temuto che qualcuno, leggendo il suo nome e la sua qualifica sulla brochure, potesse alzare un dito dalla platea per domandargli se per caso fosse un parente del famoso puttanone del Molise, ma sono certa che se la sarebbe cavata in qualche modo, essendo una persona dotata di spirito e di buon senso. Proprio come me, che volevo invece comprare una pistola calibro 38 per spararmi nel mezzo della fronte lasciando un biglietto di commiato dal tenore apocalittico: “Questa terra ingrata ha ucciso la sua figlia scrittrice e vagherà nel rimorso per cent’anni”. A distogliermi dal progetto disgraziato fu l’immagine della bara con la mia faccia spappolata al suo interno, dunque restavano due possibilità: mettermi a piangere o mettermi a ridere. Scelsi la seconda, mi presentai in tutti i talk show televisivi italiani, e con il sorriso a 32 denti di paterna memoria spiegai l’equivoco così come avevo fatto a Telemolise. Ma sulle velleità letterarie ci ho messo una bella croce, nonostante di case editrici disposte a pubblicarmi il libro, in quel contesto di scandali mediatici e pubblicità involontaria, ve ne fossero a decine. Ma non volevano i racconti, volevano l’autobiografia. L’autobiografia di questo paio di palle :) .
Posted on: Sat, 02 Nov 2013 09:10:18 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015