VIA MAQUEDA, LA STRAGE DEL PANE di Salvatore Musumeci Accadde a - TopicsExpress



          

VIA MAQUEDA, LA STRAGE DEL PANE di Salvatore Musumeci Accadde a Palermo nell’autunno del 1944. Una spontanea manifestazione di popolo brutalmente repressa, con bombe a mano e moschetti, dai soldati dell’esercito italiano Tutto si svolse nel giro di trenta-quaranta lunghi secondi, esattamente davanti al Palazzo Comitini di via Maqueda a Palermo, in quel piovigginoso e freddo giovedì del 19 ottobre del 1944… Fu la prima grande tragedia dell’Italia liberata, dove persero la vita ventiquattro innocenti, per lo più ragazzi, e restarono feriti centocinquantotto manifestanti. Fare luce su un’ingiustificata ed incomprensibile carneficina che, ancora oggi, rappresenta un capitolo assai oscuro della complessa e lunga storia del popolo siciliano, e soprattutto raccontarla, oltre a costituire un impegno civile (come sottolineato dal giornalista e storico Lino Buscemi, nel suo autorevole saggio La strage di via Maqueda. Palermo, 19 ottobre 1944, a cui abbiamo fatto riferimento), serve ad aiutare a comprendere meglio ciò che avvenne in Sicilia dopo lo sbarco anglo-americano e fino agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso. L’eccidio, per ferocia e crudeltà, ha pochissimi precedenti nei circa centocinquant’anni di vita unitaria italiana. A differenza di tanti altri gravi fatti di sangue si è voluto, quasi immediatamente, far dimenticare tutto e nel più breve tempo possibile, avallando un’operazione di rimozione dalla memoria storica, posta in essere con tiepide e mistificate indagini effettuate da funzionari accomodanti e conclusasi con un processo pilotato nel quale tutti gli esecutori materiali restarono impuniti ed i mandanti non furono minimamente individuati. Nell’Isola, l’anno 1944, sotto diversi profili, non cominciò proprio bene. Tanti e gravi erano i problemi e le lacerazioni che caratterizzavano la situazione sociale ed economica siciliana. Dal mese di febbraio i territori italiani liberati, compresa la Sicilia, erano “governati” da un esecutivo, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio (nominato dal re Vittorio Emanuele III) che aveva sede a Salerno. Ma chi effettivamente amministrava erano le truppe alleate mediante propri ufficiali impegnati a garantire sia le attività militari che civili. Quando, a seguito delle dimissioni di Badoglio, fu nominato presidente del Consiglio dei ministri l’on. Ivanoe Bonomi, nel nuovo governo (pura dimenticanza?), non c’era un solo ministro siciliano. Una esclusione incomprensibile, che provocò reazioni politiche assai negative, sostenute per lo più dai separatisti che poterono così guadagnare argomenti a favore della loro causa. Di contro, le azioni dei partiti e, prevalentemente, dei Comitati Provinciali di Liberazione (al di là della bontà dei loro programmi politici che venivano pubblicizzati), quasi a rimarcare il vecchio vizio tutto italiano di occupare più potere possibile, furono indirizzate, almeno dall’estate del 1944 in poi, a “rimuovere” dalle amministrazioni locali i sindaci insediati dagli anglo-americani che, fatta qualche doverosa eccezione, erano in prevalenza separatisti, esponenti mafiosi, massoni chiacchierati. In questa attività, di pseudo “democratizzazione” del potere, i Comitati di Liberazione venivano coadiuvati dall’Alto Commissario Salvatore Aldisio con il benevolo assenso degli alti gradi delle truppe alleate essendosi, ormai, mitigata qualsiasi simpatia nei confronti dei separatisti. In più Aldisio, a differenza del suo predecessore Francesco Musotto, amico degli indipendentisti, non tollerando affatto che i seguaci di Andrea Finocchiaro Aprile amministrassero municipi e prefetture, chiese anche l’allontanamento dalla Sicilia degli ufficiali anglo-americani che, in qualche modo, avevano incoraggiato o aiutato il movimento separatista. L’estromissione dei maggiori esponenti separatisti dal governo locale (il 6 settembre 1944, Lucio Tasca Bordonaro, personalità di primo piano del separatismo, fu costretto a dimettersi da Sindaco di Palermo) e, principalmente, la crescente freddezza nei loro confronti da parte dei militari anglo-americani e del governo Bonomi, furono valutate quali gravi segnali d’allarme cui dare, tempestivamente, adeguata risposta anche a mezzo di atti clamorosi, disordini e manifestazioni di protesta in tutta l’Isola, ormai giunta veramente al collasso. A Palermo, in quel freddo autunno, l’indigenza alimentare delle fasce più povere del popolo, ma anche della piccola e media borghesia, era diventata intollerabile anche in ragione della presenza di un fiorente mercato nero del tutto fuori controllo. Alcune categorie impiegatizie (dipendenti comunali, netturbini, ferrovieri, addetti agli uffici razionamenti e consumi) da giorni “rumoreggiavano”, chiedevano di ottenere la concessione di un’indennità di carovita analoga a quella accordata ai dipendenti dello Stato, per cercare di far fronte al continuo aumento dei prezzi di tutti i generi di prima necessità. Uno sciopero indetto per il giorno 18 ottobre 1944 era stato sospeso nell’attesa dei risultati di un incontro con il commissario prefettizio, barone Enrico Merlo, ma la risposta di questi era stata negativa: il Comune non aveva soldi. Così, i manifestanti si erano dati appuntamento per l’indomani per intensificare la protesta. La mattina seguente (giovedì 19 ottobre), ai dimostranti si erano presto uniti i militanti della Lega Giovanile Separatista e molti cittadini, affluiti dai quartieri più poveri del centro storico, in maggioranza donne, ragazzi, bambini, trasformando quella che doveva essere una manifestazione di categoria in una rimostranza di popolo. Verso mezzogiorno un corteo si mosse da piazza Pretoria per dirigersi verso la sede della prefettura, con l’intento di far ricevere una sua rappresentanza dal prefetto Paolo D’Antoni e dall’Alto Commissario per la Sicilia Aldisio. Gli scioperanti, a gran voce, reclamavano salari adeguati ma soprattutto «pane, pasta e lavoro ». I più minacciosi brandivano randelli e pezzi di legno. Nulla di più. La folla si ritrovò ammassata davanti la prefettura, presidiata da una trentina di uomini tra carabinieri e agenti di pubblica sicurezza. Quando i manifestanti appresero che il prefetto D’Antoni e l’Alto Commissario Aldisio erano fuori Palermo, gli animi si esagitarono. Alcuni facinorosi presero a battere con pietre e legni le saracinesche dei negozi chiusi, provocando forti boati. Invano gli scioperanti chiesero di essere ricevuti da colui che in quel frangente costituiva la più alta carica governativa in città, ossia il vice prefetto Giuseppe Pampillonia. Questi, in preda a paure e preoccupazioni, prese una “grave decisione”, sproporzionata ed affrettata (su cui nessuno lo avrebbe chiamato successivamente a rispondere). Invece di tentare di sedare gli animi ritenne opportuno, con la fretta dei deboli o per qualche “impulso” ricevuto telefonicamente, di chiamare il comando militare della Sicilia e sollecitare l’invio di un congruo contingente di soldati. La richiesta fu prontamente accolta dai comandi militari della Sabaudia, a quanto pare allertati fin dalle prime ore del mattino, e dalla caserma “Ciro Scianna” situata in corso Calatafìmi, 53 soldati del 139° fanteria (quasi tutti sardi) furono messi in moto verso via Maqueda, ciascuno armato con fucile modello ‘91 comprensivo di 2 pacchetti di cartucce e 2 bombe a mano, tutti sistemati su due camion al comando di un giovanissimo sottotenente, Calogero Lo Sardo, originario di Canicattì in provincia di Agrigento. Prima, però, il piccolo convoglio fece una deviazione e si diresse alla questura, in piazza Vittoria, dove il tenente Lo Sardo (come egli stesso successivamente avrebbe dichiarato al processo) venne ricevuto dal capo di gabinetto del questore. Cosa si siano detti esattamente non si è mai saputo. Sembrerebbe che durante il colloquio il Lo Sardo avesse ricevuto l’ordine tassativo di “liberare”, a tutti i costi, via Maqueda, disperdendo la folla che intanto, secondo dati ufficiali, si era fatta abbastanza consistente (oltre 4000 persone). Mentre i soldati stavano per raggiungere i Quattro Canti furono lanciati alcuni sassi e qualche latta. Ma ci furono anche applausi. Evidentemente, quest’ultimi, non tali da rassicurare i militari circa la natura pacifica della manifestazione. Piuttosto si notò qualche preoccupazione di troppo. È sicuro che non c’erano armi in mano alla folla, divenuta, intanto, più consistente poiché dai catoi e vicoli vicini continuavano a giungere disperati e disoccupati. Questa non trascurabile circostanza tuttavia non impedì ai militari, una volta arrivati quasi davanti al portone di Palazzo Comitini, di aprire il fuoco ad altezza d’uomo contro quei poveracci disarmati. Ubbidendo a un ordine preciso e spietato, forse premeditato. In ogni caso i militari con zelo diedero esecuzione alla circolare Roatta del 1943, poi fatta propria dal generale Taddeo Orlando e diramata ai comandi militari, che obbligava le truppe ad «agire contro il popolo senza esitazione… e di reprimere con le armi qualunque perturbamento dell’ordine pubblico… senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche». Il sangue scivolò a fiotti lungo la via Maqueda e nelle traverse vicine. Dolorosissimo il bilancio: fra i civili 26 morti e 158 feriti, di cui una ventina in modo grave. Tra i militari soltanto 9 riportarono ferite lievi. Nel pomeriggio, i pompieri con forti getti d’acqua, ripulirono il manto stradale insanguinato. La sera stessa del 19 ottobre fu proclamato il lutto cittadino e si sospesero tutte le manifestazioni e gli spettacoli programmati. Intanto, a Taormina in un vecchio albergo semibombardato, era in corso il I Congresso del Mis per ribadire il valore politico della lotta indipendentista contro lo Stato unitario.
Posted on: Sun, 20 Oct 2013 07:09:00 +0000

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