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domenicotedeschi.wordpress Un ingegnere ai confini del mondo Ghana, Giugno 2008 La mia missione in Ghana era giunta quasi a termine. Mi trovavo per conto di un cliente nella zona di Sunyani, nella regione dei grandi laghi, dove la giungla si fa davvero fitta. Stavo finendo di preparare tutta la documentazione necessaria da sottoporre alla firma a beneficio del cliente. Come al solito, ero trafelato nel sistemare i bagagli per il viaggio di rientro. Data la delicatezza delle attrezzature che trasporto con me, le attenzioni per queste operazioni non bastano mai: oltre al disagio creato dal peso e dall’ingombro notevole, bisogna sempre preoccuparsi che il materiale viaggi in sicurezza, protetto dagli urti e dalle intemperie e, visto che il mondo non è un laboratorio di precisione, ho sempre il mio bel da fare per restare tranquillo a che tutto arrivi indenne a destinazione. Fino a quel momento era stata una trasferta come tante. Avevo avuto appena l’occasione di curiosare in un tranquillo mercatino, ma il resto del tempo si era consumato interamente nella esecuzione del lavoro. Anche se tutta l’operazione non si poteva considerare un pieno successo, ero comunque soddisfatto, perché in questi paesi bisogna arrivare con la consapevolezza che, a differenza di quelli progrediti, ci si può trovare di fronte ad imprevisti di ogni genere. A volte è necessario ridiscutere intere sezioni dell’ingegneria, perché la realtà spesso si rivela differente da come era stata ipotizzata o magari prospettata con un certo ottimismo in ufficio. La trasmissione corretta delle informazioni a queste latitudini non è cosa semplice, anche perché il livello professionale degli ingegneri locali è molto modesto, spesso essi non sono in grado di comprendere pienamente il processo, si limitano a gestirlo sulla base di una routine appresa e riprodotta meccanicamente. Il Ghana è un paese particolare, piccolo ma con una natura rigogliosa e dalle foreste sconfinate. La gente è accogliente e sempre sorridente, tutti sono pronti ad aiutare, se necessario. Fatte le dovute attenzioni, indispensabili per un qualunque occidentale che viaggi in un paese povero, qui non ci sono rischi particolari, la vita scorre tranquilla e uguale come solo in Africa ci si può permettere. I villaggi in questa zona sono costituiti da capanne con le pareti fatte di terra e sterco secco e con il tetto in genere di lamiere poggiate sopra. Il principale prodotto esportato è il cacao, che qui subisce la prima fase di lavorazione venendo essiccato al sole. In questa terra per tanti aspetti ancora semiselvaggia e meravigliosa, la fanno da padrone le multinazionali, in particolare quelle australiane, fortemente impegnate in attività estrattive di oro e diamanti. Purtroppo, per consentire la realizzazione delle miniere, è necessario abbattere molti alberi, alberi bellissimi, enormi come non ne ho mai visti, e di legno pregiatissimo. Sono molto frequenti i trasporti di questi tronchi ad opera di Tir sgangherati, che spessissimo si ribaltano a causa delle “strade” accidentate. I tronchi che non viaggiano su gomma vengono movimentati su corsi d’acqua; possono raggiungere la lunghezza di 20 metri e spesso vengono scavati a mano a mo’ di canoa per metterli uno dentro l’altro. Ciò che avevo già osservato fino a quel momento, però, non era che una minima parte di quanto avviene ogni giorno qui. Il mio tempo era trascorso in compagnia di un trevigiano di nome Marco, che lavorava per conto del nostro cliente. Marco aveva 70 anni, una vita spesa in Africa nera, dove, per la fobia della malaria (come se un capitano di nave avesse paura di annegare) aveva fatto smodato uso di chinino, che lo aveva reso praticamente sordo totale. Oltre a questo, il diabete, di cui soffriva ad uno stadio piuttosto avanzato, lo debilitava ulteriormente, specie dopo le lunghe giornate di lavoro a quelle temperature, e gli aveva gonfiato un piede come una zampogna, al punto che non era più in grado di infilare le scarpe da lavoro ed era costretto ad usare sandali aperti. Come se non bastasse, urlava sempre, aveva un carattere molto suscettibile e odiava i neri. Insomma, la persona giusta nel posto giusto, arrivato anche lui ormai alla fine della sua permanenza di sei mesi, cosa che lo rendeva, se possibile, ancora più irascibile di quanto non fosse per sua natura. Appena due sere prima ero rientrato dalla solita passeggiata per l’acquisto delle sigarette, e lo trovai in stato di shock profondo sul divano. Non rispondeva agli stimoli, era ansimante, sudato e strabuzzava gli occhi. Era chiaramente in preda ad un attacco di iperglicemia. Chi si trova in questo stato mostra sintomi simili a quelli di un ubriaco: incapacità di reggersi in piedi, di articolare le parole e di rispondere agli stimoli esterni. Corsi in camera sua a rovistare nel cassetto per trovare e preparare una fiala di insulina. Appena somministrata, iniziò a sentirsi meglio, e come ringraziamento mi mandò a fare in culo. Ero sinceramente sollevato al pensiero di andarmene e non di dover più sopportare un tipo del genere. Mentre parlavo con un operatore della stazione elettrica che mi apprestavo ad abbandonare per dettargli le ultime istruzioni, che lui appuntava sull’immancabile agenda, ero anche intento a serrare le cinghie che assicuravano i bagagli al cassone del pickup, accertandomi che fosse legato saldamente, e ben teso, ogni lembo del telo impermeabile a copertura dei miei attrezzi. In quel momento squillò il telefono e, senza guardare chi fosse, risposi alla chiamata usando l’auricolare, per non interrompere le mie operazioni: - Pronto? - Ciao, come stai? Era Eros. In meno di un nanosecondo duemila pensieri mi corsero per la testa già prima che lui potesse proseguire nella conversazione. Eros era all’epoca il responsabile della sala collaudo e del commissioning del nostro cliente principale. Il rapporto fra noi due è sempre stato basato su due piani diversi: quello personale, fatto anche di momenti di svago e condivisione, e quello professionale, che è tutt’altra cosa. La nostra amicizia è cresciuta e si è rafforzata negli anni attraverso le esperienze lavorative che abbiamo condiviso. Abbiamo un carattere simile, a detta di molti amici e conoscenti comuni, e spesso altri colleghi ci hanno attribuito nomignoli vari per sottolineare questa affinità. Se lui era Batman io ero Robin, se io ero Mc Gyver lui era Pit Torton, se uno il Gatto io la Volpe. Negli anni non mi ha mai fatto sconti sul lavoro; se sbagliavo qualcosa venivo redarguito anche più degli altri, e spesso questi altri erano impiegati della sua stessa azienda, mentre io ero un esterno. Di questa e di altre severità sperimentate, e non solo da parte sua, sono sempre stato grato, perché mi hanno offerto la possibilità di crescere come professionista e come persona. Ancora oggi, quando ricevo una sua chiamata, sono sempre sul chi-va-là. Ma quella volta, chissà perché, l’ansia era ancora più acuta. Il mio sesto senso mi diceva che quello che stavo per sentire non mi avrebbe lasciato tranquillo. - Giacché sei da quelle parti… avrei bisogno che tu andassi a fare un survey. Tirai un sospiro di sollievo pensando che un survey non era la peggiore delle disgrazie. Ma quella sensazione non mi abbandonava. “Fare un Survey” nel nostro gergo significa verificare lo stato dell’arte di un certo impianto o apparecchiatura o sistema, per riportare, attraverso una relazione e del materiale fotografico, una istantanea della situazione e in base ad essa decidere gli interventi necessari: correggere, aggiustare o rimettere in marcia qualcosa che ha o può aver subito dei danni. - Il nostro cliente è un americano, titolare di un’impresa che ha vinto l’appalto per il commissioning di un Barge che si trova in Ghana. - Scusa, come il commissioning? Se io vado a fare il Survey si è rotto qualcosa, quindi è già lì da un po’… - Sì, è lì da un po’, otto anni per la precisione, ma non è mai andato in servizio. Ora il governo del Ghana lo vuole attivare, perciò io ho bisogno che tu vada a guardare la situazione e che mi faccia la conta dei morti. Il lavoro mi sembrava una passeggiata, e non mi avrebbe impegnato per molto a lungo. Certo, non potevo immaginare quello che sarebbe accaduto di lì a poco, quindi anche se la mia vocina interna mi diceva di stare in guardia, accettai l’ingaggio e dissi ad Eros che si sarebbe dovuto occupare lui del passaggio di consegna e di clientela con il mio capo. Parlai con l’autista e gli trasmisi le informazioni necessarie per la nuova destinazione: Tacaradi. Per un po’ sembrò non comprendere, ma poi si dimostrò certo di aver ben capito. Intanto pensavo al Barge. Otto anni chiuso in un bacino di acqua salata a contatto ravvicinato con l’oceano, senza manutenzione e senza personale: solo se le porte stagne avessero tenuto, vi era la possibilità che non fosse andato tutto distrutto. Un Barge è una piattaforma galleggiante su cui viene eretto un impianto industriale. Questo Barge in particolare era stato costruito a Livorno, ospitava a bordo due generatori a turbo-gas di medie dimensioni e una stazione elettrica blindata in SF6, che è un gas inerte usato come atmosfera artificiale per le sue proprietà estinguenti d’arco, cioè un gas in grado di accelerare l’estinzione degli archi elettrici prodotti dall’apertura degli interruttori. Poi il nostro Barge era stato traghettato fin laggiù dove era stato chiuso all’interno di un bacino, giusto a ridosso di una sconfinata e selvaggia riviera sabbiosa oceanica, senza che si fosse mai provveduto a portare lì né il gas per la combustione né una linea elettrica per l’esportazione dell’energia. Insomma, una piccola cattedrale nel deserto, pagata fior di milioni, e mai messa in uso. Primo giorno. Il viaggio inizia e io mi godo un riposino mentre osservo il panorama dai finestrini del pickup,i bordi delle strade sono affollate di donne che portano il proprio piccolo legato con una stoffa alle proprie spalle e sulla testa mantengono in equilibrio una cesta, altre vendono agli automobilisti di passaggio qualche genere alimentare oppure delle buste sigillate con una scorta d’acqua potabile; oltre il ciglio della strada è un affollarsi di baracche di lamiera con piccoli esercizi commerciali dal meccanico al barbiere, ragazzini sventolano ventagli di grattini per le ricariche telefoniche. Nel primo tratto di strada, che dura diverse ore, attraversiamo un paesaggio che mi è famigliare poiché stiamo ripercorrendo a ritroso la stessa strada fatta all’andata. È una buona strada considerando il paese, è asfaltata e ricca di servizi. Dopo circa due ore e mezzo di cammino, ci fermiamo per fare rifornimento di carburante e cibo. Lì decido di volermi sedere per mangiare qualcosa sul posto. Colgo uno sguardo strano negli occhi dell’autista, e io torno a preoccuparmi che non conosca bene la strada o che abbia capito male la destinazione. Per scandagliare la fondatezza del mio sospetto, allora, lo stuzzico un po’ sull’argomento, ma mi risponde di stare tranquillo, ché sa lui dove mi deve portare e come arrivarci. Poi aggiunge che ci sono due strade: la prima è più lunga, ma più comoda; mentre la seconda è più corta e più diretta. Gli dico che una vale l’altra e che può scegliere lui, visto che è del posto e conosce sicuramente meglio di me il percorso migliore. - Allora faremo quella corta – esclama con sicumera. - E vada per la corta, allora – gli confermo io. Dopo una ventina di chilometri, mentre mi sto appisolando, lui abbandona la strada principale in modo brusco e punta con il pickup dritto verso la foresta. Rinvengo per i sobbalzi e, ancora un po’ preoccupato, gli chiedo se è sicuro di quello che sta facendo. -Tranquillo! – risponde lui – La vedi questa linea elettrica sopra la nostra testa? Nasce esattamente da quel posto dove andiamo, basta seguirla e arriveremo in men che non si dica. - Ma quanto dista da qui? - Forse 500 o forse 600 Km. Il mezzo arranca faticosamente in salita, lungo un sentiero fangoso che penetra nel cuore della foresta. Sopra le nostre teste c’è infatti una linea elettrica in costruzione, e di tanto in tanto dobbiamo aggirare i larghi tralicci ben saldi sui piedistalli di cemento armato. In alcuni casi lo spazio a disposizione è limitatissimo e passiamo a stento di fianco, tra il pilone gli alberi. La marcia è molto lenta, e spesso il fuoristrada tende a mettersi di traverso perché scivola sul fango. Ormai tutto intorno a noi é vegetazione primordiale che non lascia più di un metro di visibilità, tanto sono fitti gli alberi. Il percorso è molto accidentato, a volte si finisce con la ruota in una pozzanghera profonda e ci vuole qualche minuto per venirne fuori. Altre volte l’anteriore affonda di colpo in un avvallamento per poi schizzare nuovamente verso l’alto, e gli spruzzi di fango investono completamente il pickup. Fortuna che i bagagli sono sotto il telo. Nel giro di due ore inizia ad imbrunire e Mathaba, questo il nome dell’autista, mi dice che dobbiamo fermarci, perché non si può proseguire con il buio. Detto fatto: appena trova un minuscolo slargo, ferma il mezzo e inizia a tirare fuori qualcosa dalla sua sacca. Rimango per cinque minuti interdetto, e molti pensieri urtano fra loro nel mio cervello. Chiedo a Mathaba quanta strada abbiamo percorso e quanta ne resta, ma le domande cadono nel vuoto. Io non sono agitato tanto per il fatto di dover passare una notte lì, o perché il cellulare non capta segnali, o ancora perché non ho idea di dove siamo e di quanto tempo sarà necessario per arrivare: sono in ansia per il fatto che quella situazione nella quale mi trovo catapultato non fa per niente parte dei miei programmi. Avevo valutato che per percorrere 600 Km non fosse necessario più di un giorno o un giorno e mezzo; invece, basandomi sulla esperienza della strada già fatta, capisco che ci vorrà di più. Molto di più. Mi preoccupo, perché non abbiamo sufficienti provviste né carburante per una traversata così lunga, ma sono anche esasperato perché la strada “normale” avrebbe forse offerto ripari migliori e meno insidiosi imprevisti. Quello che non avevo considerato è la totale mancanza di attenzione al tempo e alle distanze che questa gente ha nella percezione delle loro priorità. Ad un ghanese non importa tanto quando si arrivi, ma che si arrivi. Mathaba tira fuori un fucile dalla sua sacca. Un po’ allarmato gli chiedo a cosa serve e lui mi risponde che va a procurare la cena. Scende dall’auto e penetra nella giungla; io lo seguo, o almeno cerco di farlo. Lui è piccolo di statura, con una struttura muscolare forte e coriacea, si muove nel fitto di quella vegetazione senza alcun problema, non resta né graffiato né contuso, non spezza un solo ramoscello sul suo cammino. Io invece sono totalmente impacciato, non so dove mettere i piedi, non vedo nulla e fino all’altezza dell’inguine i rami del sottobosco mi avvolgono in una stretta. Ogni passo mi costa molta fatica ed è solo grazie al machete che riesco faticosamente a guadagnare metro dopo metro. Mathaba è totalmente incurante dei miei sforzi. Secondo me, neanche li considera. Ogni tanto resto completamente incastrato e ho chiaramente bisogno di aiuto, lui invece rimane li fisso a guardarmi con l’aria di chi si chiede perché mai mi sia fermato. Sulla mia testa la volta delle fronde alte degli alberi si chiude a tetto, impedendo che filtri un solo un raggio di sole. Queste foreste sono vive nella parte alta, dove c’è luce, mentre in basso restano solo rami rotti, arbusti e tutte quello che la foresta lascia cadere e putrefare al suolo; la competizione della vegetazione nel tendere verso l’alto è spietata e molti alberi sono stretti dalla morsa di piante parassitarie. Il fondo invece è un letto putrescente di grovigli, radici, foglie, rami secchi ed è regno incontrastato di serpenti e scorpioni. Dopo circa trecento metri, Mathaba improvvisamente si arresta e mi fa cenno di restare immobile. Prende la mira e spara due colpi. - Preso! – mi dice. Ma preso che? – penso io. Invece egli raggiunge la sua preda e la riporta indietro tenendola per la coda. È un animale stranissimo, mai visto prima. Si tratta di un mammifero, probabilmente della famiglia dei grandi roditori, ha zampe corte il muso allungato e il corpo ricoperto di scaglie dure larghe circa tre centimetri, di forma pentagonale. Assomiglia ad un armadillo, la sua corazza non è un pezzo tutto unito, ma costituita da questo ordinato insieme di scaglie. Quando mi si avvicina con la bestia ancora moribonda, lo guardo per chiedergli se è davvero commestibile. Mi sorride mostrando tutta la poca dentatura rimastagli, e mi dice che è delizioso. Ho già un’idea di cosa intendano qui per delizioso, quindi mi rassegno e accetto quello che la natura e la fortuna ci hanno messo a disposizione. Torniamo all’auto, intorno a cui riesco a rimediare della legna secca da ardere, mentre lui è intento a scuoiare la preda col machete. Accendere un fuoco in un posto così umido è una cosa più facile a dirsi che a farsi, sono necessari più di 20 minuti perché ci riesca. Mentre lui continua a mettere a nudo la parte che presumo sia quella commestibile, vedo affiorare la carne bianca e mi sforzo di credere che forse quella bestia potrebbe non essere proprio repellente. La arrostiamo sul fuoco così com’è, tutta intera, e la consumiamo seduti su di un tronco lì vicino. Il sapore assomiglia a quello del tacchino, ma con una marcata nota di selvatico. Devo constatare che in fondo è molto migliore di quanto mi aspettassi. Dopo aver mangiato, Mathaba si allontana di pochi metri e inserisce una cannuccia metallica in una pianta che ha tutto l’aspetto di una pianta grassa: ne viene fuori un liquido biancastro che egli raccoglie in una tazza di terracotta che poi mi porge, invitandomi a berlo. È dolciastro, ma non stucchevole, e si sposa bene con l’armadillo ghanese. Ormai è buio, quindi non ci resta che prepararci per la notte, perciò allestiamo un giaciglio in macchina. Ovviamente sarà dura chiudere occhio. Secondo giorno Sono le sei del mattino quando apro gli occhi e la prima cosa che vedo è una magnifica, enorme farfalla nera con delle striature bianche, posata lieve sul rivestimento interno della portiera. Ho i muscoli anchilosati e la schiena mi duole per la posizione scomoda che ho finito per assumere nei miei contorcimenti notturni. Scendo dall’auto e mi stiracchio per cinque minuti facendo scricchiolare tutte le giunture. Tiro fuori la moca che porto sempre con me, e metto su un caffè, a pochi centimetri da dove sono seduto scorgo moribondo nel fango un esemplare enorme di scorpione, non oso immaginare quali agonie si possano patire se ne si venisse punti. Ripartiamo sgommando, giacché la strada è ancora lunga e a quanto pare piena di insidie, ma, percorsi appena un paio di chilometri, ci fermiamo perché il sentiero è interrotto da una pozzanghera enorme che lo occupa da parte a parte. Vedo Mathaba che inserisce le marce ridotte e gli chiedo se quello che sta per fare presenti dei rischi. Lui si dichiara non preoccupato, ma aggiunge che devo spostare in alto tutto quello che non si deve bagnare. Tentiamo lentamente il guado e nel primo tratto il pickup si tuffa subito con il muso in avanti: sembra quasi lì lì per affondare completamente. Inizia a cambiare l’inclinazione solo quando l’acqua ha ormai coperto più di metà del cofano anteriore. Avanziamo lentissimamente, sento le ruote slittare sul fondo, intanto vedo l’acqua fangosa invadere rapidamente l’abitacolo arrivando prima alle caviglie, quindi alle ginocchia. Si arresta solo quando ormai siamo immersi fino alla cinta. Intanto prego mamma Toyota che il mezzo non si spenga e rivolgo un pensiero preoccupatissimo ai bagagli nel cassone posteriore, anche quello ormai mezzo invaso d’acqua. Ci vorranno ben 15 minuti per guadare la pozzanghera di circa otto-dieci metri di diametro. Appena oltrepassata, mi precipito fuori completamente fradicio di fango dalla vita in giù, per controllare le apparecchiature. Fortunatamente nel trasporto vengono sempre protette in speciali contenitori a tenuta stagna. Per i miei indumenti, invece, non c’è salvezza, devo rassegnarmi a doverli rilavare tutti appena possibile. Guardo Mathaba e gli dico che quel tipo di sentiero non è scomodo come aveva detto lui, ma letteralmente impraticabile. Mi fa spallucce e mi risponde che ormai è fatta. Riprendiamo il cammino, che viene continuamente rallentato da ostacoli di vario genere. In questo tratto avanzare è molto difficile, perché la “strada” è peggiorata e stiamo proseguendo in salita, spesso una roccia fa sollevare tutto da un lato il mezzo, che ricadendo sbatte con la parte inferiore sul suolo. Stiamo salendo lungo il leggero pendio di collina e sembra di non raggiungere mai la sommità. I nostro punto di riferimento è un traliccio posto in cima. Finalmente gli siamo sotto e superiamo anche quello. Qui si apre una visuale più ampia e finalmente posso osservare un più largo tratto di foresta: la sua vastità, di cui non vedo la fine, è sconvolgente; tanto più al pensiero che dobbiamo attraversarla tutta, costretti al percorso rallentato del sentiero. Il quale però adesso è decisamente migliorato; anche Mathaba sembra più rilassato e ne approfitta per aumentare di un po’ la velocità. Riusciamo a percorrere diversi chilometri senza tanti intoppi, abbiamo una media di 40-50 km/h, quando, d’un tratto, subito dopo una curva stretta a destra, Mathaba deve frenare tanto bruscamente che il mezzo slitta di traverso e si arresta a pochi centimetri da un tronco coricato su tutta la carreggiata per quanto è larga. È un tronco enorme e si vede che è stato abbattuto da poco. Su di esso sono sedute in fila quattro persone. Sono tutti operai della ditta che sta realizzando la linea. Mathaba scende e li saluta. Li conosce, e parla con loro per dieci minuti in ashanti prima di ragguagliarmi. Mi spiega che loro sono lì ad aspettare che torni indietro il mezzo cingolato per rimuovere l’ostacolo: a quanto pare mentre tagliavano l’albero questo è caduto erroneamente sulla strada perché si è spezzato dal lato opposto a quello previsto per poterlo portar via. Gli chiedo quanto tempo ci vorrà e Mathaba mi risponde che non si sa, ma che non ci vorrà più di un giorno. – Un giorno?! – urlo – Ma come un giorno! E secondo te, cosa dovremmo fare nel frattempo? Lui mi guarda e mi risponde che quello è il tempo massimo e che intanto possiamo raggiungere a piedi un villaggio lì vicino dove trovare da riposare e mangiare. Sono fuori di me e mi maledico per avergli lasciato decidere di intraprendere quella via, ma non avendo alternative, non mi resta che rassegnarmi. Prendo lo zaino in spalla e seguo Mathaba, che mi fa strada. Riusciamo a raggiungere il villaggio per la via “corta” in venti minuti, attraversando un tratto di foresta su un sentiero strettissimo e intricato di rami. Mentre cammino seguendo Mathaba, avanzo sferrando di tanto in tanto colpi di machete, ecco che sento all’improvviso qualcosa piuttosto pesante cascarmi addosso giù da un ramo sullo zaino. Giro la testa inorridito, mi strappo in fretta il bagaglio giù dalle spalle e lo scaglio a terra con il suo ospite indesiderato: un pitone nero e beige, lungo circa tre metri che adesso attorciglia tra le sue spire il mio carico. Mathaba si precipita indietro verso di me con due salti poderosi e lo colpisce ripetutamente sulla testa con un bastone. Uno dei colpi, più preciso di altri, è fatale al rettile e Mathaba lo solleva da terra sorridente e orgoglioso. Io sono ancora in preda allo choc, mai lui continua a sorridere e dice che per stasera abbiamo la cena pronta. Non mi resta che riprendere il bagaglio e proseguire. Una volta giunti al villaggio, capisco la ragione della necessaria attesa per la rimozione del pesante tronco che ostruisce la strada: il catherpilar che si sta utilizzando ha un cingolo rotto e si attende l’arrivo di un camion che sarà necessario per poter tendere il cingolo e richiuderlo prima di rimettere in marcia il mezzo pesante. Mi viene spiegato che d’ora in avanti lungo il cammino incontreremo di continuo gli operai al lavoro sulla linea, e molti più mezzi. Questi operai appartengono alla stessa azienda per la quale stavo svolgendo il lavoro a Sunyani, e così finalmente capisco anche perché Mathaba li conosca e abbia voluto intraprendere proprio questo percorso. Il mio disappunto sfiora l’isteria, ma ormai non posso farci più nulla, ed anche se mi mettessi a sbraitare Mathaba non capirebbe. Posso solo accettare la situazione e sperare di esserne fuori il prima possibile. Del resto, il villaggio mi accoglie con tutti gli onori: mi conducono subito nel piazzale al centro delle capanne e lì mi accorgo che sono l’unico bianco. Mi fanno accomodare per terra su una piccola stuoia e mi portano una ciotola con una pappa bianca e alcuni pezzi di pane azzimo. Ci sono sette uomini seduti in cerchio con me. Mathaba è uno di loro e mi fa da interprete. Mi spiega che tutti gli uomini di quel villaggio partecipano a turno ai lavori sulla linea, e che sono contenti di poter lavorare perché con gli italiani si trovano bene. In quel momento, mentre mangio dalla mia ciotola, osservo le donne indaffarate nelle faccende più diverse e i bambini che giocano intorno inseguendosi l’un l’altro. Tutti sorridono. Fermo i pensieri su quest’attimo di tranquilla vita comunitaria. Mentre osservo queste persone, in cuor mio le compatisco, perché loro forse non sanno (o, se lo sanno, si sono già rassegnati) che la progressiva erosione della foresta è solo all’inizio, e che gli incredibili guadagni altrui divoreranno tutto, lasciando loro solo deserto. Le compatisco, perché fino ad oggi questa gente, per mangiare, ha dovuto solo allungare la mano e raccogliere il cibo, ma con il passare del tempo si sta rendendo schiava anch’essa del mercato e del consumo. Mi tornano in mente le parole del grande capo indiano Piede di Corvo: “Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, ci accorgeremo che non si potrà mangiare il denaro. La nostra terra vale più del denaro. E durerà per sempre. Non verrà distrutta neppure dalle fiamme del fuoco. Fin che il sole splenderà e l’acqua scorrerà, darà vita a uomini e animali. Non si può vendere la vita degli uomini e degli animali; è stato il Grande Spirito a porre qui la terra e non possiamo venderla perché non ci appartiene. Possiamo contare il nostro denaro e bruciarlo nel tempo in cui un bisonte piega la testa, ma soltanto il Grande Spirito sa contare i granelli di sabbia e i fili d’erba della nostra terra…” E ancora una volta sento dentro di me quel disagio doloroso che avverto come una fitta al cuore, ogni volta che alzo uno sguardo meno distratto e torno consapevole di essere, anch’io nel mio piccolo, corresponsabile di questa micidiale e inarrestabile macchina distruttiva che chiamiamo “progresso”. Dopo un paio d’ore arriva finalmente il camion, siamo circa una decina di persone indaffarate intorno al catherpilar per riuscire ad agganciare il pesante cingolo e in modo che sia teso, tirato dal camion, fino a quando, finalmente, non si trovi in asse per poter essere richiuso intorno alle grandi ruote dentate. Tutta questa operazione dura circa un’ora e mezzo e sono necessari diversi tentativi prima di essere sicuri che la nuova giuntura tenga perfettamente. Sta per imbrunire ed è ormai troppo tardi per pensare di muovere adesso il mezzo e iniziare le manovre di rimozione, quindi non resta altro da fare che riposare e attendere il giorno successivo. Intanto Mathaba è concentrato preparazione della preda che è provvidenzialmente piovuta dai rami su di me. Inizia aprendo il serpente lungo il ventre, partendo dalla gola e arrivando fino alla coda: mi sembra di vedere un cavo sguainato. Sfila via la pelle come un calzino e poi ricomincia a praticare una profonda incisione seguendo lo stesso solco di prima fino a giungere all’osso. Fatto questo recide di netto la testa con un colpo d’ascia, e sfila via tutta la colonna vertebrale. La carne è chiara ed è completamente priva di grasso. La taglia in tranci come se fosse un pesce spada e poi sistema i pezzi sulla brace appena preparata. Qui non usano alcun recipiente né alcun altro attrezzo per tenere sollevata la carne dai carboni: la poggiano direttamente sulla brace, perciò la carne si cuoce in pochi minuti. Nel frattempo, alcune donne stanno preparando dei pani, cuocendo tra due pietre ardenti la farina di manioca ottenuta in precedenza dalla pestatura e impastata in dischi. Sapevo di questa tecnica, ma non l’avevo mai osservata direttamente, prima. Mi appresto ad assaggiare, un po’ titubante ma sicuramente curioso, il mio primo serpente. È squisito, penso che lo dovrei proporre come pietanza la prossima volta che invito qualcuno a casa e già fantastico su come poterlo insaporire cucinandolo in qualche altro modo, servito con contorno di armadillo ghanese. Ovviamente è, e resterà, una fantasia, anche perché non saprei dove procacciarmi bestie siffatte, in Italia. Il mio giaciglio viene generosamente offerto all’interno di una capanna in paglia e rami intrecciati, posta sotto un albero enorme. È stata appositamente liberata dai legittimi occupanti per lasciarmela a completa disposizione: al centro c’è il braciere, realizzato con delle pietre messe in circolo, il letto è una stuoia stesa per terra. Sono certo che in giro ci siano parassiti d’ogni genere, ma in questo momento non ciò che mi preoccupa di più. Mi accingo invece ad un rituale cui ormai sono abituato, che consiste nel sistemare lontano da me, ma non troppo, un panno umido in un recipiente basso, dai bordi scivolosi all’interno, ma non all’esterno, e che contenga pochissima acqua. La seconda parte del rituale si completerà al mattino successivo, scuotendo vigorosamente le scarpe prima di infilarle. Perché mai? Per evitare che nella notte uno scorpione possa scegliere di farmi compagnia: gli scorpioni (che qui sono in genere belli grossi) vengono attratti dal calore e dall’umidità. Meglio evitare sorprese. Terzo giorno Il pesante tronco viene spostato sul fianco della strada come se fosse un fuscello. Così adesso il percorso è libero e finalmente possiamo procedere. Sono già le dieci del mattino ed è ancora tanta la strada che ci separa dalla nostra meta. La “strada” ora si allarga, il corridoio di alberi abbattuti per far posto ai piloni è più spazioso per consentire le manovre dei mezzi e apparentemente il percorso diventa più comodo, anche se qui la terra è più umida e il fango più frequente e insidioso. Quindi Mathaba procede con cautela per evitare di impantanare il mezzo. Sono molte le precauzioni da osservare quando si guida su un tragitto così accidentato: bisogna tener conto della compattezza del terreno, dei tronchi più o meno grandi che occupano la carreggiata e di tante altre cose, altrove trascurabili ma qui vitali, cui si diventa sensibili dopo averne acquisito esperienza. Di tanto in tanto lungo la strada battuta superiamo alcuni mezzi all’opera, e da ciò capisco che forse ci sono due tipi di operai: quelli che si occupano di tenere libera la carreggiata, e quelli che di fatto erigono i tralicci. Dopo due ore di marcia superiamo un tir per il trasporto dei tronchi, ma con il rimorchio ribaltato: per fortuna non ostruisce completamente il passaggio. Intorno a noi c’è ora un esercito di trattori, bulldozer, tir e persone, tutti indaffaratissimi. Ogni tanto saliamo e scendiamo lungo una collinetta, dal cui punto più alto è possibile allungare lo sguardo e vedere la lingua rossa del sentiero che si insinua come un enorme serpente inarrestabile nel verde più assoluto. Mathaba ad un tratto si ferma. Ha finito il carburante, perciò scende per prendere la tanica con cui rifornire il serbatoio. Secondo i miei calcoli, abbiamo ancora un autonomia di centocinquanta chilometri, che non è affatto sufficiente per raggiungere Tacaradi. Mathaba mi tranquillizza dicendo che in giornata passeremo da un villaggio che ha una pompa di benzina. In realtà qui non esistono pompe di benzina vere e proprie, spesso si tratta di una serie di bidoni da cui, per mezzo una pompa azionata a mano, si carica il carburante sui mezzi. Percorsi altri dieci chilometri circa, un nuovo inconveniente ci viene incontro: un camion di piccole dimensioni che trasporta tronchi di platano in direzione di marcia opposta alla nostra è finito con le ruote nel ciglio destro lungo un solco di fango: è completamente inclinato su un fianco. A guardarlo sembra un miracolo che non sia già ribaltato. Il fondo tocca terra ed è obliquo rispetto alla carreggiata che qui si è ristretta. Non c’è spazio sufficiente per passare, ma siamo preceduti da un altro camion più grosso e Mathaba mi dice che quest’ultimo cercherà di attraversare di lato spianando la vegetazione in modo che poi possiamo avere anche noi spazio sufficiente per proseguire. Scendo dalla macchina per osservare questa scena, che sento non finirà bene. In questo punto la strada è un pantano totale. Percorsi pochi metri, quando il secondo camion è perfettamente di fianco al primo, inizia a scivolare di lato fino ad incastrarsi nella stessa posizione sul lato opposto; adesso lo spazio tra i due mezzi è meno di è di due metri. Scoppio in una risata tra l’isterico e il liberatorio, perché ormai non posso fare altro che accettare questa avventura e abbandonarmici completamente, qualunque altra cosa accada. Mi rivolgo a Mathaba con sguardo interrogativo e lui mi dice che adesso per rimuovere il primo mezzo deve prima essere svuotato del suo carico, cinque chilometri prima abbiamo superato un bulldozer e quello può sicuramente tirarli fuori entrambi. Mentre approfitto della pausa per prendere la macchina fotografica e fare un piccolo giro lì intorno, mi rendo conto che, se non fossi preoccupato di arrivare a destinazione per il mio lavoro, considererei tutto questo tragitto un’avventura irripetibile. Man mano che il tempo avanza, la rabbia ha lasciato spazio alla rassegnazione che poi mi ha trasmesso una nuova tranquillità, e mi concede ora l’opportunità di osservare quello che ho intorno. In questo momento rifletto sul fatto che, pur non avendolo voluto, posso aggirarmi in una giungla pluviale ancora in uno stato di parziale conservazione. Un’occasione come questa non sarebbe stata possibile attraverso viaggi organizzati alcun tipo, in nessun classico percorso turistico. In fondo, è un’opportunità che probabilmente non si ripeterà più. quindi tanto vale approfittarne per lasciar spazio a un po’ di diversiva curiosità. La stessa gente qui incarna una cultura che sta scomparendo lentamente. A tutt’oggi l’ashanti sembra una lingua destinata ad estinguersi e questa magnifica foresta tra qualche anno potrebbe non esistere più per via dello sfruttamento del legname, iniziato dal passaggio della linea e ormai avviato ad un depauperamento inarrestabile. La natura qui intorno è un continuo spettacolo mozzafiato, sembra quella che sognavo da bambino, quando ascoltavo le storie di Tarzan o leggevo i romanzi di Salgari. In particolare sono colpito dalla quantità e varietà di farfalle di ogni tipo forma e colore, e nel tentativo di catturarle in fotografia faccio largo uso del macro sulla macchina. E poi è un’emozione ogni volta che alzo lo sguardo ad osservare l’immensità di questi alberi, dalle cui cime scendono giù le liane; ho quasi la tentazione di afferrarne una e tentare un lancio da un albero all’altro. I richiami degli animali sono tanti e rendono l’ambiente più che mai vivo alla percezione umana. A volte sento la fronda di un albero che si muove, alzo lo sguardo e vedo uno scoiattolo volante che salta nel vuoto tra un albero e l’altro a trenta metri da terra. È proprio mentre osservo una di queste acrobazie che Mathaba, il quale mi ha raggiunto alle spalle senza rumore, spara un colpo di fucile e abbatte la bestia al suolo. Su di me ha lo stesso effetto della musica di un disco in vinile improvvisamente bloccata da una mano. Lui mi guarda col suo ovvio sorriso e mi fa : - La cena. La povera bestia ha un manto nero con due strisce bianche che percorrono i lati dalla testa alla coda lungo le membrane alari che collegano le zampe anteriori con le posteriori facendo da paracadute, e altre due macchie piccoline che circondano gli occhi grandi e profondi. Vicino a me una cavalletta dai colori sgargianti, verde con puntini rossi, posa perfettamente mimetizzata con il ramo su cui si trova, e poi le farfalle che abbondano di ogni forma e colore, ce ne sono tantissime e mai ne avevo viste di così tante varietà. Riprendo la via verso il fuoristrada, le operazioni di scarico sono quasi terminate e il bulldozer sta già rimuovendo il secondo camion. Tra non molto potremo ripartire. Ci vorranno altre tre ore di marcia, non proprio spedita, per raggiungere l’agognato villaggio. A differenza del primo, questo è più grande e presenta anche un paio di veri edifici. Inoltre siamo vicini ad un corso d’acqua e, poiché è chiaro che passeremo qui la notte, ne approfitto per lavarmi gli indumenti ancora luridi di fango. Mi faccio indicare la via per il fiume e scopro che è necessario scendere lungo un ripido pendio, prima di potersi accostare all’acqua. Una volta giù, vedo diverse donne intente a lavare panni, le quali, quando mi vedono aprire il mio fagotto, mi vengono incontro e si offrono di aiutarmi. Accetto volentieri, sentendomi di colpo massacrato dai trascorsi di quella giornata, e nel, frattempo, ne approfitto per buttarmi in acqua anch’io. Rientrato al villaggio, Mathaba mi informa che avremmo passato la notte in auto. La notizia mi coglie di sorpresa, mi sarei aspettato di trovare facilmente una sistemazione più comoda. Mi rendo conto che questo villaggio ha già qualcosa di più disincantato del precedente, qui i primi segni di civiltà sono già palesi, c’è un piccolo pozzo per l’acqua, la zona intorno è stata spianata e la strada d’accesso è in terra battuta. Una donna dall’aria truce è indaffarata lì vicino a pestare la farina in un mortaio, lancia continui richiami a una mezza dozzina di bambini che le girano intorno giocando e correndo, ha sulle guance alcune cicatrici, risultato di scarificazioni rituali: sono il segno di una posizione sociale privilegiata. In mezz’ora Mathaba prepara lo scoiattolo sulla brace dopo averlo scuoiato e infilzato con un ramo come su un enorme spiedo. L’aspetto dell’animale morto, messo lì ad arrostire sul fuoco tutto intero, non mi fa una bella impressione, mi sembra un topo gigante, e anche il suo sapore è molto pungente, decisamente peggiore del serpente e dell’armadillo. Vi è qualcosa in questo posto che mi mette addosso uno strano disagio. Qui non mi sento accolto come nel villaggio che abbiamo attraversato ieri, anche se la gente non fa nulla di particolare per farmi sentire meno benvenuto. Le donne, di rientro dal fiume, stendono i miei vestiti su un piano di fianco ad una capanna per farli asciugare. Una di loro mi si avvicina e mi chiede “Bacshish”, ovvero una mancia per il servizio. Non ho nulla in contrario, naturalmente, ma quella richiesta chiarisce la mia sensazione. In questo posto la presenza degli occidentali è stata più frequente e prolungata, di conseguenza i primi segni iniziano a manifestarsi, cadono i primi tabu, e la piccola società tribale ha già iniziato la sua trasformazione in qualcos’altro. Questo pensiero mi accompagnerà nel sonno. Quarto giorno Mi sveglio presto, sto scomodo, e dormire è stata un’impresa. Il mio desiderio ora è solo quello di ripartire per continuare il viaggio. Di conseguenza, questa mattina il mio umore non è proprio alle stelle e appena Mathaba rinviene gli metto una fretta febbrile, ho il desiderio di abbandonare il prima possibile questo posto. Siamo nuovamente in marcia nel giro di un quarto d’ora. Il viaggio inizia a far sentire il suo logoramento, la stanchezza accumulata si è unita ora al mio stato d’animo e sono solo ansioso di voler arrivare. Per diversi chilometri non osservo quasi nulla e a tratti richiudo gli occhi cercando ancora il sonno perso, ma dormire in queste condizioni è impossibile. Siamo di nuovo su un tratto poco battuto dai mezzi e il fondo stradale è pessimo, il fango è tale che al passaggio il pickup crea solchi profondissimi e spesso il fondo striscia nella parte anteriore per diversi metri. Mentre sono intento a frullare pensieri noncurante di tutto, il fuoristrada esegue una brusca virata a sinistra e finisce lungo in curva, sbattendo l’anteriore contro il margine. Tutta la parte frontale si solleva di colpo e quando ricade il mezzo rimane incastrato. Resto intontito a causa dell’urto e ho bisogno di alcune decine di secondi per realizzare quanto accaduto. Apro la portiera e scendo dall’auto. Quando appoggio i piedi per terra sprofondo nel fango fino alle caviglie. Lancio un’imprecazione urlandola più forte che posso. Il motore del pickup è ora spento e il mezzo ha tutta la parte anteriore completamente affondata nel fango. Siamo nel bel mezzo del nulla, non ci sono né persone né mezzi nel raggio di chilometri e non ho idea di come fare per venire fuori da quella situazione. Mi lascio assalire dallo scoramento, mi viene in mente che da quattro giorni non ho contatti con nessuno e che, anche se la mia destinazione è nota, nessuno al mondo sa che sono esattamente qui. Sono disperato, anche perché consapevole che Mathaba da solo non sarà mai in grado di elaborare una soluzione, e che quindi tutto dipende da me. Mi appoggio con il sedere sul fianco del cassone e tiro fuori dal taschino il mio pacchetto di sigarette, ne è rimasta solo una e non so pensare ad un momento migliore per accenderla. Per cinque minuti sono sopraffatto dal pessimismo e mi maledico per essermi ficcato in quella situazione, anche se al momento di partire non avevo elementi oggettivi per sapere a cosa sarei andato incontro. In questo momento penso alle centinaia di miei colleghi in giro per il mondo: a loro non sarebbe capitato nulla del genere. Alla fine cerco di raccogliere idee e forze e, come mi accade in situazioni difficili, mi dico: pensa Domenico, pensa! Allora mi metto a guardare nel cassone dell’auto alla ricerca di tutto quello che può essere utile. Trovo una corda d’acciaio e una motosega, e poi ho a disposizione i miei attrezzi tra cui anche chiavi inglesi e una morsa per cavi elettrici. È più di quello che mi aspettassi: ora devo ingegnarmi per utilizzare questa roba al meglio. Mi guardo intorno. Sul lato opposto a quello del pickup c’è una fila di alberi di medie dimensioni. Faccio un giro di ricognizione e vedo che, nella seconda fila, c’è un albero dal tronco semimarcio quasi in linea con l’auto. Prendo le misure con i passi e valuto che ho abbastanza corda per arrivare fino ai rami più alti. Allora inizio assicurando la corda al gancio del posteriore del veicolo e poi vado ad affrontare l’albero. Ho il problema di riuscire ad arrampicarmi il più in alto possibile portando con me la corda. Mi darà un aiuto determinante lo spezzone di una fascia di nylon rimediata non so dove né quando, che mi sono assicurato alla vita e poi ho fatto passare intorno al tronco per fare leva spingendo con i piedi. Salire è difficile, il tronco è scivoloso, ho le calzature sporche di fango, per cui devo impegnare allo spasimo tutti i muscoli del corpo. Ad ogni passo che metto, mi torna in mente quando, da ragazzo, il vento di scirocco mi strappava dalle mani la vela del windsurf e sapevo che, se l’avessi mollata e fossi cascato in acqua, le mie possibilità di raggiungere la riva si sarebbero ridotte pericolosamente. Guardo i rami sempre più vicini e mi dico che anche questa volta riuscirò a tornare sulla mia spiaggia. Quando sono in cima, faccio passare la corda d’acciaio intorno al tronco e poi la chiudo usando la morsa. Stringo più che posso con le chiavi e quindi inizio la discesa, che non è poi tanto più facile della salita. Mi avvicino all’albero con la motosega in moto, il mio obbiettivo è quello di farlo cascare al suolo dalla parte opposta all’auto, nella speranza che nella caduta la trascini fuori dal pantano. Non ho mai tentato nulla del genere prima d’ora e non ho nemmeno mai tagliato un tronco così grosso. Le incognite sono tante, soprattutto non so se riuscirò a farlo cadere proprio dove desidero. Per aumentare le possibilità di successo, prima di iniziare faccio salire Mathaba su un albero della prima fila per fargli passare la corda d’acciaio tra i rami di quest’ultimo in modo che faccia da fulcro. Sono pronto. Inizio a segare incidendo il tronco secondo un taglio diagonale ascendente sul lato opposto alla macchina. Quando arrivo a circa metà della sezione, sfilo via la lama e inizio un nuovo taglio partendo più in basso e risalendo sempre in diagonale verso il punto in cui mi sono fermato prima. Tutta l’operazione è molto lunga e faticosa, a volte vedo che la lama si arroventa, allora mi fermo e aspetto che si raffreddi, non posso usare l’acqua, perché la scorta è poca scarsa e non posso sprecare quella potabile. Allora decido di urinarci sopra, e per un po’ sembra funzionare. Dopo mezz’ora di fatica sento i primi scricchiolii. Allora mi fermo e vado a prendere una pesante mazza di ferro e assesto diversi colpi sul triangolo intagliato. Quando questo salta per aria il rumore dello scricchiolio si fa impressionante, perciò mi metto a correre in direzione opposta. Nel frattempo Mathaba, che si trova in macchina con il motore acceso, dà gas a fondo, il pesante tronco si sfalda facendo ruotare leggermente l’albero durante la caduta, la corda si tende, e vedo l’auto che viene trascinata di getto fuori dall’incastro con la forza di una catapulta. Il frastuono è assordante e irrompe nel relativo silenzio della foresta. Uno stormo di uccelli si leva in volo tutto insieme vociando e quando l’albero attera arrestando la sua corsa, la Toyota è al centro del sentiero. È fatta! È fatta! Non ci credo ancora, ma ci sono riuscito, e ora, dopo aver liberato la corda, possiamo finalmente ripartire. Abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo per liberarla del tutto, perche è rimasta incastrata nell’albero rimasto in piedi, ma segato a metà. Ci sono volute in tutto ben tre ore, ma l’importante è di esserne venuti fuori. Quest’esperienza mi ridona una ritrovata energia: anche se sento dolori dappertutto e avverto la stanchezza, sento quasi che ormai non c’è più nulla che potrà arrestare il nostro viaggio. Risalgo in macchina. Ripenso alla telefonata di Eros, quasi rivivo la mia premonizione e mi riprometto di dirgliene quattro appena possibile. Intanto per ora guardo avanti. Passano altre tre ore senza intoppi, e adesso siamo su un tratto di terra battuta che costeggia un fiume. Non ci siamo più fermati e abbiamo entrambi bisogno di mangiare qualcosa. Ci fermiamo e tiro fuori dallo zaino alcune scatolette di tonno e un po’ di pane che devo ammorbidire con l’olio che cola dal tonno. La pausa è breve e io voglio raggiungere il prossimo posto abitato prima che faccia buio. Riusciamo ad arrivare ad un villaggio poco prima di sera, dove ci sono poche persone, forse quattro o cinque gruppi familiari, e poche capanne di lato ad una struttura che copre alcuni grandi bidoni messi in fila. Non c’è una capanna per noi, ma ci viene offerto comunque un riparo sotto una piccola tettoia di paglia. Le capanne qui sono differenti da quelle che ho visto fin’ora, non sono costruite con le pareti di terra, ma composte completamente di paglia. Anche la vegetazione ha cominciato a mutare, le sequoie hanno lasciato spazio alle palme. Lo accolgo come un buon segno, probabilmente siamo abbastanza vicini al mare. Siamo entrambi molto stanchi e dopo aver acceso un fuoco vicino a noi per allontanare presenze indesiderate, ci sistemiamo sotto la tettoia. Casco in un sonno profondo appena chiudo gli occhi. Quinto giorno Il villaggio si anima di buon ora, e del resto anche noi siamo svegliati dalle prime luci dell’alba. Tre uomini sono indaffarati vicino alla fila di bidoni che avevo visto il giorno prima e mi avvicino incuriosito. Domando quale sia la funzione di quello strano agglomerato di contenitori posti su un sistema di braci ardenti e collegati tra loro da lunghe cannucce, mi dicono che è la loro distilleria: me ne offrono il prodotto finale in un recipiente. Ovviamente declino con cortesia l’offerta: non oso immaginare i danni cerebrali che una mistura siffatta possa produrre; oltretutto il contenitori utilizzati sono scarti industriali, probabilmente contenevano olio minerale. Ho bisogno ancora di un po’ di tempo, prima di risalire nuovamente in macchina; anche se mi sento più riposato del giorno prima, voglio rilassarmi ancora perché tutti gli eventi di questi giorni sono stati molto pesanti, comunque voglio ricaricarmi prima di ritrovarmi nel sentiero fangoso. Visto che siamo vicino al fiume decido di rinfrescarmi. Rivivo ancora l’avventura del giorno prima e dei giorni che l’hanno preceduto: è stata fino a questo momento senza dubbio il culmine di un’esperienza ricca di emozioni, colori, odori, forme, tutto mi scorre d’avanti agli occhi come se rivivessi infinite volte quanto ho assistito. Gli stessi volti di queste persone semplici hanno tratti somatici ancestrali, mi sembrano quelli del primo “Sapiens”, di quei primi uomini che lasciarono le loro orme sul suolo europeo spazzando via i “Neanderthal”. Tutto ciò che mi circonda qui è rimasto invariato da milioni di anni: la foresta immutabile, gli animali, i fiumi e con essi anche gli abitanti. Tutto assume un atmosfera surreale per me, e mi lascio ancora prendere da questi suoni privi di qualunque segno del comune caos che gli ambienti urbani producono altrove. In realtà nel profondo del mio cuore io so che questo è esattamente quello che cerco: un attimo, una parentesi che mi allontani da tutto. Io sono colui che dice: fermate il mondo, voglio scendere. Ho bisogno di cercare questa temporanea solitudine che mi riconcili con il mondo, ho bisogno di vedere con i miei occhi, di conoscere di incontrare tutto ciò che è remoto e di cogliere l’essenza stessa dell’esistenza, prima che questa svanisca lasciando come in una nebbia impercettibile, solo un ricordo di ciò che è stato. È con lo stesso spirito che ora ripenso, quasi con commozione, alle mie maledizioni lanciate ieri nel momento della difficoltà. Mi sciacquo il corpo sulla riva, e mentre osservo incuriosito una colonia di formiche arboricole intorno ad un tronco, ho quasi la voglia di tuffarmi in alto, nell’acqua profonda, ma mi fermo dopo aver visto due piccoli di coccodrillo che si nascondono dietro un cespuglio. Meglio allontanarsi dall’acqua per evitare brutte sorprese. A differenza dei coccodrilli del Nilo, questi sono completamente scuri, con il muso più appuntito, e il dorso convesso. È ora di ripartire. Pian piano il fango inizia a presentarsi disseccato, poi a sparire. La strada si fa di terra battuta e al nostro passaggio solleviamo molta polvere, in alcuni tratti l’avanzamento è ostacolato dai solchi induriti di enormi pozzanghere asciutte, e sembra di rotolare su radici scoperte. I bordi del sentiero sono sollevati come se fosse stato scavato di mezzo metro: anche questo è effetto dell’acqua evaporata. Sono le 15, viaggiamo ininterrottamente da ore e iniziamo sentire i segni della fame, ma siamo a corto di viveri, e qui non credo sia semplice trovare una preda da catturare, al massimo potremmo cercare un po’ di frutta. Quindi la fame non ci impedisce di continuare il viaggio, in fondo possiamo ancora resistere e la voglia di arrivare ormai non lascia più molto spazio ad altri bisogni. Dopo aver abbandonato l’ultima piccola altura ai lati del percorso, non vedo che palme. Mentre scendiamo da un piccolo pendio, avverto uno scoppio improvviso e l’auto sbanda bruscamente a destra. Una gomma si è letteralmente squarciata. Dopo tutto quello che abbiamo già affrontato questo mi sembra un inconveniente di poco conto, e quando scendo dall’auto le mie narici sono sorprese da un odore inconfondibile: il mare. Riesco a percepirlo ormai è vicinissimo, forse proprio dietro qualche curva. Mi arrabatto con la gomma insieme a Mathaba per fare il più presto possibile, quando finiamo lo faccio da parte e mi metto alla guida ripartendo a tutto gas. Avevo ragione: in meno di dieci chilometri il sentiero polveroso finisce su una strada asfaltata che corre lungo la costa. Svolto a destra in direzione nord, e ora tutto mi sembra surreale, è come essere sbucato dal nulla su una strada normale, percorsa da altri mezzi; la vista del mare con il sole del pomeriggio che vi si riflette mi restituisce a una dimensione consueta. Mi fermo dopo un quarto d’ora, anche perché, oltre alla fame, è meglio che non guidi qui. Improvvisamente ci troviamo in mezzo al traffico consueto al quale mi ero abituato durante il viaggio di andata a Sunyani. Troviamo un piccolo ristorante e quasi non mi sembra vero di riprendere in mano delle posate e di essere seduto comodamente ad una tavola. Chiedo a Mathaba se sa esattamente dove ci troviamo, ma ovviamente la risposta è vaga. Allora domando alla cameriera il nome di quel posto, e dopo aver consultato la cartina scopro che dalla la meta non mi separano più di 50 o 60 km. Ora mi sento molto più tranquillo e rilassato, bevo perfino della coca-cola, cosa che in genere non faccio mai. Consumato un lauto pasto, facciamo un rapido giretto tra le baracche lì intorno, mi rifornisco di tutto e con la pancia sazia risalgo in macchina al mio solito posto. Sono così rilassato che dopo una decina di chilometri riesco perfino a chiudere gli occhi e riposare; nell’addormentarmi sorrido ripensando alla mia avventura, dicendomi che quell’esperienza resterà per sempre tra quelle indimenticabili e che probabilmente non riuscirò a farmi credere quando la racconterò. Mi risveglia Mathaba quando abbandoniamo la strada asfaltata per iniziare un percorso che pur seguendo sempre la costa ora si è rifatto sterrato. Lo spettacolo delle palme altissime, inclinate e protese verso il tramonto oceanico, è mozzafiato: file e file circondano diversi villaggi costruiti con capanne di paglia, giusto a ridosso della spiaggia. Ormai le ombre allungate lasciano il posto all’oscurità e l’ansia che ho di raggiungere il sito non la sopporto più. Ultima curva a sinistra e la vista si apre all’improvviso su una stradina di cemento, strettissima, che ci porta al cancello d’ingresso. Qui i rituali controlli dei documenti durano pochi minuti e finalmente giungiamo su un piazzale pieno di mezzi, di fronte ad un edificio di un solo piano, largo circa un centinaio di metri e circondato da parabole giganti. Si tratta degli… base operativa del progetto. Scendo dall’auto e mi rendo conto che devo avere un aspetto orribile. Un uomo pelato, non molto alto ma dal fisico tonico, in t-shirt bianca e jeans, con un cappellino da baseball mi viene incontro sorridendo e mi stringe vigorosamente la mano. Si presenta come J.D. Robinson, è il site manager e la mia vista lo riempie di felicità, come se avesse visto la madonna. È texano fino al midollo, e dopo pochi minuti di convenevoli, mi offre subito una birra gelata alla cui vista quasi mi commuovo. Mi informa che era preoccupato perché attendeva il mio arrivo tre giorni prima, mentre di me non si avevano notizie e anche il mio capo iniziava ad essere in pensiero. Già, il mio capo. E non solo lui. Era tanta la fretta di arrivare che avevo letteralmente dimenticato di provare a riaccendere il telefono. Appena lo faccio ricevo dozzine di messaggi di notifica di tutte le chiamate non risposte. Quindi, per prima, cosa inizio a richiamare dapprima i miei cari, e quindi il “capo”. - Ciao Luigi - Allora sei vivo! Ma che fine avevi fatto? - Eeeh sapessi…! - Ecco, non lo voglio sapere. Comunque adesso fai il tuo lavoro e sbrigati a tornare a casa. - Ma certo! Finalmente tutto torna a prendere una dimensione normale, normale almeno per me. Sono pur sempre in un posto semi sperduto dell’Africa. Innegabilmente affascinante. I miei giorni successivi trascorsero tranquillamente, trovai tutto il tempo di potermi concedere qualche piccolo svago, come un tuffo nell’oceano. Anche gli aspetti lavorativi mi riservarono delle sorprese positive: nonostante le pessime condizioni ambientali e il fatto che fossero ormai fuori produzione la maggior parte delle apparecchiature era ancora funzionante, e questo accrebbe in me l’ammirazione verso quel particolare tipo di dispositivi che era stata una serie molto fortunata e tra le mie preferite. Il mio viaggio di rientro ad Accra durò un solo giorno, percorsi la strada costiera senza il minimo intoppo. Tuttavia, questo viaggio resterà uno nei miei ricordi più vividi di un posto speciale, perché, diversamente da altre occasioni che nel mio lavoro non mancano, mi ha dato la possibilità di confrontarmi in modo diretto con una natura selvaggia, e mi ha obbligato anche a far conto sulle mie forze, almeno in un’occasione, per poter fronteggiare gli avversi imprevisti.
Posted on: Tue, 01 Oct 2013 14:59:31 +0000

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