Véronique Tadjo: scrivere per avvicinare le frontiere “Non ho - TopicsExpress



          

Véronique Tadjo: scrivere per avvicinare le frontiere “Non ho paura di sapere. Che il mio spirito mai e poi mai perda di vista quello che deve crescere dentro di noi: la speranza e il rispetto della vita.” La scrittrice ivoriana Véronique Tadjo è un esempio delle frontiere incerte delle identità culturali di oggi, e porta in sé molte, moltissime migrazioni interne. Anzitutto per la sua vita personale: nasce a Parigi nel 1955 da madre francese e padre ivoriano, cresce ad Abidjan, in Costa d’Avorio, studia letteratura alla Sorbona, torna a vivere in Africa, in Kenya e, dopo anni negli Stati Uniti, Sud America e Londra, oggi risiede e lavora in Sud Africa. E poi per aver attraversato la letteratura - nei diversi paesi africani - alla ricerca di quellidentità comune, al di là delle diverse appartenenze nazionali. La sua scrittura si pone al confine tra prosa e poesia, tra uno stile tipico del racconto orale (il mito è forza creatrice e segna la successione culturale degli eventi) e la ricerca sociologica, che tenta di spiegare i motivi e le azioni inspiegabili degli uomini. È una scrittura piena di immagini e di colori, e non è un caso che Tadjo sia anche pittrice affermata e che le illustrazione, nei suoi libri per bambini, siano opera sua. Si può constatarlo in Tamburi parlanti, pubblicato in italiano da Giannino Stoppani nel 2005. LOmbra di Imana, scritto nel 2000 e tradotto da Ilisso Edizioni nel 2005, meglio di altri suoi libri spiega la sua letteratura migrante. Nel 1998 è invitata, insieme ad altri scrittori africani, a visitare il paese del genocidio, il Ruanda. È in seguito chiamata a scrivere, lei ivoriana, di quel periodo che ha sconvolto il mondo. È un progetto artistico di Fest’Africa, Ecrire pour devoir de mémoire, per fare del genocidio un’occasione importante di riflessione in campo letterario sul ruolo della letteratura nei confronti della società. Ripensare la tragedia del Ruanda Come lei stessa racconta non ha alcun dubbio se accettare o meno, ma lo fa chiedendo grande libertà. Le sue condizioni erano di poter essere lei a scegliere lo stile e la propria traccia. Ha un motivo per ripensare e scrivere di quella tragedia, un motivo suo personale: “Un giorno o l’altro bisognerà fermarsi sul serio per guardarsi in faccia, partire alla ricerca delle proprie paure nascoste sotto un’apparente tranquillità. Che i miei occhi vedano, le mie orecchie siano in ascolto, la mia bocca parli. Non ho paura di sapere. Ma soprattutto che il mio spirito mai e poi mai perda di vista quello che deve crescere dentro di noi: la speranza e il rispetto della vita”. I suoi lettori ivoriani da principio non capiranno questo suo interesse per un altro paese africano, ma sarà lei a spiegare che quello che è accaduto lontano potrà un giorno succedere anche a noi. La sua è una vera missione alla ricerca di ciò che è umano: nello sguardo, nel vicino fino a ieri uguale a me, c’e sempre una persona umana. Véronique Tadjo aveva iniziato a scrivere avendo ben in mente i poeti e scrittori africani della Négritude e la loro passione politica. Un movimento nato a Parigi negli anni ’30 e creato da poeti e scrittori africani francofoni, che continuavano in Francia i loro studi. Tra di loro Léopold Senghor, Aimé Césaire e Franz Fanon, Birago Diop del Senegal, Bernard Dadié della Costa d’Avorio e Jacques Rabemanjara del Madagascar. 81-tadjo b Un movimento nato per affermare la propria identità africana e per protestare contro l’oppressione coloniale. Negli anni ’40 e ’50 il movimento della Négritude diventa l’arma letteraria dietro la lotta per l’indipendenza. Il suo messaggio viene diffuso dalla rivista Présence Africaine e trova, tra gli intellettuali francesi André Breton e Jean-Paul Sartre, l’appoggio di una parte del mondo occidentale. La prefazione dell’antologia di Senghor, sulla poesia nera, sarà infatti di Sartre. La scrittura di Véronique Tadjo, da sempre considerata un po’ troppo “seria e impegnata”, è da lei definita “senso di responsabilità”. È fondamentale la traccia che ha lasciato in lei la letteratura orale, i racconti ascoltati da bambina (poesie, canzoni, miti e leggende, proverbi e saggezza popolare), in quel suo mondo ivoriano nel quale il valore della tradizione è ancora molto forte. La sua prima raccolta Latérite (1984) è di poesie, poi arriverà alla prosa, al testo. Non al racconto, ma al testo, al testo scritto. Dopo ogni nuovo lavoro, cresce in lei la consapevolezza della responsabilità sociale che ha come scrittrice, non importa dove si trovi a vivere, Costa d’Avorio, Nigeria, Kenya o Sud Africa. Molti anni prima, Mariama Ba, scrittrice del Senegal, aveva sottolineato il ruolo sociale dello scrittore africano. Base comune è il riconoscersi nel movimento panafricano. Ma oggi, dopo i movimenti di indipendenza nazionale, l’Africa quante Afriche è? Il tempo della leggenda La Casa Editrice Le Nuove Muse, nel 2007 traduce l’opera di Véronique Tadjo Regina Pokou. È la leggenda della Regina Abraha, nipote del Re ashanti, che sacrifica il figlio gettandolo nel fiume Comoè per salvare e fondare il suo popolo, i baulè, leggenda ben conosciuta da tutti i ragazzi della Costa d’Avorio. Véronique Tadjo aveva iniziato a scrivere questo racconto proprio in Ruanda. Chi è davvero la regina Poku per continuare a vivere generazione dopo generazione? Quale storia sta dietro il mito? “La leggenda di Abraha Poku mi è stata raccontata per la prima volta quando avevo circa dieci anni. Mi ricordo che la storia di questa donna che sacrifica il figlio per salvare il suo popolo aveva colpito la mia immaginazione di ragazzina di Abidjan. Mi figuravo Poku come una Madonna nera. In seguito, al liceo, la violenza e la guerra fecero irruzione nella nostra vita, rendendo bruscamente il futuro incerto. Poku mi apparve allora sotto un aspetto ben più funesto, quello di una regina assetata di potere”. Come perdonare senza dimenticare? Véronique Tadjo è una scrittrice dallo stile personalissimo e intenso. A volte apocalittico. Come nelle sua novella The betrayal, pubblicata nell’Antologia Opening Spaces, curata dalla scrittrice zimbabwana Yvonne Vera. Qui la vera fine dell’umanità è nella perdita della speranza. È una scrittrice che ha sicuramente una dimensione mobile, come ha affermato lei stessa: “Spostarmi da un luogo all’altro mi permette di mettere le cose in relazione”. Afriche, n°1, 2009 di Maria Ludovica Piombino
Posted on: Tue, 05 Nov 2013 09:09:10 +0000

Trending Topics



iv>

Recently Viewed Topics




© 2015