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una voce inconfondibile stella dei naviganti viaggiatore delle stelle Tim Buckley - Starsailor (1970) Come here woman 00:00 I woke up 04:12 Monterey 08:17 Moulin rouge 12:48 Song to the siren 14:46 Jungle fire 18:15 Starsailor 22:54 The healing festival 27:30 Down by the bordeline 30:46 John Balkin – double bass, electric bass Lee Underwood – guitar, piano, pipe organ Buzz Gardner – trumpet, flugelhorn, solo on Down by the Borderline Maury Baker – percussion Tim Buckley – guitar, 12-string guitar, vocals Bunk Gardner – alto flute, tenor saxophone, solo on The Healing Festival Art Direction and Photography - Ed Thrasher Repackaging for 1989 remastered CD version - L.J. Moche All lyrics by Larry Beckett and all music by Tim Buckley, except where noted. Come Here Woman (Buckley) – 4:09 I Woke Up – 4:02 Monterey – 4:30 Moulin Rouge – 1:57 Song to the Siren (Beckett/Buckley) – 3:20 Jungle Fire (Buckley) – 4:42 Starsailor (John Balkin/Buckley) – 4:36 The Healing Festival (Buckley) – 3:16 Down by the Borderline (Buckley) – 5:22 Starsailor Studio album by Tim Buckley Released November 1970 Recorded 10–21 September 1970, Whitney Studios, Glendale, CA Genre Jazz-rock, folk-rock, avant-garde Length 35:54 Label Straight Records LP Enigma Retro CD 4 Men with Beards LP (2007 Reissue) Producer Tim Buckley Professional ratings Allmusic 4.5/5 stars Down Beat 5.0/5 stars Robert Christgau C− Piero Scaruffi (8.5/10) Starsailor is a 1970 album by Tim Buckley (see 1970 in music), released on Herb Cohens Straight Records label. It marks the moment Buckleys folk rock origins became invisible as he fully incorporated jazz rock and avant-garde styles into his music. Although it is often regarded as not being accessible to many people, it also contains his best known song Song to the Siren. This more accessible song was written much earlier than Starsailors newer material, originally in a more traditional folk arrangement, as shown on the later released compilation album Morning Glory: The Tim Buckley Anthology. Bunk Gardner, a former member of the Mothers of Invention, joined Buckleys normal band to record the album. Also, Buckley began working again with lyricist Larry Beckett, after a three-album absence. Leontyne Price attended a concert in New York during the supporting tour and told Buckley, Boy, I wish they were writing things like that for us opera singers, to which Buckley responded, Well, do what I did; get your own band. Renewed interest Song to the Siren has been covered by a variety of artists, most notably This Mortal Coil, which featured on the 1984 album Itll End in Tears. John Frusciante, in 2009, covered this song on his album The Empyrean. The British trance act Lost Witness also released a remix single; Did I Dream (Song to the Siren). While the revival of Song to the Siren renewed interest in Buckley amongst independent artists in the 1980s, the success of his estranged son, Jeff Buckley, in the 1990s, inspired indie rock artists to look at the career of his father. The British band Starsailor took their name from this album. The album had a brief reissue on CD by the Enigma Retro label, but like the other Tim Buckley release on the Straight Records label, Blue Afternoon, it drifted out of print due to legal battles over who owned the rights to the music. This stems back to a 1976 separation and lawsuit between Herb Cohen and Frank Zappa, the co-owners of Straight Records. As a result, many of the albums released on Straight (including Captain Beefhearts Lick My Decals Off, Baby) are very difficult to find on CD. In 2006, the album was released on the iTunes Music Store, making it available to the general public once more. In 2007, 4 Men With Beards reissued the album on vinyl, as well as the rest of Tim Buckleys nine-album catalogue. However, CD copies of this and Blue Afternoon remain out of print and difficult to find on the market. Legacy It was featured at #50 in Pitchfork Medias Top 100 1970s album, falling just behind Marvin Gayes Whats Going On. In addition, Starsailor was selected as the 47th best rock record of all time in the 1987 book The Top 100 Rock n Roll Albums of All Time. Recensione di Alessandro La Spada (storiadellamusica (5 stars) E bene dirlo subito, quella di Starsailor è una musica inavvicinabile. Perché è un eterno tramite, una consapevole espressione dell’arte musicale intesa nella totalità delle sue diramazioni e delle sue rappresentazioni; è il fluire della paura irrequieta poggiata sull’intima umanità del silenzio. Il disco appartiene a quel tempo storico dove il magma caustico del free jazz aveva contribuito a nuova ispirazione per il rock colto, suggerendone l’estetica delirante di armonie e arrangiamenti alieni; Starsailor nasce come l’influsso sul rock della musica iconoclasta di figure come John Coltrane e Ornette Coleman, gli artefici di quel sound scapestrato e ondivago, flusso sonoro aggressivo che invade e fugge via. Cosa girava in quel periodo attorno a Tim Buckley? C’era il lirismo obliquo di Bob Dylan ,ok, c’erano le acidità drammaticamente morbide della California di Grateful Dead & Jefferson Airplane, c’era il progressive meno elfico di stampo frippiano ( che paradossalmente finiva per standardizzare i puntuali momenti di vuoto/pieno silenzio/rumore, atonalità effimere e batterismo tremolante ) , c’era il jazz rock inglese onnivoro perfetto. Mancava però quella poetica della paura, dell’instabilità esistenziale, la frustrazione del dubbio, mancava la giocosità sullo strumento più proprio dell’essere umano; mancava la capacità musicale di identificare realtà e sogno e di considerare i sentimenti contrari intrinseci ad esse, la stessa fugacità degli stati d’animo, il conflitto e la catarsi. Tim Buckley era la sua musica. Era schivo e timido, ma non era il disincanto di Nick Drake o la serietà di Jim Morrison. Starsailor è così un salto nella complessità dell’anima, un pugno in pancia e una carezza sulla guancia, assalto psico-fisico viscerale. Il disco vede la luce nel 1970, dopo le musiche strabilianti contenute in Goodbye and Hello, Happy Sad, Blue Afternoon, Lorca. E’ il passo più difficile quello che Tim si accinge a fare per la produzione di un disco che potrebbe speculare sul sound inusuale dei primi dischi, dove chitarre free-folk eteree si mescolano alla voce bluesy,quasi gospel, tra canti smaliziati e abuso di vibrafoni e chitarre inacidite e organi funerei. Laddove Happy Sad e Blue Afternoon tentavano già un allontanamento dalla forma canzone,seppur conservando la sobria leggerezza di uno spirito non ancora lacerato, Lorca si poneva già come esplorazione metafisica del linguaggio sonoro, che diventava spigoloso ed evocativo come mai fu prima,onirico nel suo lasciarsi condurre in divagazioni melliflue dalle cinque ottave di Tim. Starsailor si pone come ideale sintesi di tutto questo, ma nell’essere sintesi del particolare percorso artistico di un uomo, rimane ancora un punto di partenza per chiunque altro, un tramite che non verrà forse mai inglobato da nessuno, inaccostabile per grandezza ed eterogeneità. Eterno, si diceva. Il disco viene registrato nel settembre del 1970. Segna il ritorno dell’amico poeta Larry Beckett, l’entrata in campo di una sezione fiati di stampo zappiano (i fratelli Gardner) e della batteria di Maury Baker; la chitarra elettrica è sempre territorio di Lee Underwood, così come il contrabbasso di John Balkin. “ComeHereWoman” svela troppo presto la magnificenza del disco: accordi-suspence in un climax ascendente, tambureggiare molesto e pulsioni squilibrate di chitarre, organo plumbeo che sfila insieme al vociare di un cantato messianico; se l’inizio del pezzo è l’invocazione della morte, il proseguo si sviluppa come il rifiuto deciso a essa, una lunga elucubrazione di voce elastica su un rozzo blues alcolico e orpelli di jazz impazzito, un grido che atterra nel vuoto dell’esistenza e termina col placarsi dell’ardore tra le morbide confidenze di caldi armonici di chitarra. “I WokeUp” sembra schiudersi ai raggi del sole e alla malinconia più sobria; ma“Monterey” è già la seconda discesa nella fisicità del lamento, una libero flusso di coscienza che incolla sussurri e grida, che confina l’esagitarsi vocale di Tim a protagonista impetuoso dell’intera opera. Scatti,curve a gomito, isterico dimenare ultrasuoni dalle profondità della psiche: Tim Buckley ora fa con la voce quello che faceva Coltrane con il sax. “Moulin Rouge” riconduce l’altalena sonica di Starsailor su atmosfere di placido candore, con il suo incedere sornione da zuccherosa ballata jazz canticchiata come si fa con una filastrocca. “Song To The Siren” è semplicemente la perla nascosta dell’underground west-coast: canto d’amore che si propaga dal fondo del mare, tra echi lontani di voci sognanti e riverberi ovattati e gocce di chitarra. E’ la sublimazione in tono estatico del sentimento malinconico che trasuda dalla musica di Tim Buckley: “Should I stand amid the breakers?/ Should I lie with Death my bride? /Hear me sing , Swim to me, Swim to me, Let me enfold you/ Here I am, Here I am, Waiting to hold you.” “Jungle Fire” riprende inizialmente la lentezza squilibrata e dilatata di I woke up, accelerando sul finale con un ritmato blues chitarroso e intriso di strati e substrati di voci cosmiche a vortice,che preparano l’ingresso alla ennesima gemma: Starsailor è il punto di non ritorno del disco, è un vero e proprio studio sulle prospettive armoniche della voce, che si divide in sedici tracce riprodotte in parallelo,stratificate,asincrone,effettate. Tim Buckley dà suono all’Urlo di Munch, ne canta le profondità di campo,la tortuosità delle linee paesaggistiche e la violenza che emana l’orizzonte rosso; è una musica che pulsa di morte, di angoscia. Litania sbilenca. Allucinata divagazione vocale. “Healing Festival” percorre l’ignoto,ancora, tra riff che san tanto di Black Sabbath e libere divagazioni di sax e voce. “Down By The Borderline” è il riflusso verso i pezzi più leggeri. Il disco sta per concludersi; la musica, beefhartiana ormai , non riesce ancora a non subire il declassamento dalla voce di Tim Buckley, che segue la tromba in un assolo senza freni. La musica cessa e con essa il sogno che sapeva essere encomio e biasimo; finisce la musica dell’irruenza nata su un cuore di fragilità. Starsailor è inavvicinabile, adesso. Come il suo cantore, che non seppe più trovare lo stessa strada verso l’assoluto, come i rari epigoni che si misero umilmente nella scia della sua polvere magica; e dopo questo disco il declino dell’ aedo Tim arrivò puntuale come l’insuccesso che tanto lo distruggeva, fino all’ineluttabile destino di un uomo che era solito cantare melodie troppo aliene per essere tangibili,solo pensabili, che sapeva soffiare sul fondo dell’orizzonte marino delicate elegie per le sue sirene, sapeva strepitare e dimenarsi per i suoi demoni. Il suo destino si consumò, e l’eternità gli fu riconosciuta. Classifiche di Pitchfork (pitchfork) Top 100 Albums of the 1970s 050: Tim Buckley Starsailor [Warner Bros; 1970] What exactly is the legacy of Starsailor? Beyond the fact that no other music sounds much like Tim Buckleys abstract expressionist, jazz-laced folk, Id be hard-pressed to name many artists before or since that are capable of his conceptual range, much less are in a position to be influenced by him. Starsailor is a masterpiece in every sense. It captured its maker at his freest and most willing to throw caution and sales to the wind, while simultaneously at his most creative and most capable of pulling off songs and moods that, from practically anyone else, would sound cartoonish, clumsy and confused. Buckleys sixth album (in four years) soars from the guttural, wildly romantic force of his singing and the exploratory nature of his band (led by guitarist Lee Underwood). If you need a legacy, search for it in the damaged nightmare-collage of the title track or the furious, desperately emotional performances throughout. As an artistic document, Starsailor stands virtually alone. --Dominique Leone Recensione di Alberto Battaglia (spaziorock) (4.75 stars) Senza mai segnare unepoca, senza mai diventare una bandiera delle grandi masse, Tim Buckley fu una cosa molto più semplice e decisamente più significativa: un cantante inarrivabile. La sua voce è uno strumento che si propaga diretto dallanima senza alcuna discontinuità, certe sue composizioni sono testamenti emotivi di una tale intensità romantica che lascia semplicemente meravigliati, la sua sperimentazione è fra le più ambiziose del cantautorato. Le capacità vocali di Tim Buckley assurgono al grado del puro virtuosismo, in alcune circostanze è possibile notare come le composizioni più sperimentali siano percorse da vertiginosi saliscendi vocali padroneggiati con la più controllata destrezza. Tuttavia lattenzione generale su questo artista fu solo postuma. Forse il motivo di questa incomprensione oggi ci interessa relativamente, ma quel che è certo è che durante lepoca dei Dylan, dei Donovan, dei Cohen, non meno di questi Tim Buckley avrebbe meritato di condividerne le glorie e il plauso. PRIMA DI STARSAILOR Buckley comincia la sua carriera registrando a diciannove anni il suo debutto dichiarando di ispirarsi a Bob Dylan, ma pur nell acerbo e giovane spirito del primo disco è difficile collocare i due cantautori su una linea di figliazione. Rispetto alle pretese di vate del primo Dylan, il nostro Buckley appare più come unanima delicata e solitaria. Gli domandarono in uno show televisivo se la sua intenzione fosse passare messaggi tramite la sua musica, poichè ne era anche lautore, la risposta fu: Messaggi? Io lo faccio per divertirmi!. Nel corso dei primi due album - specie in Goodbye And Hello del 1967 - il giovane cantautore raggiunge alcune delle vette più alte raggiungiungibili dal binomio chitarra-voce coniugato a tenere malinconie; restano emblematiche di quella fase delicata e bucolica Once I Was e Morning Glory. Gli arrangiamenti si fanno man mano più raffinati ed emerge una sempre più linfluenza Jazz nella stesura dei pezzi. I successivi dischi Happy Sad (1968) e Blue Afternoon (1969) aprono allartista scenari sempre più dilatati in cui virtuosismo e attitudini melodiche rompono i limiti della canzone tradizionale. Il brio incontenibile della jam session Gypsy Woman è la prova della caratura tecnica del cantante, lafflato di Sing A Song for You la prova della sua sublime ispirazione. Con lalbum Lorca, invece, Tim Buckley inizia a esplorare lo sperimentalismo psichedelico perdendo ogni coordinata con le convenzioni, vagando per libera associazione didee in un inedito registro che rimescola stili e produce una sorta di canto a stile libero. La sintesi di tutte queste esperienze troverà la compiutezza nel capolavoro Starsailor. STARSAILOR Astrale fin dal nome, Starsailor trova il suo filo conduttore nella sensazione di scoperta dellignoto e non certo nellomogeneità dello stile. Qui troviamo sia il jazz sia il folk, ma anche altri elementi meno esplorati in precedenza nella carriera del cantante. Il primo impatto infatti può sembrare così incorente da confondere e lasciare spaesati: le canzoni non hanno ritornelli, spaziano su temi armonicamente e tecnicamente lontani da una semplice canzone dautore. Il cantato cerca soluzioni spericolate, talvolta urlate, buffe, imprevedibili, rivoluzionando il bel canto con cui Buckley incantava nei primi dischi. Vi sono soprattutto le allucinazioni psichedeliche dietro questa serie di canzoni sbalorditive e disorientanti: spesso limpressione è quella di essersi perduti in una pura divagazione mentale. Il pezzo che apre il viaggio interstellare è Come Here Woman. Lintroduzione ricorda un po la psichedelia del primo disco dei Pink Floyd, con le chitarre che oscillano su note ondeggianti e spaziali. Il tema iniziale intona un canto con aria melodrammatica, e poi via, parte il ritmo e la canzone diventa una sorta di trip su ritmiche jazzanti. I Woke Up gioca con lo swing per trasformarlo in una sbruffonata immersa in echi e riverberi, come se fosse eseguito da un grammofono vagante per la galassia. Sulla stessa falsariga ascolteremo anche Jungle Fire, salvo poi soprenderci a metà esecuzione divenendo un baccanale ritmico popolato di voci lontane che attraversano le cuffie come automobili in passaggio mentre Buckley arriva a imitare il grido di battaglia di Tarzan. Arriva poi il funk-rock di Monterey, nella quale un riff ripetitivo costituisce la base per un ottovolante vocale popolato di ogni genere di effetto espressivo (urla scimmiesche, ululati, modulazioni dissennate), il risultato tribale che ne esce fuori potrebbe sbiancare James Brown. La sensazione di abbandono più allucinante viene sperimantata ascoltando la title-track, laddove la voce del cantante viene registrata più e più volte mentre emette lamenti su lamenti che compongono il suono delle profondità della mente. Lispirazione sembra provenire dal Requiem del compositore contemporaneo Gyorgy Ligeti, che presumibilmente Buckley aveva conosciuto nella colonna sonora di 2001: Odissea nello Spazio (1968): infatti sembra davvero una traduzione fedele di quelle atmosfere ultraterrene, evocate nella versione originale da coro e orchestra sinfonica. Lesito di questo brano suona altrettanto avanguardistico: un flusso spazzato dalla velocità, una nave in caduta libera e infinita. Starsailor contiene anche un pezz scritto tre anni prima, che allinterno del disco testimonia il punto darrivo formale ed emotivo della profusione romantica di Buckley: un autentico dono divino. Song to the Siren è un canto esalato ai confini del mondo, allinterno di una visone onirica nella quale la sirena che attende fatalmente rappresenta la ricerca di un dolce rifugio in cui lasciar affondare la nave e abbandonarsi. Suonano solo gli strumenti funzionali a questatmosfera: poche note arpeggiate su una chitarra dilatata dagli echi, i cori sirenici in lontananza e la romanza vocale del protagonista. La melodia e linterpretazione sono tuttuno le parole scritte dal poeta Larry Beckett, il tutto acquisisce la purezza formale dei cristalli. Long afloat on shipless oceans I did all my best to smile Til your singing eyes and fingers Drew me loving to your isle And you sang Sail to me, Sail to me Let me enfold you Here I am, Here I am Waiting to hold you La vera magia è del brano, però, abita nel calore che Tim Buckley riesce a dare ad ogni singola nota; non per niente la stessa melodia nelle mani di Pat Boone (che la registrò lanno prima) suona solo come una filastrocca insopportabile. Dire che Starsailor sia un punto darrivo o un apice forse limiterebbe a nove canzoni un contributo artistico che è fondamentale ben oltre la durata di un solo album. Tuttavia è attraverso questi pezzi che conosciamo il lato più innovativo (e per questo non certo il più facile) del cantante di Washington. Le acrobazie e le suggestioni qui soppiantano in gran parte la compiutezza degli idilli cantautorali per mettere lascoltatore a bordo di una nave senza rotta, ma che dirige la prua diritta verso il cielo. Review by Richie Unterberger (ALLMUSIC) (4.5 stars) After his beginnings as a gentle, melodic baroque folk-rocker, Buckley gradually evolved into a downright experimental singer/songwriter who explored both jazz and avant-garde territory. Starsailor is the culmination of his experimentation and alienated far more listeners than it exhilarated upon its release in 1970. Buckley had already begun to delve into jazz fusion on late-60s records like Happy Sad, and explored some fairly out acrobatic, quasi-operatic vocals on his final Elektra LP, Lorca. With former Mother of Invention Bunk Gardner augmenting Buckleys group on sax and alto flute, Buckley applies vocal gymnastics to a set of material thats as avant-garde in its songwriting as its execution. At his most anguished (which is often on this album), he sounds as if his liver is being torn out -- slowly. Almost as if to prove he can still deliver a mellow buzz, he throws in a couple of pleasant jazz-pop cuts, including the odd, jaunty French tune Moulin Rouge. Surrealistic lyrics, heavy on landscape imagery like rivers, skies, suns, and jungle fires, top off a record that isnt for everybody, or even for every Buckley fan, but endures as one of the most uncompromising statements ever made by a singer/songwriter. Biografia di Piero Scaruffi Tim Buckley e` il cantante piu` geniale della storia della musica rock, e forse dellintera storia della musica. Tim Buckley fu il primo dei moderni singer-songwriter (cantautori), il primo ad alterare completamente il modello inventato da Bob Dylan, e rimane uno dei piu` grandi di tutti i tempi; ma definirlo cantautore e` limitativo. Buckley era poco interessato ai testi. Larte di Buckley era tutta musicale, ed era unarte datmosfera. Buckley usava tecniche straordinarie sia di canto sia di arrangiamento per scolpire atmosfere quasi cosmiche. Con la psichedelia la musica aveva cominciato un viaggio verso mondi diversi da quello terreno di cui si era sempre occupata la musica folk. Buckley continuo` quel viaggio fino alla fine, scoprendo mondi sempre piu` lontani e sempre piu` insoliti. Il percorso esteriore di questo viaggiatore delle stelle (come si defini` lui stesso) era in parallelo un percorso interiore, alla ricerca di se stesso. La sua musica fu sempre una musica di scavo psicologico, anche quando si riallacciava alla canzone dattualita` del Greenwich Movement. Purtroppo quel percorso si concluse in un cimitero. Buckley fu in gran parte estraneo ai subbugli delle due capitali della musica giovanile, distrattamente partecipe della protesta umanitaria di New York e vagamente imparentato con gli hippies di San Francisco. Buckley era certamente figlio della stessa era (tanto che di droghe morira`), ma la sua fu sempre una carriera molto isolata. Il sound era il cuore della sua musica. E per ottenere quel sound Buckley navigo` lo spazio del jazz e delle tradizioni orientali, oltre a quello del folk e del rock. Come Captain Beefheart e Frank Zappa, anche Buckley apparteneva a un concetto alternativo di musica, un concetto che a Los Angeles non si espresse pero` mai sotto forma di movimento politico. Buckley esibi` fin dallinizio una purezza artistica piutosto rara nel mondo della musica rock Lelemento piu` originale dei suoi dischi era il canto, inizialmente ispirato da Fred Neil, che Buckley continuo` a raffinare per anni. Le sue conquiste in questo campo sono degne della musica davanguardia e certamente del jazz. Il suo canto era davvero un altro strumento, piu` simile alla tromba e al sassofono del jazz che al baritono della musica pop. Come ebbe a dire il suo collaboratore Lee Underwood, Buckley fu per il canto cio` che Hendrix fu per la chitarra. Le acrobazie del virtuoso erano soltanto una parte della storia. Gli esperimenti sul canto servivano a Buckley per comporre una narrazione altamente psicologica, fatta di allucinazioni e voli, dialoghi e silenzi, confessioni e deliri. Il suo gioco intricatissimo di gemiti, urla, guaiti, vocali estatiche, sussurri nevrotici, sussulti isterici, quel modo di quasi piangere cantando costituivano un vocabolario e una grammatica di grande effetto. Buckley cominciava le canzoni imbastendo un racconto, soppesando le parole, ma poi le parole perdevano significato e diventano semplice suono, e infine puro delirio. E, man mano che perdevano la loro qualita` terrena, diventavano anche la chiave per accedere a un oltre, a unaltra dimensione, una dimensione di puro spirito. Il canto non era che uno degli strumenti, comunque. Buckley arrivo` a impiegare un ensemble da camera (percussioni, tastiere, fiati) per i capolavori della maturita`. Nella sua arte vocale confluivano il melisma dello spirituale, lo shout del gospel e le austere tecniche tibetane (forse la proposta piu` originale di fusione fra occidente e oriente), ma Buckley rielaboro` le sue fonti fino a pervenire a uno stile unico e personale. Il ritmo era altrettanto duttile, di volta in volta una pulsazione ossessiva che percuote la mente, oppure un lieve trepestio che guida il cuore nei suoi titanici sforzi, oppure un serrato jazzato che vibra senza pause colorando di una strana frenesia la fantasia sospesa ad altezze vertiginose, oppure ancora un gentile vento soul che si distende in dolci e impalpabili sottofondi naturali. Dalla fusione fra tutti questi elementi rivoluzionari avevano origine canzoni che sono poesie malinconiche ambientate in un mondo devastato da una follia tanto fievole quanto immane. Piu` che narrare Buckley si lanciava in deliri, in flussi di coscienza, in associazioni libere. La narrazione si spegne e si riattizza, sinfiamma ed esplode, si placa e collassa, sinalbera epica e saffloscia moribonda. La sensazione e` davvero quella di un viaggio fra le stelle, ma e` anche quella di una seduta psicanalitica, di un viaggio dentro la coscienza squilibrata di un caso incurabile. La musica fotografa una psiche che si dibatte spasmodicamente in un torbido impasto di cupe emozioni primordiali, in bilico sul baratro del suicidio, e ogni tanto riaffiora, ancora dolorosamente viva, palpitante. La colonna sonora di questo tormento interiore era uno splendido caos musicale. Buckley apri` una nuova era per il canto dautore, anche se allepoca nessuno se ne accorse, neppure lui che si professo` sempre figlio del rhythm and blues. Da un lato le sue acrobazie canore coniarono unarte onomatopeica modulata allinfinito. Dallaltro il suo genio naive architetto` arrangiamenti sempre piu` complessi e colti, esplorando rabdomanticamente filoni tanto diversi quali il free-jazz, la linea genealogica blues- spiritual- gospel- soul, la musica latino-americana, il primitivismo africano. I capolavori di Buckley sono brani estesi che hanno poco in comune con la canzone. Lo svolgimento e` libero e non ce` ritornello. La melodia viene smembrata e distorta, allungata in una struttura lenta e strisciante che e` lequivalente di un sogno. Lorca e Gypsy Woman sono brani senza fine in cui Buckley spalanca le porte della percezione e irrompe in un vuoto siderale. Il passo epico dei primi dischi diventa via via sempre piu` astratto. Il tono tragico, in sordina, rimarra` sempre lo stesso, ma si tingera` di colori sempre piu` grigi, sempre piu` depressi. Lincedere, a sua volta, diventera` sempre piu` convulso, istericamente conteso fra pause in cui tratteneva il fiato e rovesci febbrili di emozioni, come se il cantante fosse scosso da improvvise e atroci illuminazioni di un tremendo segreto o precipitasse a capofitto in abissali inferni esistenziali. La musica di Buckley inseguiva unidea, non importa dove questa si spingesse. Spesso si limitava a precipitare, senza vedere il fondo, in un buio di pupille sbarrate e di mani protese, in unorgia eterna di grida disperate e di lamenti raccapriccianti. Buckley vagava in quello spazio di infinito nulla alla ricerca forse, di unidea che fosse anche di salvezza. La sua carriera fu un lungo incubo privato. Buckley passo` la vita a inseguire i suoi fantasmi interiori in labirinti di suoni e per itinerari cosmici, ma si era perso fin dallinizio, e cio` che fa grande la sua arte e` che non aveva speranza di ritrovarsi. Quello di Buckley fu un incubo durato una vita, lincubo di un naufrago alla deriva, che verra` alla fine ucciso dallorizzonte con cui discorreva giorno e notte. Questo approccio onirico, visionario, allucinato alla musica era certamente imparentato con lacid-rock californiano, scaturiva da una sottocultura della droga intesa come liberazione e catarsi; ma a quellapproccio propenso a sondare gli abissi della mente, Buckley aggiunse un elemento di introversione e introspezione che procedeva quasi in direzione opposta alle celebrazioni di estasi pubblica dellacid-rock. Cio` non toglie che, assillato da un profondo malessere esistenziale, Buckley fosse un personaggio piu` universale di quanto volesse essere, ma per puro caso: Buckley era un menestrello paranoico del disagio esistenziale della sua generazione, un perdente emarginato nella societa` dei consumi, un missionario dellanticonformismo intellettuale come lo erano stati i beatnik, succube e non protagonista della vita. Buckley esprimeva linsofferenza per i valori dellamerican way of life nello stesso modo in cui lavevano espressa i poeti beat e i pittori astratti. Tim Buckley nacque a Washington nel 1947, crebbe a New York e si trasferi` ancora bambino in California. Si formo` nei locali folk di Los Angeles, mentre frequentava la high school insieme con lapprendista poeta Larry Beckett e con lapprendista bassista Jim Fielder. A quindici anni suonava il banjo in un complesso folk, ma ammirava soprattutto la potenza vocale dei cantanti blues, la creativita` del free-jazz e il potere espressivo di tanta world-music. Buckley, Beckett e Fielder formarono prima i Bohemians e poi gli Harlquin 3. Esercitandosi a controllare il respiro e le corde vocali per ottenere la massima duttilita` del canto (suo modello la grande Yma Sumac), Buckley scopri` la sua vera vocazione. Abbandonati gli studi e la moglie (frutto di una scappata dellultimo anno di high school), Buckley prese a esibirsi al Troubadour, dove fece conoscenza con il chitarrista Lee Underwood. Herb Cohen, il manager di Frank Zappa, lo scoperse che aveva appena diciotto anni, ma era gia` un fenomeno, sia per la prodigiosa estensione vocale, sia per i diversi stili musicali che amalgamava nelle sue canzoni. La sua personalita` timida e sensibile, dolce e malinconica, schiva e modesta non si addiceva allambiente della musica rock. Buckley rimase sempre un ragazzo solitario. Scontava pero` lisolamento con una massiccia dipendenza dalle droghe pesanti. Buckley registro` il primo album, Tim Buckley (Elektra, 1966), nellarco di tre giorni nel 1966 mentre nasceva suo figlio Jeff Buckley, Circondato da uno stuolo di prestigiosi sessionmen reclutati da Cohen (Billy Mundi alla batteria, Van Dyke Parks alle tastiere, Jack Nitzsche per gli arrangiamenti darchi, oltre a Underwood e Fielder), Buckley non oso` piu` di tanto. Le canzoni sono tipiche dello stile dellepoca, a meta` strada fra Bob Dylan e la musica leggera. Lalbum si distingue dai tanti dellepoca per un tono medio piu` fatalista e rassegnato. La novita` di maggior rilievo e` forse larrangiamento jazzato, e talvolta orchestrale. Buckley ha 19 anni, e` incerto e titubante, soprattutto al cospetto dei piu` smaliziati collaboratori. Gli riescono bene tenui bozzetti adolescenziali come Valentine Melody e Song Of The Magician, ma la voce non ha modo di librarsi come Song Slowly Song lascia intuire. Il secondo album, Goodbye And Hello (Elektra, 1967), fu ispirato da Blonde On Blonde di Dylan, che Buckley, Fielder e Underwood passarono mesi ad ascoltare e imitare. Ambizioso e pretenzioso come lalbum di Dylan, lalbum di Buckley non riesce a trovare lo stesso magico equilibrio, ma costituisce comunque un gigantesco balzo in avanti per lautore. Buckley, in particolare, riesce a meglio amalgamare gli strumneti (compresi percussioni e tastiere). Forse anche per linfluenza del produttore di turno, che volle dare allalbum un sound rinascimentale, Buckley ricorre a una strumentazione che ha del sontuoso per un folksinger. Il talento versatile ed eccentrico di Buckley ha comunque modo di emergere pienamente in canzoni toccanti che oscillano fra il lirismo favolistico alla Leonard Cohen (ante litteram), le pose dylaniane di je accuse, e uno spleen di fragile bellezza. Nellinsieme esse danno la sensazione di una vasta, confusa e depressa umanita` in cammino verso un crudele destino. Unatmosfera magica emana da Carnival Song, ipnotico e sinistro ritornello con un sottofondo di organetto di strada e di rumori di circo, Piu grintosa Pleasant Street, avvolta in un alone di religiosita`, con impennate di fervente disperazione che ricordano i gospel, e toni lugubri da messa gregoriana resi da un harmonium solenne, con la voce che sinabissa sempre piu` giu, giu, giu ... in abissi di depressione per rialzarsi improvvisamente in uno shout demoniaco. Tutta spettrale invece Hallucinations, con contrappunti medievaleggianti, classicheggianti e orientaleggianti, il cui canto purissimo, contornato di suoni celestiali, si presenta come un gorgo che si stringe piano piano attorno alla tremula immagine di una visione e infine la inghiotte in una bolla dacqua. Latmosfera esplode nel soul solenne e tribale di I Never Asked To Be A Mountain, una sarabanda di chitarra e percussioni, un ritmo incalzante che non concede tregua, e una declamazione alta, potente, psichedelica. Knight Errand e` una miniatura trobadorica per pianoforte e pianola, una perfetta evocazione di cavaliere che insegue la sua belle dame sans merci. Il vortice piu` tenero e` quello di Phantasmagoria In Two, la piu` bella canzone damore di tutti i tempi, sospesa in un ritornello lento e anemico che si spegne a poco a poco in una malinconia eterna e struggente; e` un delirio di solitudine e paura che trascende il pretesto cortese e sinabissa in una vertigine apocalittica di tenebre, un magone di vuoto che comprime il petto e impedisce allurlo di esplodere. Violini tzigani, flauti funerei, clavicembali barocchi, chitarre folk vengono impiegati per costruire il climax apocalittico di Goodbye And Hello, il brano guida che, nel suo solenne e marziale incedere fra visioni medievali e attraverso le tragedie dellumanita` trasforma gli orrori dellAmerika negli sketch di un circo. Il canto tenero ed emotivo di Buckley e` lesatto opposto, dal punto di vista emotivo, del Dylan severo e monotono delle canzoni apocalittiche, e rappresenta lalternativa metafisica al je accuse della canzone di protesta. Questo disco e` una raccolta di poesie sullindividuo che si presenta inerme al cospetto della pazzia del mondo. Buckley rivelo` la sua immensa carica emotiva con Happy Sad (Elektra, 1968). Da qui Buckley comincia a essere se stesso, e infatti scrive le liriche delle sue canzoni invece che affidarsi a Beckett. Lalbum comprende sei lunghi brani. Una strumentazione piu` scarna (che conserva Underwood, e ha acquistato il vibrafonista jazz Dave Friedman e il contrabbassista Jim Miller), si limita a seguire in sordina i voli della voce, che e` finalmente protagonista assoluta. Al tempo stesso quel combo di vibrafono, contrabbasso, congas e chitarra (una formazione che e` lequivalente folk-rock del Modern Jazz Quartet), improvvisa un sottofondo liquido ed etereo, caratterizzato da un intenso cromatismo acustico, che costituisce il naturale complemento al canto ed e` determinante per creare quel clima rarefatto e vellutato. Unaltra importante novita` consiste nel fatto che da questo disco Buckley e` completamente padrone dei suoi brani, non avendo piu` al suo servizio il paroliere di fiducia. Non a caso il disco segna proprio il passaggio dal canto parlante, utilizzato sia per guidare la melodia sia per recitare i versi del testo, al canto inteso come suono di uno degli strumenti dellensemble, e il melisma assurge a procedimento principe del canto di Buckley, un melisma dilatato allinfinito, il che rivela pienamente la voce nella sua estensione non solo tonale ma anche emozionale. Come disse lui stesso, lunico momento creativo e` il caos. In osservanza a questo principio si fanno largo un concetto jazzistico dellimprovvisazione e un concetto mistico della simbiosi fra sviluppo musicale ed emotivita` psichica. La scoperta dellimprovvisazione (dumore decisamente cool) e il richiamo primitivista delle danze tribali rappresentano le forme musicali del caos per eccellenza, e ad esse si sposa la sua arte canora. Latteggiamento di fondo e` quello dellabbandono solipsistico: Buckley, pittore della mente e della natura, ricorda e descrive, pensa e parla, solo nellimmane anfiteatro della vita. Lascesi laica di Buckley attinge a forze segrete della psiche e non a caso si sfoga soprattutto nei registri del gospel e rinuncia agli arrangiamenti tradizionali. Di qui laspetto di musica da camera per piccolo ensemble, una delle piu` ardue e concetrate del secolo, quasi weberniana nella sua grave essenzialita. Strange Feeling, dimessa e tintinnante, reminescente del primo Miles Davis, e` un acquerello di spleen intenso in cui le chitarre danzano asincrone e il vibrafono ondeggia swingante. Buzzing Fly, piu` maschia e incalzante, e` febbre funk/blues/jazz. Sembra di guardare le Nymphees di Monet quando si ascolta la stasi maestosa di Love At Room 109 At The Islander, una lunga meditazione o confabulazione con loceano, pervasa di quiete e di una disperazione sottovoce che si annulla leopardianamente in quella quiete, come alla ricerca di un sonno eterno fra le onde che vanno e vengono senza fine, in quelleterno ritorno di eco perdute. Nostalgia, dolore, scetticismo, si consumano nella pallida bellezza dellinfinito, e rimane soltanto lestasi muta dellagonia, Dream Letter nel nulla. Gypsy Woman, il capolavoro, e` unemozione dirompente, un caleidoscopio visionario, uneccitazione convulsa, un ciclo di orgasmi, un delirio per accelerazioni incontenibili e rallentamenti improvvisi che emulano limpennarsi e lestinguersi del fuoco. Preparato da percussioni tribali, questo rituale erotico comincia in sordina e piano piano si eleva in unorgia di guaiti, incitamenti e ruggiti, in unesaltazione incontrollata dellepilessi irrazionale della follia e della devastazione allucinogena della droga; e la voce riacquista la sua negritudine, con accenti di preghiera, di supplica, di intensa sofferenza, di desiderio ardente, di lascivia invasata. La danza incalza selvaggia, liberando gli istinti piu` bradi e andando a lambire i rituali di magia nera. Happy/Sad si caratterizza nel complesso per la trasfigurazione del folk, per lemancipazione del canto dal ritmo e dallarrangiamento, per la contaminazione con il jazz, e per la liberazione dalle strutture della canzone. E` il flusso ininterrotto di note del canto a dettare landamento del brano, a tenerlo unito e a conferirgli una personalita. Al confronto di Happy/Sad, il successivo Blue Afternoon (Straight, 1969) e` meno album di gruppo e piu` album del cantante. La batteria prende il posto delle congas e lensemble e` piu` disciplinato (forse anche perche Buckley fece anche da produttore). Il disco continua comunque la messa a punto di un folk-jazz comunicativo, raffinato e cesellato fino allultima nota. La forma canzone (il ritornello, il ritmo, i tre minuti, eccetera) non esiste piu`, ma al suo posto subentra una forma canzone dautore che la rinnova senza indulgere in eccessivi sperimentalismi: il canto fluisce libero su un accompagnamento casuale fatto di punteggiature ritmiche e tocchi colorati. Le canzoni sono solitarie confessioni autobiografiche, sospese fra onirismo freudiano e trance psichedelica. Lo spettro di umori e` infinito, dalla cupa depressione di Chase The Blues Away alla stasi lisergica I Must Have Been Blind, fino alle forme piu` banali della canzone soul (Happy Time) o jazz (So Lonely). Su tutto la voce di Buckley distende un velo di rassegnata, inerme tristezza. Quando (The River) latmosfera si carica di toni marziali, lepica e la trascendenza si fondono con il privato, e lagonia di Buckley sgorga radiosa e universale su un tappeto strumentale lento e pulsante. E a tratti (Cafe) la musica sembra fermarsi del tutto, e unabnorme dilatazione del tempo gli consente di trasformare un secondo fugace in un affresco sterminato. The Train e` un rhythm and blues visionario in cui funambolismi vocali e sincopi tribalistiche obbediscono invece a un nervosismo fremente che le sospinge in una jam trascinante. Le atmosfere di Blue Afternoon sono profondamente segnate dalla droga. Non solo le lunghe vocali di Buckley riflettono le dilatazioni della coscienza tipiche dellLSD, ma anche il sottofondo musicale segue spesso le cadenze ipnotiche e scheletriche del trip. Lo stile vocale di Buckley ha ormai raggiunto la perfezione tecnica e puo permettersi qualunque suono: secoli di tradizione vocale nera sono stati sintetizzati in una perfetta macchina di shout, cry, acuti, scat, rap, whoop, fade-out, e ogni sorta di saliscendi spericolati su e giu per le scale tonali, con duttilita` praticamente illimitata. Con le evoluzioni del canto Buckley costruisce le atmosfere drammatiche delle sue storie come nessun altro ha mai potuto fare. Dal folk-jazz si passa al free-folk con Lorca (Elektra, febbraio 1970, ma in realta` registrato prima di Blue Afternoon, che era stato concepito come lalbum commerciale da far precedere allalbum sperimentale). Happy Sad sta a unode al silenzio come Lorca sta a unode al vuoto. La differenza e` quella fra lumano e il metafisico. Se gli album precedenti avevano comunque subito linfluenza dei collaboratori e/o del pubblico, Lorca e` un album scritto per se stesso. Lasciati liberi Friedman e Miller, la strumentazione si arricchisce nella sezione delle tastiere. Lensemble si compone ora di congas, chitarra, piano elettrico. Il sound e` scheletrico. Lassenza di un ritmo gli conferisce staticita` e imponenza, a immagine e somiglianza delleternita. Lintimismo si muta in denso tenebroso onirismo, il flusso/espansione di coscienza sonda cupi metafisici abissi. I brani, lunghi e tesi, labirinti sonori di infima depressione, sono percorsi da brividi stremanti, frutto di una tristezza che rovista baratri senza fondo; Buckley e` alla deriva in un coma cosciente. E` un pianto assoluto, senza ritorno. Il primo brano, Lorca, e` una vertigine di dieci minuti (suonato in 5/4) che si apre in una cupa atmosfera di suspence: un continuo, ossessivo lamento di organo e un acceso pianismo swing fanno da sottofondo a un flusso funereo di vocali espanse; un decrescendo che sfuma dallasfissiante tormento iniziale degradando per traumi successivi, mano a mano piu` sommessi, fino al bisbiglio stremato, alla prodigiosa stanchezza di quellultima sbiadita nota. Lorca e` un poema drammatico, unode alla paura, allangoscia, alla morte; una messa nera da cui emana un atroce senso di impotenza; il grido impercettibile di un fantasma murato per leternita` dentro una stella fredda. Buckley sfoga unangoscia piu` corporale in due lunghi deliri, declamati in sordina e soffertamente blues, avulsi dallatmosfera metafisica del brano-chiave, scaturiti piuttosto da una lancinante tensione nervosa. Driftin, un lungo spiritual al ralenti, con la voce alla deriva in uno sciacquio di chitarre pigre, tocchi e tocchi che vanno e vengono combinandosi e sciogliendosi senza fine su unimmaginaria spiaggia della mente, e` musica del respiro; le parole scorrono lentamente, si frangono, affondano dentro mulinelli di malinconia senza fondo. Su un tema analogo il nichilismo gelido di Anonymous Proposition, frammenti stridenti di un flusso di coscienza in dissoluzione, scivola fra ispide figure di chitarra e di basso, rampicanti sul fusto esile e contorto del canto: e` forse il brano piu` dilatato di sempre. Nobody Walking ritorna allimpeto travolgente di Gypsy Woman, sulle note guizzanti del piano elettrico e sul fitto tappeto percussivo delle congas. Alla fine Buckley ritrova le proprie voci interiori, e nella bolgia ritmica di questo brano le puo` spiegare al vento, lasciandosi trascinare in una danza primitiva e purificatrice. A parte questo episodio atipico, lalbum mostra un Buckley piu` pacato ed intimista, meno aggressivo e meno naturalista. Sono scomparse sia le grandi cavalcate sul suono sia gli splendidi acquerelli in riva al mare. La musica fluttua in spazi immensi, senza confini e senza forma: una nebulosa di note che si rivolge senza posa in un vuoto infinito. La trilogia del folk-jazz e` compiuta. In questo periodo Buckley ha sviluppato due tipi di brano: quello onirico (il tappeto di suoni dimessi trapunto di vocali espanse) e quello demente (la polluzione di ritmi per una carica di guizzi e impennate vocali). Starsailor (Straight, novembre 1970), da molti considerato il suo capolavoro e uno dei massimi dischi di tutti i tempi, e` il punto darrivo della folk-jazz fusion di Tim Buckley. E` al tempo stesso il suo album piu` onirico, visionario, psicologico, astratto, psichedelico, pittorico e jazz. Buckley e` ormai dotato di una perfetta padronanza di tutte le tonalita` della voce e mette a frutto la maturita` raggiunta. La strumentazione comprende la sezione di fiati delle Mothers of Invention, piu` basso, batteria e chitarra; mentre per i testi si riannoda la collaborazione con il poeta Beckett. Tutto contribuisce a dare la sensazione dellhappening definitivo. Gli ingredienti principali del disco sono il jazz e la psichedelia, che gli conferiscono una carica di energia spasmodica, il coraggio necessario per compiere una traversata cosmica che e` in realta` una traversata della mente. I brani, piu` concisi del solito, sono melodie dense e sincopate; la riscoperta del ritmo accelera i tempi del delirio e dellincubo; fasci di suono in rapido movimento si accoppiano alle eresie e agli oltraggi di una voce che sembra aver venduto lanima al demonio. Il sound spettrale di Buckley cade vittima di unesasperazione terrena, vitale, erotica. Fra gli esercizi piu` sperimentali, in tema di abuso della voce e di arrangiamenti fantasiosi (con fiati sbilenchi e legni scapigliati) si contano alcuni incalzanti e swinganti rhythm and blues: Come Here Woman, Monterey e soprattutto Jungle Fire, arcigna e trascinante, stravolta in incubo psicanalitico da un gioco di voci sovrapposte. Piu che canzoni sono pretesti per acrobazie canore e tribalismi incendiari. Alle atmosfere iper-dilatate dei dischi precedenti riconducono I Woke Up, avvolta in note libere dei fiati e percussioni casuali, e Song To The Siren (originally written in 1967 and recorded in 1968), per modulazioni mantriche, commossa struggente visione lisergica con leco di una voce lontana, splendente, inafferrabile, orizzonte perduto. A parte si situano due bizzarre fantasie come Mouline Rouge, una serenata bohemien, e The Healing Festival, alchimia spaventosa di fiati ed effetti sonori. Starsailor, il brano cardine, sui temi cosmici a lui piu` cari, e` una lunga sequenza di canto, un succedersi ininterrotto di vocali modulate e distorte lungo piu` linee a loro volta intrecciate e sovrapposte, che danno la sensazione di vuoto e di paura, di un viso dilaniato dallurlo che rotea in bilico sullabisso sterminato. Esplorazione delle stelle piu` buie e piu` lontane della mente, con lossessione sempre presente del pericolo di non poter piu` ritornare; sabba di streghe inter-planetarie, supremo tentativo di raggiungere quellestasi disperata vagheggiata nei grandi deliri della maturita (Gypsy Woman e Lorca), Starsailor completa la allucinata e allucinante parabola di Tim Buckley. Star Sailor e` anche un album discontinuo ed eclettico, che segna un netto ripensamento rispetto alle strutture aperte di Happy Sad e di Lorca; e purtroppo da questo riflusso verso la forma-canzone avra` origine la precoce vecchiaia di Buckley. La trasformazione stilistica e` tanto piu` impressionante se si pensa che questi tre album vennero registrati nellarco di poco piu` di un mese. La droga lo stava distruggendo, e non bastarono due anni di riposo a disintossicarlo del tutto (in quel periodo Buckley lavoro` come chaffeur). A cio` si aggiunga che la sua depressione fu acuita dalla incomprensione generale. Greetings From L.A. (Warner Bros, 1972), praticamente un concept erotico, costituisce un voltafaccia improvviso e inspiegabile nella carriera di Buckley. Alle atmosfere rarefatte e frammentate dei dischi precedenti si sostituisce un funky-soul sanguigno e vibrante, lintrospezione malata e nevrotica lascia il posto a una grinta e una effervescenza da urlatore nero. Gli stessi virtuosismi vocali paiono nel nuovo contesto grossolani gesti di istrionismo. Ancor piu` sorprendente il cambiamento di tema: se i dischi precedenti erano dominati dalla droga, questo e` tutto allinsegna dell erotismo, e` un gigantesco incubo sessuale, che si snoda convulso e veemente senza ritegno, dalla percussivita` selvaggia di Get On Top, dove le piu` sfrenate danze afrodisiache delle tribu primitive si coniugano ad un orgasmo maniacale da alienazione, al canto lascivo e scomposto di Devil Eyes, in un incalzare frastornante di ritmi sudamericani e sincopi jazz, fino al blues accorato di Hong Kong Bar, accompagnato da chitarra acustica e battito di mani. Buckley incise poi altri due dischi mediocri e scolastici di ottuso soul-rock, con tanto di coro e sezione darchi. Sefronia (Discreet, 1973) contiene ben poco degno di nota (Because Of You, Honey Man) e Look At The Fool (Discreet, 1974) fa il verso al soul orchestrale di Al Green (Look At The Fool, Who Could Deny You). Tim Buckley mori` per overdose nellestate del 1975 a Santa Monica. Aveva 28 anni. Lasciava un figlio che non laveva praticamente conosciuto, Jeff Buckley. La critica rock non lo aveva apprezzato per nulla o lo aveva appena citato. La Encyclopedia, la Storia e lAlbum Guide di Rolling Stone non gli dedicarono una sola riga, la Penguin Encyclopedia gli dedico` qualche riga distratta. Starsailor era stato recensito a pieni voti soltanto dalla rivista jazz Downbeat e (anni dopo) in Europa. Postumi vedranno la luce diverse registrazioni di concerti dal vivo. Da evitare le antologie, che privilegiano quasi sempre gli album piu` banali.
Posted on: Sun, 03 Nov 2013 19:14:53 +0000

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