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prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione (3). Ma sono molti gli anziani malati cronici non autosufficienti dimessi dagli ospedali e costretti a ricoveri in istituti di assistenza non idonei alle loro esigenze. La realtà è drammatica soprattutto per i malati anziani che diventano vittime di gravi reati. L’emarginazione sociale costituisce, purtroppo, un terreno particolarmente fertile per la crescita di un terribile fenomeno di criminalità contro gli anziani più deboli e indifesi. La stampa quotidiana lo conferma, specialmente con notizie di reati commessi contro ricoverati in “ospizi lager” (4). Nella situazione descritta, il reato di abbandono di persone incapaci previsto dall’articolo 591 del codice penale (5) è uno dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale che interessa più diffusamente gli anziani malati cronici non autosufficienti. Ciò in quanto, per la sussistenza di questo delitto, non è necessario che si verifichi un danno (6) ma basta che, in conseguenza dell’abbandono, si verifichi un pericolo per la incolumità personale del soggetto incapace che viene abbandonato da chi ne ha la custodia o ne debba avere cura (7). L’articolo 591 del codice penale stabilisce che il soggetto passivo di abbandono può essere: «un minore degli anni 14, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa». Autore del reato in questione è la persona che ha in custodia (anche in via occasionale e temporanea) o deve avere cura di un soggetto incapace e che in forza di detta relazione ha il dovere di non abbandonarlo. Se lo abbandona, con la coscienza e consapevolezza di lasciarlo in una situazione di pericolo, è penalmente responsabile. La Corte di Cassazione ha chiarito che la condotta criminosa di abbandono di incapace «consiste nel lasciare la persona in balia di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo, in modo tale che derivi un pericolo per la incolumità personale» (8). Con riferimento specifico all’abbandono di anziani malati cronici non autosufficienti è significativo rilevare che, in varie occasioni, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di imputati per il reato previsto dall’articolo 591 del codice penale in casi di abbandono di ricoverati presso istituti di assistenza, specialmente a causa della mancanza di personale idoneo e della insufficienza di cure. Al riguardo, si segnalano alcune sentenze: – sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 9 maggio 1986, relativamente ad un caso di repentino allontanamento di tutte le assistenti di una casa di ricovero per anziani. La Suprema Corte ha ritenuto che non era rilevante la presenza nella stessa casa di ricovero di inservienti perché si trattava di personale inidoneo quantitativamente e qualitativamente alla necessaria assistenza infermieristico-sanitaria, né erano rilevanti le successive circostanze che avevano consentito di evitare l’aggravamento dei ricoverati (9); – sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989, che ha confermato la condanna di una coppia di coniugi amministratori di varie case di riposo ove i ricoverati erano lasciati in pessime condizioni igieniche e sanitarie. La Suprema Corte, riportandosi alla sentenza di condanna impugnata dagli imputati, ha osservato che «i ricoverati, quasi tutti abbisognevoli di cure mediche e paramediche, erano affidati a personale assolutamente inadeguato, perché costituito da generici inservienti che svolgevano anche attività tecniche senza alcun titolo specifico, ridotto durante la notte ad una sola unità mentre l’assistenza medica era solo occasionale, saltuaria e superficiale, per non dire inesistente (tanto che nessuno si era accorto che alcuni dei pazienti erano portatori di catetere in permanenza), esponendo i ricoverati a pericolo per la loro incolumità» evidenziata da alcuni tragici incidenti, come la morte di tre ricoverati (10); – sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 28 marzo 1990, che ha confermato la condanna di un infermiere, in servizio presso un istituto per anziani, il quale in più occasioni non aveva fornito ai ricoverati le prestazioni assistenziali e terapeutiche cui era tenuto, esponendo così a rischio la loro salute (11); – sentenza della Corte di Cassazione, sez. V, 21 ottobre 1992, che ha confermato la condanna dell’imputato D., amministratore unico di una società che gestiva un istituto ove erano ricoverati 292 anziani, in gran parte non autosufficienti. Riportandosi alla sentenza di condanna impugnata dall’imputato, la Corte di Cassazione ha osservato che «i carabinieri, nel corso dell’accesso sul posto, avevano trovato appena nove persone di guardia per il turno di notte, delle quali un medico ed un infermiere, cinque assistenti ai letti e due inservienti. Facendo il rapporto tra assistenti e degenti, ne derivava l’apprezzamento di un sussidio poco più che simbolico, che restava confermato avendo di vista anche l’organico del gerontocomio, considerando – ovviamente – la presenza del personale nei vari turni lavorativi» ed «emergeva l’impossibilità che fosse assicurata, nell’istituto, un’igiene appena decente dei locali e delle persone e che si badasse adeguatamente a queste ultime, senza lasciare in balia di se stesse quelle meno autosufficienti». Nella sentenza di condanna si rileva che le omissioni a carico dell’imputato D. risultavano comprovate e che «delle relative conseguenze il D. non poteva non essere consapevole, essendo colui che ordinava i pasti... dirigeva il personale, percepiva le rette, disponeva le spese» (12); – sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 28 novembre 1997, che ha richiamato in motivazione l’anzidetta sentenza in riferimento al caso di abbandono di un anziano malato cronico non autosufficiente che era stato lasciato in una situazione di particolare degrado personale nella struttura dove era ricoverato (13). Alcune considerazioni Le note descrittive del reato previsto dall’articolo 591 codice penale e le sopra riportate sentenze di condanna per abbandono di malati anziani nell’ambito di istituti di assistenza fanno riflettere seriamente sulla situazione di pericolo in cui potrebbero trovarsi molti altri malati cronici non autosufficienti dimessi dagli ospedali senza una alternativa di cura adeguata alle loro peculiari condizioni cliniche. Si tratta di malati totalmente non autosufficienti, incapaci di difendersi e di denunciare eventuali reati ed è, quindi, urgente l’esigenza di assicurare una pronta ed effettiva tutela della loro salute e di prevenire l’abbandono. Di fronte alla emergenza che può derivare dalla dimissione ospedaliera di questi malati, è stupefacente che si giunga, addirittura, ad esercitare una azione intimidatoria nei confronti dei familiari per costringerli ad accettare la dimissione ospedaliera. Ricordiamo, al riguardo, la vicenda di R.F., novantenne malata cronica non autosufficiente dimessa dall’ospedale Fatebenefratelli di Venezia (14). I fatti risalgono a dieci anni fa ma rimangono emblematici perché richiamano l’attenzione su una situazione di grave disagio che è ancora attuale per molti malati cronici non autosufficienti e per i loro congiunti. Precisiamo, allora, che cosa accadde in particolare. Nel luglio 1988 i figli di R.F. avevano comunicato all’ospedale Fatebenefratelli di Venezia che non potevano accettare la dimissione ospedaliera della madre in quanto non erano in grado di curarla e assisterla a casa e il Fatebenefratelli reagì inviando una segnalazione – incredibile ma vero – alla Polizia che avviò indagini. L’anziana malata continuò a rimanere ricoverata in ospedale finché il direttore sanitario dell’ospedale stesso comunicò ai familiari, con lettera del 3 aprile 1989, la dimissione della paziente per il 10 aprile precisando che l’eventuale mancato “prelievo” della congiunta sarebbe stato segnalato alle competenti autorità fra cui indicava la Questura. Due giorni prima della scadenza intimata con minaccia di segnalazione anche alla Questura, un figlio di R.F. – per timore – accettò la dimissione ospedaliera della madre che venne trasferita dall’ospedale Fatebenefratelli alla casa di riposo IRE di Venezia «in condizioni di gravità e con necessità immediata e continuativa di assistenza medica ed infermieristica» (15). Inoltre, in conseguenza della segnalazione del Fatebenefratelli alla Polizia, i figli e due nipoti di R.F. vennero addirittura processati per reato di abbandono di persona incapace previsto dall’articolo 591 del codice penale e assolti dal Tribunale di Venezia con sentenza del 1° giugno 1993 n. 259 «perché il fatto non sussiste» (16). Il reato di abbandono non poteva sussistere perché i familiari, rifiutando la dimissione ospedaliera, non avevano lasciato R.F. in pericolo di vita, dato che la stessa era in ospedale. I familiari non si trovavano neppure nella condizione richiesta dall’articolo 591 del codice penale per essere autori del reato di abbandono in quanto non avevano in custodia la madre. Solamente i sanitari dell’ospedale, avendo in cura la paziente, si trovavano, eventualmente, nella condizione per potere commettere l’anzidetto reato (17). Questo clamoroso caso giudiziario, dunque, si è concluso con una piena assoluzione dei figli e nipoti di R.F., ma ciò non ha annullato gli effetti di intimidazione prodotti nei confronti di tanti familiari di anziani malati cronici non autosufficienti, considerata anche la risonanza data dai mass media alla vicenda. Con riferimento al fatto della segnalazione del Fatebenefratelli alla Questura, inoltre, ricordiamo che il 5 dicembre 1988 venne presentata una interpellanza, la numero 496, al Consiglio regionale del Veneto e che dalla anzidetta interpellanza risultò che la pratica della segnalazione alla Questura era usata non solo dall’ospedale Fatebenefratelli di Venezia ma anche, ad esempio, da quello di Negrar (Verona), appartenente all’Opera Don Calabria (18). La risposta che la Giunta Regionale del Veneto diede il 15 dicembre 1989 (dopo un anno!) fu sconcertante per le seguenti affermazioni: «Quanto alle minacciate denunce per abbandono di incapace e alle chiamate dei Commissariati di Polizia, riferite nei riguardi dei familiari, essi possono considerarsi mezzi di pressione psicologica, forse alquanto goffi, per accelerare la dimissione. Altro mezzo, con identica finalità, può considerarsi quello di richiedere all’interessato o a chi per lui il pagamento della diaria». Osserviamo che è decisamente cinica la tesi per cui il fine “di accelerare la dimissione” giustifica “i mezzi di pressione psicologica” usati nei confronti di familiari di malati cronici non autosufficienti ricoverati in ospedale e, al riguardo, rileviamo, innanzitutto, che la legge penale vieta l’uso di minacce contro una persona al fine di costringerla a fare qualcosa. L’art. 610 del codice penale (19) prevede che «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa commette il delitto di violenza privata» (20). Questo delitto è previsto proprio allo scopo di tutelare la libertà psichica dell’individuo nella sua volontaria esplicazione. La Corte di Cassazione ha chiarito che la violenza e la minaccia sono punibili a norma dell’articolo 610 del codice penale anche quando con esse si voglia costringere altri ad adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta genericamente illecita o immorale (21). A maggior ragione, quindi, la violenza e la minaccia sono punibili nel caso in cui il familiare di un malato cronico non autosufficiente venga costretto ad accettare la dimissione ospedaliera del proprio congiunto, visto che un familiare non ha alcun obbligo giuridico di accettare l’anzidetta dimissione, e che il suo comportamento non è neppure moralmente censurabile se il congiunto malato non autosufficiente non può essere curato ed assistito adeguatamente a domicilio. In riferimento al significato penalmente rilevante di “minaccia”, che più interessa in questa sede, riportiamo l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione: «Minaccia è ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato dal colpevole, o da altri per lui, alla persona o al patrimonio» (22). La Suprema Corte ha precisato, inoltre, che «ai fini del delitto di violenza privata non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo sia verso altri, idoneo a incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere, mediante tale intimidazione, che il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa» (23). Alla luce dei rilievi esposti, quindi, è punibile a norma dell’articolo 610 del codice penale chiunque costringa un familiare, con violenza o minaccia, ad accettare la dimissione ospedaliera di un congiunto malato cronico non autosufficiente e ad assumerne l’assistenza e cura a domicilio. Quando ciò avviene, accanto al dramma degli anziani malati cronici non autosufficienti fatti segno di pesanti discriminazioni e vittime di abbandono, si affianca anche il dramma dei familiari, vittime di violenza privata. (1) La condizione sanitaria degli anziani rischia di aggravarsi in età cronologiche avanzate. Dopo i 75 anni aumenta la suscettibilità alla comparsa di specifici aspetti sanitari propri dei cosiddetti “pazienti geriatrici”. Oltre gli 85 anni vi è la più elevata prevalenza di patologie e disabilità (A. Capurso, “Terza età e qualità della vita”, Federazione Medica [9], 1992, 33-37; G. Barbagallo Sangiorgi, “Il paziente geriatrico: approccio clinico e terapeutico”, Federazione Medica [4], 1993, 17-27). La coesistenza contemporanea di situazioni patologiche plurime di diversa natura, a carico dei diversi organi (comorbilità), è una caratteristica clinica quasi costante e comunque la più frequente nell’anziano. L’associazione di diverse patologie non può che peggiorare la situazione clinica complessiva del malato, facilitando l’evoluzione verso situazioni di una gravità maggiore rispetto a quella che le malattie isolatamente considerate comportano, o addirittura verso severissime emergenze cliniche (V. Pedone, “Il paziente geriatrico” in D. Cucinotta [a cura di], Curare l’anziano - principi di gerontologia e geriatria, Sorbona, Milano, 1992; G. Barbagallo Sangiorgi, “Il paziente geriatrico: approccio clinico e terapeutico”, Federazione Medica [4], 1993, 17-27). Gli eventi patologici acuti si verificano più facilmente nel corso di malattie croniche, ad esempio l’ictus, l’infarto, la riacutizzazione della bronchite, la frattura nell’osteoporotico e l’evento anemizzante nel neoplastico (F. Fabris, “Ridefinizione dei concetti di acuzie e di cronicità”, in AA.VV., Eutanasia da abbandono, Rosenberg & Sellier, Torino, 1988). Gli anziani in età avanzata sono maggiormente soggetti alla comparsa di emergenze cliniche definite come “scompensi a cascata”. Un evento morboso produce secondo un meccanismo di ripercussioni consecutive, tutta una serie di complicanze, con sintomi apparentemente non correlati con l’evento patologico iniziale. Altro rischio tipico dei pazienti geriatrici è rappresentato dall’insorgenza di “circoli viziosi” per cui un evento patologico, di per sé poco rilevante, può acquistare carattere di gravità crescente a causa della successione perversa di eventi autopotenziati (V. Pedone, “Il paziente geriatrico” in D. Cucinotta [a cura di], Curare l’anziano - principi di gerontologia e geriatria, Sorbona, Milano, 1992; G. Barbagallo Sangiorgi, “Il paziente geriatrico: approccio clinico e terapeutico”, Federazione Medica [4], 1993, 17-27). (2) Il servizio di ospedalizzazione a domicilio, istituito nel 1984 dall’USL Torino VIII, ad esempio, funziona ininterrottamente dal 1985 ed i risultati positivi sono stati presentati in varie pubblicazioni e convegni. (3) L’art. 3 della legge 4 agosto 1955 n. 692 dispone che l’assistenza sanitaria debba essere fornita senza limiti di durata alle persone colpite da malattie specifiche della vecchiaia; l’art. 29 della legge 12 febbraio 1968 n. 132 impone alle Regioni di programmare i posti letto degli ospedali tenendo conto delle esigenze dei malati “acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti”; la legge 13 maggio 1978 n. 180 stabilisce che le USL devono assicurare a tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro età, i necessari servizi diretti alla prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie mentali; la legge 23 dicembre 1978 n. 833 istitutiva del Servizio sanitario nazionale obbliga le USL a provvedere alla “tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione” (art. 2, 8, f). Le prestazioni devono essere fornite agli anziani, come a tutti gli altri cittadini, qualunque siano “le cause, la fenomenologia e la durata” delle malattie (art. 2, 3). (4) Una raccolta di notizie estratte da quotidiani degli anni 1991, 1992 e 1993 è contenuta nel volume di F. Santanera, M.G. Breda, F. Dalmazio “Anziani malati cronici: i diritti negati”, UTET Libreria, 1994. Nella edizione regionale Umbria del quotidiano La Nazione dell’8 maggio 1998 è riportata la notizia di un recente intervento dei NAS di Perugia presso “Villa Valsole” a Trevi: “Ospizio lager - Titolare in cella - Maltrattamenti, lesioni gravi, tentativo di estorsione e sequestro di persona. Vittime, ancora una volta gli anziani (...)”. (5) L’articolo 591 del codice penale - Abbandono di persone minori e incapaci - dispone «Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. «Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. «La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte. «Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato». (6) Qualora la persona abbandonata riporti una lesione personale o muoia il delitto di abbandono sarà più grave e ciò comporterà un aumento di pena rispetto a quella prevista in caso di mero pericolo, come stabilisce il terzo comma dell’art. 591 del codice penale. (7) La Corte di Cassazione ha chiarito, in più occasioni, che per la sussistenza di questo reato basta un pericolo, anche solo potenziale, per la incolumità della persona incapace. In particolare si veda la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V, 21 ottobre 1992, n. 832 (dep. 1 febbraio 1993), Rivista Penale, 1993, 1131. (8) Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989 n. 1016 (dep. 20 marzo 1990), Cassazione Penale, 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano. La dottrina concorda. Si segnalano, in particolare, alcune pubblicazioni: Remo Pannain, “Abbandono di persone minori o incapaci”, Novissimo Digesto Italiano, I, 16; Aldo Scolozzi, “Sull’abbandono di persone minori o incapaci”, La Giustizia Penale, 1986, parte seconda, 370; Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale - parte speciale, Giuffrè, 1996, 119. (9) Corte di Cassazione, Sez. V, 9 maggio 1986, Cassazione Penale, 1987, 1094. (10) Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989 (dep. 20 marzo 1990) n. 1016, Cassazione Penale, 1990, 1349, con nota di Domenico Carcano. (11) Corte di Cassazione, Sez. V, 28 marzo 1990, Cassazione Penale, 1992, 614. (12) Corte di Cassazione, Sez. V, 21 ottobre 1992, n. 832 (dep. 1 febbraio 1993), Rivista Penale, 1993, 1131. (13) Corte di Cassazione, Sez. V, 22 novembre 1989, n. 1016 (dep. 20 marzo 1990), Cassazione Penale, 1990, 1349; Corte di Cassazione, Sez. V, 21 ottobre 1992, n. 832 (dep. 1 febbraio 1993), Dramis, Rivista Penale, 1993, 1131; Corte di Cassazione, Sez. V, 28 novembre 1997 (dep. 24 aprile 1998), Cimino, Gazzetta Giuridica Giuffrè ItaliaOggi (22), 1998, 30. (14) “Il Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alla cura di una anziana cronica non autosufficiente: la magistratura non processa l’ente ma i familiari”, Prospettive assistenziali, n. 95, luglio-settembre 1991. “I pareri dei Prof. Rescigno e Dogliotti in merito alla vicenda del Fatebenefratelli di Venezia”, Prospettive assistenziali, n. 97, gennaio-marzo 1992. (15) Condizioni riferite nella relazione medica del Dott. Luigi Maria Pernigotti, Aiuto dell’Istituto di Geriatria della Università di Torino. Un estratto della relazione è pubblicato nell’articolo “Il Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alla cura di una anziana cronica non autosufficiente: la magistratura non processa l’ente ma i familiari”, Prospettive assistenziali, n. 95, luglio-settembre 1991. (16) In riferimento alla contestazione del reato di abbandono a familiari di un malato cronico non autosufficiente dimesso dall’ospedale, altra sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” è stata emessa nel 1953 dal Tribunale di Ferrara (sentenza del 6 ottobre 1953, Giustizia Penale, 1954, II, p. 370). Nella anzidetta sentenza si precisa che «non può riscontrarsi abbandono pericoloso nel rifiuto cosciente da parte dei familiari di una vecchia paralitica (ricoverata in ospedale), di riprenderla in casa». (17) Ci sembra significativo citare, al riguardo, una autorevole opinione dottrinale secondo cui risponde del delitto di abbandono previsto dall’articolo 591 del codice penale «il sanitario che rifiuta di continuare ad assistere l’infermo di cui ha già iniziato la cura, quando manchi la possibilità che si provveda altrimenti» (Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale - parte speciale, Giuffrè, 1996, pp. 119, 120). (18) F. Santanera, M.G. Breda e F. Dalmazio, Anziani malati cronici: i diritti negati, UTET Libreria, 1994, p. 32. (19) L’art. 610 c.p. - Violenza privata - dispone: «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro mani. - La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’art. 339 del codice penale». (20) Quando, invece, la costrizione non si verifica ma la violenza o la minaccia è costituita da atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere altri a fare tollerare od omettere qualche cosa, il fatto integra il delitto di tentata violenza privata a norma del combinato disposto degli artt. 56 e 610 del codice penale. (21) Corte di Cassazione, Sez. V, 88/181031, Commentario breve al Codice Penale, Cedam, 1996, p. 1570. (22) Corte di Cassazione, Sez. V, 86/173578, Commentario breve al Codice Penale, Cedam, 1996, p. 1577. (23) Corte di Cassazione, Sez. II, 89/182005, Commentario breve al Codice Penale, Cedam, 1996, p. 1569.
Posted on: Fri, 16 Aug 2013 21:43:33 +0000

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