Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua - TopicsExpress



          

Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione Sulla (dis)continuità Marx-Hegel Riccardo Bellofiore Abstract: This article will deal in two steps with the Marx–Hegel (dis)connection in Capital. First, I’ll present a survey of what I take to be the most relevant positions about the role of dialectics in Marx. Second, after reviewing Marx’s criticisms of Hegel, I’ll consider the debate within the International Symposium on Marxian Theory. Third, I will argue that it is exactly Hegel’s idealism which made the Stuttgart philosopher crucial for the understanding of the capital relation. Here, I will refer to the ‘Hegelian’ Colletti of the late 1960s-early 1970s, to Backhaus’ dialectic of the form of value, and to Rubin’s interpretation of abstract labour as a process. At this point, I will provide my reading of Marx’s movement from commodity to money, and then to capital, in the first 5 chapters of Capital. Marx is moving on following a dual path. The first path reconstructs the ‘circularity’ of Capital as Subject, as an Automatic Fetish: it is here that Hegel’s idealistic method of ‘positing the presupposition’ served Marx well. The second path leads him to dig into the ‘constitution’ of the capital-relation, and therefore into the ‘linear’ exploitation of workers and class-struggle in production. Here we meet Marx’s radical break from Hegel, and understand the materialist foundation of the critique of political economy. Introduzione In questo articolo mi interrogherò sul rapporto di continuità/discontinuità tra Marx e Hegel. Inizierò con una rassegna personale idiosincratica delle posizioni più importanti che hanno influenzato la mia posizione. A seguire, prima ricorderò le critiche principali di Marx a Hegel, poi alcuni momenti del vivace dibattito all’interno dell’International Symposium on Marxian Theory (ISMT). Sosterrò quindi che è proprio l’idealismo assoluto di Hegel che ha reso il filosofo di Stoccarda così importante per la comprensione del ‘rapporto di capitale’. Lo farò ricordando la lettura, a suo modo hegeliana, che Colletti dà del valore di Marx a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Userò pure il rimando a Backhaus e alla sua dialettica della forma di valore, e a Rubin e alla sua interpretazione del lavoro astratto, autori che aiutano ad approfondire il discorso di Colletti in una prospettiva a mio parere convergente. Presenterò a questo punto la mia posizione personale. Il movimento che va dalla merce al denaro, e poi al capitale, deve essere inteso come un doppio movimento. Il primo movimento, più evidente ne Il Capitale, ricostruisce la ‘circolarità’ del Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto. È qui che per Marx è stato massimamente utile il metodo ‘idealistico’ di Hegel e il circolo del ‘presupposto-posto’. Il secondo movimento, sotterraneo ne Il Capitale, è un movimento ‘lineare’, e fonda tutto il discorso marxiano nella lotta di classe nella produzione come momento ‘dominante’ della totalità capitalistica. È qui che incontriamo la rottura radicale di Marx con Hegel, e comprendiamo la fondazione materialistica della critica dell’economia politica. Devo avvisare che nella comprensione di Marx un ostacolo non da poco è costituito dal fatto che questo autore sia stato lost in translation, perso nella ‘traduzione’. Ciò è vero alla lettera: in qualsiasi lingua si incontrano problemi, ma – come dimostrerò – la situazione è particolarmente grave in inglese, dunque nella lingua veicolo della discussione internazionale. Senza un controllo attento dell’originale tedesco abbiamo spesso, nel dibattito anglosassone, in particolare tra gli economisti marxisti di quella lingua, un dibattito sul nulla.[1] È vero però anche, come dirò, per quel che riguarda la lettura concettuale di Marx: che questa sia di taglio hegeliano, ricardiano (come è di fatto anche per gli economisti marxisti che si vogliono critici del neoricardismo), o postkeynesiano (inclusa la teoria del circuito monetario). La questione che tratto è tutto meno che filologica, e spinge a una rilettura di Marx come complementare a una ricostruzione della critica dell’economia politica oggi, e a una ripresa del nesso teoria-pratica. Il tema mi obbliga a entrare su un terreno filosofico che non mi è proprio: debbo quindi confidare nella pazienza del lettore, che saprà raddrizzare ciò che avrò espresso in modo incerto e a tentoni. Tre modi di guardare alla dialettica Negli ultimi decenni il rapporto tra Hegel e Marx è stato messo nuovamente al centro del dibattito. È emersa una nuova interpretazione per cui la dialettica sistematica, e per alcuni persino la logica della contraddizione, assume un ruolo fondamentale nella critica dell’economia politica marxiana. A dir la verità, è stato Marx stesso a sottolineare l’importanza della sua seconda lettura della Logica di Hegel poco prima di scrivere i Grundrisse. Un autore come Helmut Reichelt (1995) sostiene che Marx avrebbe ‘nascosto’ il suo metodo dialettico ad ogni nuovo manoscritto dopo il 1857-1858. Per lui, ma non solo per lui, l’autocomprensione metodologica di Marx rimane indietro rispetto a quello che è il suo contributo positivo. Può essere utile tornare ad alcune delle posizioni in questo dibattito.[2] Cominciamo dal significato del termine ‘critica’ nella critica dell’economia politica di Marx. Alfred Schmidt ha sottolineato come per Marx non ci siano fatti sociali che possano di per sé essere studiati nei confini disciplinari tradizionali. Il vero oggetto della conoscenza è il fenomeno sociale nella sua interezza, e dunque il capitale come totalità. Ciò non deve essere inteso come se le condizioni empiriche della produzione fossero gli oggetti immediati di conoscenza. Marx invece procede con una critica delle categorie e delle teorie borghesi. Tenendosi, per così dire, vicino alle premesse teoriche dell’economia borghese, Marx rivela le contraddizioni tra queste premesse e la realtà sociale (nel pensiero), e dunque anche le contraddizioni oggettive con la medesima realtà sociale. Marx non fa della dialettica un’ontologia in senso forte, e non annulla l’oggetto reale nel processo ideale di conoscenza, come farebbe invece Hegel (Schmidt 1968, pp. 95-96). La teoria e il suo contenuto oggettivo sono intrecciati, ma non sono la stessa cosa. Questo è il motivo per cui il metodo della ricerca è formalmente diverso dal metodo di esposizione. Il metodo della ricerca, spiega Schmidt, ha a che fare con un materiale preso dalla storia, dall’economia, dalla sociologia, dalla statistica etc., attraverso l’analisi dell’intelletto. Il metodo di esposizione invece deve dare unità concreta a questi dati isolati. L’esposizione [Darstellung] procede dall’essere immediato all’essenza mediata, che è il fondamento dell’essere. La realtà essenziale deve ‘apparire’ [erscheinen], ma l’essenza è distinta dalla sua manifestazione fenomenica. Anche se persino le categorie più astratte hanno una determinata dimensione storica, il percorso logico è comunque diverso – e per certi versi è persino opposto – da quello storico. Questi punti sono approfonditi in Storia e struttura (Schmidt 1971): “Per Hegel, come per Marx, la realtà è processo: totalità ‘negativa’. Quest’ultima si presenta nell’hegelismo come sistema della ragione, vale a dire come ontologia chiusa rispetto alla quale la storia umana degrada a derivato, a mero caso di applicazione. Marx, invece, pone l’accento sull’irriducibilità e apertura del processo storico, che non si fa ingabbiare in una logica speculativa alla quale ogni essere obbedirebbe in eterno. La ‘negatività’ diviene qualcosa di limitato nel tempo e la ‘totalità’ si trasforma nell’insieme dei moderni rapporti di produzione (p. 45). Vi è un primato cognitivo del momento logico su quello storico, senza la comprensione teorica del capitale non si saprebbe dove cercare i presupposti storici della sua nascita: ma ciò non fa delle categorie il fondamento esistenziale della realtà che esse mediano. Tale critica a Hegel non cancella il debito nei confronti dell’idea hgeliana di sistema. Il concreto non è ciò che sta di fronte all’intelletto umano, ma ‘unità del molteplice’, sapere che, pur avendo come base necessaria il metodo ‘analitico’, sfugge grazie alla dialettica alla dicotomia fattuale/mentale: di qui l’universale, la produzione sociale, come un universale-concreto. Il metodo del salire dall’astratto al concreto è però solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto concettualmente, non il suo processo di formazione. D’altra parte, Marx si confronta con un sistema rigorosamente deduttivo e non procede storiograficamente “perché la forma del capitale da lui sviluppata produce essa stessa le sue condizioni di esistenza” (p. 64, corsivo mio). Schmidt insiste soprattutto sul ruolo gnoseologico della dialettica, mostrando la connessione interna di oggetti e concetti, ma apre anche a una sorta di legame ‘ontologico’ debole tra Hegel e Marx. Roberto Finelli (2004) chiarisce che l’ ‘apparenza’ [Erscheinung], nel momento in cui ‘espone’ [Darstellung] l’essenza, fondamentalmente la distorce. Il metodo de Il Capitale è quello del circolo del presupposto posto.[3] Incontriamo qui un secondo ruolo della dialettica, più forte di quello semplicemente metodologico: quello dell’attiva ‘dissimulazione’ dell’essenza interna da parte della apparenza esterna. Questo porsi del presupposto deve essere inteso in termini strettamente hegeliani: il capitale è infatti un Soggetto invisibile, in una sorta di perenne movimento in circolo. Il valore che valorizza se stesso è una totalità ‘chiusa’, dove il lavoro è ridotto a forza-lavoro. Nessun elemento sfugge al potere di questo Soggetto totalizzante. La realtà capitalistica è letta da Finelli come un mondo di un’astrazione meramente quantitativa e non-umana, che progressivamente universalizza se stessa e finisce per cancellare la dimensione della concretezza. La logica della dissimulazione propria di questo Soggetto onnicomprensivo ci impedisce di parlare propriamente di una logica della contraddizione. Se la posizione di Schmidt sottolinea la coppia essenza/apparenza, quella di Finelli approda alla circolarità totalitaria del capitale. È possibile scorgere un altro ruolo della dialettica come ‘concretizzazione’: un movimento di esposizione ‘sistematica’ [Darstellung] che muove da categorie ‘semplici’ e astratte verso concetti più ‘complessi’ e concreti. In questa terza posizione sulla dialettica, ogni categoria va ridefinita a ogni stadio successivo del discorso teorico, e si incontrano non una ma molte ‘trasformazioni’. Incontriamo nuovamente un ‘circolo’, perché la comprensione di ciò che è più complesso e concreto deve retroagire sui concetti più semplici e astratti. Vi è peraltro la possibilità di leggere questa deduzione dialettica in un modo più forte, sfociando in una quarta posizione, dove la dialettica marxiana viene intesa come un movimento progressivo degli stessi concetti. La dialettica si colloca nello spazio tra Darstellung come organizzazione sistematica della conoscenza e Darstellung generazione del capitale stesso come soggetto (o piuttosto, come si dirà e come già si è alluso, del Capitale come Soggetto). Marx contro Hegel È in questo quadro che possiamo collocare il dibattito sul rapporto tra Marx e Hegel che si è svolto all’interno dell’ISMT[4]. Prima di affrontarne alcuni termini è però opportuno mettere le carte sul tavolo, e dichiarare apertamente ciò che il lettore avrà certamente già intuito. Se si ritiene che la dialettica sistematica in Marx abbia a che fare soltanto con l’esposizione concettuale delle categorie – se si aderisce, cioè, alla terza posizione ricordata più sopra – il metodo hegeliano può esser ritenuto compatibile con una sorta di metafisica ‘realista’: in questo caso, si deve contestare la lettura marxiana di Hegel come idealista estremo, per cui le categorie finirebbero con il ‘creare’ la stessa realtà[5] Se si ritiene al contrario che la dialettica sistematica in Marx abbia a che fare con il fatto che il capitale è in qualche modo davvero una realtà ‘ideale’ che si sostiene da sé, la lettura marxiana di Hegel come idealista estremo non sembra invece porre alcun problema. La questione è rilevante perché la maggior parte delle letture hegeliane di Marx fatte da marxisti vanno contro l’esplicita critica di Hegel da parte di Marx. Possiamo ricordare le tre critiche principali mosse da Marx a Hegel. La prima è la critica del 1843 ai Lineamenti di filosofia del diritto, dove l’attacco a Hegel è per aver identificato essere e pensiero. Il regno empirico viene trasformato in un momento dell’Idea, e la ragione pretende di trasformare se stessa in soggetti reali, particolari e corporei. L’astrazione viene resa sostanza – ipostatizzazione, ovvero l’universale diventa un’entità che esiste di per sé. Allo stesso tempo abbiamo la riproduzione di una feuerbachiana inversione di soggetto e predicato: il concetto universale, che dovrebbe esprimere il predicato di un qualche soggetto, diviene lui stesso il soggetto, e il soggetto predicato. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx sostiene analogamente che Hegel, per prima cosa, ha identificato oggettivazione e estraneazione, tanto che che superare l’estraneazione vorrebbe dire superare l’oggettivazione. Sostiene poi anche che Hegel ha identificato oggettività e alienazione, dato che l’essere posto come oggettivo non può sfuggire all’alienazione: quest’ultima è una fase necessaria dell’auto-coscienza, che riconosce nell’oggetto nient’altro che un’alienazione-di-sé. Da un lato, Hegel attribuisce vera realtà soltanto all’Idea, dall’altro, vede nella realtà empirica nient’altro che un’incarnazione momentanea dell’Idea stessa. Si tratta di una critica che torna ancora ne Il Capitale. Ciò che è interessante è che Marx vede l’origine di questo rovesciamento così tipico (secondo la sua lettura) di Hegel nella realtà stessa: l’estraneazione degli individui nella società, e l’estraneazione dello Stato dalla società. Una seconda critica è nell’Introduzione ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858. Hegel confonde l’ordine del sapere con l’ordine della realtà. Il ‘concretum’ come sostrato è sempre presupposto, ma è necessario prendere in considerazione il doppio movimento tra l’astratto e il concreto. Il modo di ricerca riguarda la transizione dal concreto della materialità sensibile, che viene appropriata analiticamente, alle forme logiche astratte, che devono essere esposte in modo sequenziale e sintetico. Marx è completamente d’accordo con Hegel sul bisogno di salire dall’astratto al concreto. Il sapere non è più una semplice descrizione: è un’esposizione [Darstellung] genetica, l’esibizione e comprensione della costituzione effettuale dell’intero. Il ‘concreto’ è sintesi di molte determinazioni, unità del molteplice: è un risultato. Hegel ‘salta’ però la prima metà di questo circolo epistemologico, dove il concreto è il punto di partenza nella realtà, cioè, nell’osservazione e nella ‘rappresentazione’ [Vorstellung]. In questo modo, sostiene Marx, Hegel “cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero, che si riassume e si approfondisce in se stesso, e si muove spontaneamente […] Per la coscienza – e la coscienza filosofica è così fatta, che per essa il pensiero pensante è l’uomo reale, e quindi il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà – il movimento delle categorie si presenta [erscheint] quindi come l’effettivo atto di produzione.” (Marx 1857-58, pp. 27-28) Al contrario, “[i]l soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente. […] Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto.” (Marx 1857-58, p. 28). La critica di Marx a Hegel in questo caso è che quest’ultimo confonde l’ordine del sapere con l’ordine della realtà. La terza critica di Marx è nella “Postfazione” alla seconda edizione del 1873 del Primo Libro de Il Capitale. Marx definisce il proprio metodo dialettico come l’opposto di quello di Hegel, dal momento che per lui “l’ideale non è altro che il materiale trasferito e tradotto nella testa umana” (Marx MEOC XXXI, p. 21). Senz’altro, la dialettica “nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per sua essenza.” [Marx MEOC XXXI, p. 22]. Purtroppo in Hegel la dialettica sta sulla testa, ed è quindi necessario che venga capovolta, “per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico” [Marx MEOC XXXI, p. 22]. Alcune posizioni nel dibattito dell’ISMT Vi è accordo tra tutti gli autori dell’ISMT sul fatto che Marx sia un ‘dialettico sistematico’, ovvero che proponga l’articolazione di categorie per concettualizzare un tutto concreto esistente. Per Roberto Fineschi, Geert Reuten e Tony Smith c’è un altro punto di accordo: le critiche di Marx contro Hegel sarebbero mal poste.[6] Per Tony Smith (1990) la dialettica sistematica aiuta nella chiarificazione riflessiva delle categorie usate nelle scienze sociali empiriche, e ci permette di svelare il ‘feticismo’ capitalistico. Inoltre, dato che distingue tra ciò che è ‘necessario’ e ciò che è ‘contingente’, la dialettica sistematica fonda una politica rivoluzionaria perché punta verso la trasformazione delle categorie fondamentali. Marx non si è reso conto che la sua critica si appuntava esclusivamente sulla terminologia un po’ stravagante di Hegel e sul suo indulgere in un pensiero rappresentativo, quale è per Smith a volte quello del filosofo di Stoccarda secondo il nostro autore (per cui Hegel “muddled things considerably by continually resorting to picture-thoughts [il riferimento qui è alla Vorstellung] within his own systematic philosophy” (p. 11). Sul metodo però non c’è un disaccordo di fondo tra i due autori. Per comprenderlo “we have first to consider what a category is. It is a principle (a universal) for unifying a manifold of some sort or other (different individuals, or particulars). A category thus articulates a structure with two poles, a pole of unity and a pole of differences. In Hegelian language this sort of structure, captured in some category, can be described as a unity of identity in difference, or as a reconciliation of universal and individuals” (p. 5). La dialettica prende avvio da un’unità semplice, immediata e inadeguata, un’universalità ‘astratta’; segue un momento dove la differenza viene enfatizzata. La negazione dell’unità semplice si sviluppa facendo emergere una differenza reale. Questo porsi dialettico della differenza dà luogo ad un’unità-nella-differenza complesso che incorpora il momento della differenza, ed è dunque una negazione della negazione. Il movimento dialettico si muove attraverso un ‘porsi’ e ‘superarsi’ delle contraddizioni – che non sono nient’altro che la tensione tra ciò che una categoria è in modo inerente e ciò che essa è esplicitamente. La ‘verità’, il risultato così raggiunto, può essere considerata una categoria di unità semplice, dal punto di vista di una prospettiva successiva. È un nuovo punto di partenza determinato. Il movimento va così avanti con una deduzione interna, immanente, necessaria nel processo di concretizzazione. L’Hegel di Smith non nega perciò affatto l’indipendenza del processo reale, né la presenza nella realtà di un residuo irriducibile di contingenza. Il movimento delle categorie non corrisponde a una autogenerazione del reale, anche se le ‘transizioni’ di cui quel movimento è intessuto sono in effetti auto-agite – nel senso che il movimento concettuale viene giustificato dal contenuto oggettivo di ogni categoria. Lo Spirito Assoluto, l’Idea, non sono qui certamente un Soggetto metafisico in Hegel: Marx aveva torto nella sua critica. Peraltro Marx adotta la stessa struttura nel suo metodo ‘genetico-strutturale, ‘storico-logico’. L’accento viene messo qui su strutturale: con il contenuto determinato in un modo ‘intrinseco’ e ‘oggettivo’ (solo) logicamente. Il Capitale è costruito architettonicamente su una logica sistematico-dialettica. La strategia di Smith sembra essere quella di non vedere nient’altro che Hegel nell’Introduzione del 1857-8 di Marx, e di individuare il punto di intersezione tra i due ne Il Capitale letto in corrispondenza all’hegeliana Logica dell’Essenza. Ci sono tre strutture ontologiche (formali) fondamentali nella Scienza della Logica di Hegel. L’Essere [Sein] è una ‘unità semplice’, che aggrega entità isolate e auto-sufficienti. L’Essenza [Wesen] – il ‘principio d’unità’ che le lega insieme – sussume queste entità; in effetti può anche ridurre diverse unità a mere apparenze, lasciando un rischio di frammentazione, e mantenendo la separazione tra i due poli. Il Concetto [Begriff] è invece una struttura logica dell’ ‘unità-nella-differenza’ che media in modo armonico i diversi individui e l’unità comune. Marx, secondo Smith, segue questo secondo livello della Scienza della Logica, senza stabilire una corrispondenza ed una omologia troppo strette. La merce, prosegue Smith, è lavoro astratto.[7] Il feticismo permea la merce – ‘feticismo’ significa che la socialità non può presentare se stessa come ciò che realmente è, una relazione all’interno della società, ma piuttosto appare soltanto come una relazione tra cose. La socialità non può che apparire in una forma alienata. Detta altrimenti: la logica della socialità è opposta alla logica (ugualmente valida, ma più superficiale) propria del valore/denaro. Lo sviluppo di questa linea di pensiero porta Smith ad affermare che il capitale è uno pseudo-soggetto, nient’altro che le potenzialità creative collettive del lavoro vivo. L’autovalorizzazione del capitale non è nient’altro che l’espropriazione di queste potenzialità. L’approccio di Reuten ha qualche somiglianza con quello di Smith, e si basa su un’approfondita critica dell’empirismo. Nei Grundrisse Marx sperimenta l’uso della Logica del Concetto di Hegel (cioè, la Logica Soggettiva), ma abbandona questo tentativo ne Il Capitale, seguendo piuttosto la Logica dell’Essenza. Partendo da una caratterizzazione astratta della totalità Reuten e Williams (1989) indicano come il porre come fondamento quel punto di partenza si accompagni a una concretizzazione concettuale graduale della totalità. Fondare le condizioni di esistenza a livelli sempre più concreti richiederà il continuo superamento dell’opposizione dei momenti in nuovi momenti necessari e in nuovi concetti, ma in qualche punto vedrà anche l’introduzione di momenti contingenti. Quando l’esposizione ha ricostruito la totalità come un tutto interconnesso e ha compreso l’esistente come realtà effettuale, i fenomeni concreti verranno mostrati come manifestazione fenomenica delle determinazioni astratte che riproducono e allo stesso tempo convalidano il punto di partenza. Per Reuten le contraddizioni non sono ‘risolte’ al livello della necessità, nel capitale come soggetto (come per il Concetto di Hegel), ma solo temporaneamente, in momenti contingenti, che sono però pur sempre momenti dell’‘essenza’ del sistema. Per Reuten e Smith, la forma del valore e le sue trasformazioni sono la ‘struttura’ dove i lavori separati e privati sono erogati e in un momento successivo resi sociali nello scambio. Entrambi gli autori ricostruiscono il capitalismo all’interno di una sorta di olismo macro-sociale, dove il tutto fonda e limita i comportamenti microeconomici individuali. La dialettica si riduce a fondazione filosofica, con un primato dell’epistemologia. Fineschi (2011, ma si veda anche Fineschi 2001) ritiene che Marx abbia usato metodologicamente la Logica del Concetto, dove l’Essere e l’Essenza non sono nient’altro che il Concetto mentre è nel suo ‘sviluppo’. Ciò malgrado, come dirò, alcuni dei suoi giudizi sono vicini a quelli di Reuten e Smith. Fineschi vede ne Il Capitale un’articolazione di quattro livelli di astrazione. Dopo una sorta di primo livello base (circolazione semplice come ‘presupposto’), il secondo livello è la generalità/universalità, che mostra come il capitale ‘diviene’ nella produzione e nella circolazione. Nelle stesure ultime de Il Capitale Marx ha incluso nel capitale come totalità anche i ‘molti capitali’ e l’accumulazione. Il terzo livello è la particolarità, che ha che fare con l’uno/molti capitali nella concorrenza. I molti capitali vengono ora definiti come capitali particolari nella loro dinamica di auto-valorizzazione. Il quarto livello conclusivo è la singolarità. Qui incontriamo il capitale portatore di interesse, dove l’universalità del capitale esiste come un capitale particolare realmente esistente, ed è dunque singolare. Un punto di convergenza con Reuten e Smith sta in ciò: che Fineschi limita il debito di Marx nei confronti di Hegel al solo livello metodologico. Lo ‘schizzo’ della struttura U-P-S che precede non può evidentemente rendere giustizia all’interpretazione di Fineschi. Condivido la tesi (sua e di altri) che la dialettica sistematica per Marx abbia a che vedere anche con lo sviluppo concettuale. L’argomentazione di Marx è ‘stratificata’ su due livelli distinti per Fineschi: la Logica I è ‘puramente’ logica, la Logica II è caratterizzata dall’inserimento di dimensioni storiche. Lo sviluppo reale pre-esiste, e ‘fissa’ il concetto empirico storicamente determinato che viene scelto come punto di partenza, e da cui il movimento dialettico dei concetti ‘si sviluppa’. Il punto di partenza non è dunque la forma valore (come in Arthur), né la dissociazione dei lavori (come in Reuten e Smith), ma la ‘merce’ come forma cellulare del capitale, caratterizzata da una duplicità o doppiezza interna di valore d’uso e valore. La Dastellungweise è qui, di nuovo, soltanto il modo di ‘esposizione’ di un contenuto (determinato), ovvero il processo dialettico interno dell’auto-sviluppo meramente logico delle categorie che lo riguardano. Grazie a questo metodo noi siamo in grado di vedere come il capitale ponga, e produca come proprio risultato, ciò che all’inizio era soltanto presupposto. Tale circolo del presupposto-posto, mi pare, non ha alcuna valenza ‘ontologica’, come credo sia in Finelli. Un altro punto di convergenza con Reuten e Smith ne discende immediatamente: Fineschi, come loro, non può non trovare erronea la lettura di Hegel proposta da Marx. Incontriamo qualcosa di radicalmente diverso in Patrick Murray e Chris Arthur. Entrambi vedono chiaramente l’importanza dell’accusa di idealismo mossa da Marx a Hegel. Murray (1988, pp. 216-217, corsivo mio) sostiene nettamente che “if we examine Hegel’s characterization of the ‘concept’ … and compare it to Marx’s description of capital … it seems clear that the absolute, self-realizing logic of the Hegelian concept resembles the movement of capital”.[8] Marx ha condiviso con Hegel un approccio basato su una logica immanente nella teoria: ma Hegel pone la logica prima dell’esperienza, all’opposto di Marx. Hegel ha identificato i processi nel pensiero e i processi reali, laddove Marx ha insistito su un mondo oggettivo dall’esistenza indipendente. Oltretutto, le astrazioni di Hegel erano ‘generali’; quelle di Marx erano ‘determinate’. Ancora più importante: l’opposizione di essenza e apparenza non può essere mediata, come sostiene Hegel, ma deve essere sradicata (uprooted è il termine inglese impiegato da Murray), come gli replica Marx. Il ragionamento di Marx è inestricabilmente connesso con le dinamiche gemelle di ipostatizzazione e inversione: il che rimanda al Capitale, in quanto Soggetto ‘automatico’, in quanto Soggetto che racchiude e domina [übergreifende] l’intero processo, sostanza che si muove da sé e che si attiva da sé. Il valore è una sostanza ‘cosale’, che in quanto capitale si tramuta realmente in Soggetto. La logica del capitale (e non soltanto la logica de Il Capitale) è la logica di Hegel (in quanto logica dell’idealismo assoluto), a causa di un isomorfismo tra il ‘capitale-feticcio’ come totalità e lo ‘svolgersi’ dell’Idea. Qui ci troviamo, come è chiaro, ben oltre una lettura meramente metodologica della dialettica sistematica. Murray non manca inoltre di sottolineare, con forza, l’implicazione religiosa di questo discorso: la critica del carattere di feticcio del capitale e della reificazione si muove esplicitamente in parallelo alla critica dell’alienazione, del Cristianesimo e dello Stato che troviamo nel giovane Marx.[9] Arthur (2002) insiste sulla tesi che il debito di Marx nei confronti di Hegel non è di carattere meramente epistemologico. Non si tratta semplicemente dell’adozione di una logica immanente della scienza, costruita sulla convinzione che l’esposizione [Darstellung] debba mostrare la necessità logica per cui la duplice natura della merce si esteriorizzi e dispieghi nell’economia politica capitalistica in forme sempre più complesse. C’è anche questo naturalmente. La teoria ha di fronte una totalità esistente, e se si limitasse ad analizzarne i momenti isolati la conoscenza che ne deriverebbe sarebbe limitata e distorta. Dunque, i momenti devono essere collocati nel tutto, con una progressione sistematica delle categorie che ci permetta (come in Smith) di apprendere domini-oggetti di complessità crescente, dato che la progressione stessa è guidata (come in Reuten) dalla considerazione che ogni categoria analizzata risulta, per così dire, deficitaria in termini di determinazione rispetto alla successiva. È precisamente questa ‘mancanza’ che va superata – il limite delle categorie ad ogni stadio della progressione concettuale – e che dà l’impulso a una ‘transizione’, a una determinazione successiva di categorie, in una sequenza di ‘arricchimento’ di ogni categoria e al tempo stesso di movimento verso il ‘concreto’. Tutto ciò, scrive Arthur, è particolarmente rilevante perché – come il riferimento allo scambio monetario universale che conduce all’equivalente universale e al denaro mostra molto chiaramente – il sistema capitalistico è – in parte – realmente intessuto di rapporti logici. Il capitale effettivamente è anche una realtà ideale. C’è però un’altra metà della storia. Per Arthur Hegel è importante per Marx non nonostante, ma proprio a causa della sua ontologia idealistica: ‘capital is a very peculiar object, grounded in a process of real abstraction in exchange in much the same way as Hegel’s dissolution and reconstruction of reality is predicated on the abstractive power of thought. It is in this sense that it may be shown that there is a connection between Hegel’s “infinite” and Marx’s “capital”.’ (p. 8) Vi è un isomorfismo tra la Logica di Hegel e il Capitale. Qui il riferimento è, come in Fineschi, alla Logica del Concetto, ma in un senso molto più forte, al punto che per Arthur l’omologia del Capitale con l’Idea è esattamente la ragione per criticare la realtà del capitale come una realtà invertita nella quale astrazioni autoriproducentesi dominano gli esseri umani. Il punto da comprendere bene è che affinché la sostanza del valore si tramuti effettivamente nella spirale del Capitale – come valore che crea più valore, come denaro che si accresce in più denaro – è necessario che il valore/denaro come capitale cessi di essere una realtà meramente ideale ed entri nel regno ‘non-ideale’ della trasformazione dei valori d’uso, dunque nei ‘laboratori nascosti’ della produzione, sussumendo (non soltanto formalmente, ma anche realmente) il ‘lavoro’ quale sua viva ‘alterità interna’ (essendo la natura la sua ‘alterità esterna’). Il capitale è definito dalla sua opposizione al ‘lavoro’, categorialmente irriducibile al capitale stesso nella sua integralità, anche se il primo ha trovato certamente i modi per atomizzare il secondo, impedendone spesso la mobilitazione. Questo genere di ‘risoluzione’ della sua contraddizione interna di base, anche se temporanea e contingente (come direbbe Reuten), può caratterizzare un’intera epoca e un intero modo di produzione. Ciò nonostante, il capitale rimane ‘limitato’, e può sempre essere rovesciato: il lavoro rimane un contro-soggetto, virtualmente sempre presente, anche se empiricamente non è effettivo se non in modo parziale. Come i miei scritti, a partire dalla fine degli anni Settanta, testimoniano, l’approccio che ho indipendentemente sviluppato è molto vicino a quello di Arthur,. La ragione è presto detta. Un’influenza chiave per me è stato Lucio Colletti, soprattutto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Settanta: in particolare la sua innovativa (e, come dirò, rubiniana) lettura della teoria del valore, dalla sua introduzione a Bernstein agli ultimi due capitoli del suo Il marxismo e Hegel. Di quest’ultimo volume, in particolare, l’ultimo capitolo, “L’idea della società «cristiano-borghese»”, ha molti parallelismi con le argomentazioni successivamente sviluppate da Murray e Arthur. Ma prima di andare più a fondo in questo tema, vorrei sgombrare il campo da ciò che penso possa essere un possibile (falso) problema: il tema della natura dell’idealismo di Hegel, e ancora di più la questione se Marx sia stato o meno ingiusto nella sua critica al filosofo di Stoccarda. La mia opinione è simile a quella di Suchting (1997) in un suo articolo inedito sulla Scienza della logica di Hegel come logica della scienza. Hegel ha colto, meglio di ogni altro prima di lui e di molti dopo di lui, le caratteristiche fondamentali della ricerca scientifica moderna. Il suo metodo era nondimeno fondamentalmente idealista. Non sono però un conoscitore di Hegel, e potrei sbagliarmi. Per quanto tali questioni possano essere rilevanti in se stesse, esse sono irrilevanti per la problematica che sto trattando in questo lavoro. Quello che è importante per il mio filo di discorso è che la Scienza della Logica di Hegel fu essenziale per il Marx maturo proprio perché il suo idealismo riflette la natura ‘idealista’ e ‘totalitaria’ della circolarità capitalistica del capitale, in quanto denaro che genera (più) denaro. Per dirla in modo esplicito: anche se l’Hegel di Marx non fosse il ‘vero’ Hegel, è l’Hegel ‘falso’ che conta davvero per leggere Il Capitale. Allo stesso tempo la tesi di un’omologia stretta tra Hegel e Marx non può essere intesa in senso troppo rigido ed estremo. Più che fondarsi in una duplicazione formale della struttura U-P-S che riprodurrebbe una corrispondenza uno-a-uno tra i tre volume de Il Capitale e La Scienza della Logica, l’omologia sulla quale insisto nelle pagine che seguono è costruita (e dissolta!) nei primi cinque capitoli del Libro Primo, dove il Capitale come Soggetto è plasmato sull’Idea Assoluta come Soggetto. Lucio Colletti: il paradosso del Capitale Ricordiamo per sommi capi alcuni momenti della riflessione di Lucio Colletti su Marx e Hegel. L’idealismo assoluto di Hegel, per Colletti 1969a, equivale al Dio che diventa reale nel mondo, alla Sua presenza nelle istituzioni civili e politiche della modernità borghese, e queste stesse realtà storiche sono degli oggetti mistici. Per quanto strano ciò possa sembrare, scrive, è questo il punto dove l’opera di Marx e quella di Hegel coincidono al punto di sovrapporsi l’una all’altra. Così come le istituzioni del mondo borghese sono incarnazioni sensibili del sovrasensibile, o in altri termini esposizioni positive dell’Assoluto, così ne Il Capitale la ‘merce’ ha un carattere ‘mistico’ – è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici, per citare direttamente Marx. Queste espressioni non sono figure retoriche, sostiene Colletti, sono anzi talmente rilevanti che è difficile discernere l’autentico significato del pensiero di Marx senza di esse. Marx vede nella realtà capitalistica un mondo rovesciato: “La differenza è solo che, mentre nel divenire sensibile del sovrasensibile Hegel vede l’attuarsi di Dio, Marx (il quale ovviamente ragiona ormai fuori dall’orizzonte cristiano) vede il farsi presente e reale di forze alienate e estraniate dall’umanità, a cominciare dal capitale e dallo Stato stessi (p. 423)” Il lavoro umano astratto è come l’uomo astratto della Cristianità. Il valore – unità sociale divenuta un oggetto – conduce al paradosso di un rapporto sociale come relazione che si pone per sé indipendentemente dagli individui a cui si dovrebbe riferire e per i quali dovrebbe essere una mediazione. È un rapporto sociale divenuto cosa che si impone agli individui come una divinità, anche se in realtà è il loro stesso potere sociale estraniato. L’estraneazione di questo rapporto, la sua reificazione, “questo suo darsi un’esistenza indipendente in un oggetto o valore d’uso (che figura appunto come ‘corpo’ del valore” (p. 428) è al cuore dell’analisi di Marx del denaro, e del denaro-capitale. Laddove la produzione viene svolta da lavoro privato individuale, quest’ultimo diventa sociale solo quando prende la forma del suo opposto, il lavoro universale astratto: “il cristiano e la merce sono fatti allo stesso modo: corrispondendo all’ ‘anima’ e al ‘corpo’ del primo, il ‘valore’ e ‘valore d’uso’ dell’altra.” (p. 429) La merce è un ‘valore d’uso’, una ‘cosa’, che nasconde in se stessa un’oggettività non-materiale, il ‘valore’: “come il cristiano, è unità del finito e dell’infinito, unità degli opposti, essere e non-essere insieme” (p. 429). È lo stesso Marx che sottolinea come la merce sia, e allo stesso tempo non sia, un valore d’uso. Dietro al valore di scambio relativo si cela un valore reale ‘assoluto’ o intrinseco, che esiste – scrive ancora Colletti – nelle cose stesse che sono messe in rapporto nello scambio – ovvero, abbiamo qui una ipostatizzazione del ‘valore’: “Marx, horribile dictu, accetta l’argomento che il ‘valore’ è un’entità metafisica, e solo si limita a osservare che un’entità scolastica è qui la cosa, cioè la merce stessa, e non il concetto con cui lui, Marx, ha descritto come la merce è fatta! […] Questa società delle merci e del capitale è, dunque, la metafisica, il feticismo, il ‘mondo mistico’: essa, ben prima che la Logica stessa di Hegel!” (p. 431). Il mondo delle merci e del capitale è un mondo ‘mistico’, e lo è persino più di quello della Logica di Hegel: punto esclamativo. A questo singolare iper-hegelismo giunge l’anti-hegeliano Colletti: ineluttabile sbocco della sua nuova lettura della teoria del valore-lavoro iniziata nel 1968. Sappiamo che tra il 1974 e il 1976, dopo una fase problematizzante, il filosofo si ritrarrà terrorizzato da questa conclusione, fuggendo a gambe levate e sostanzialmente annullando il proprio pensare nella ripetizione ossessiva dello scongiuro secondo cui con la dialettica non si fa scienza (mentre, giuste le conclusioni precedenti, solo con la dialettica si dà conoscenza di questo mondo). Sappiamo inoltre che i critici di Colletti hanno anch’essi puramente e semplicemente rimosso questo episodio, che è invece di estremo interesse: e sulle prime il nostro autore, invece che trarne la conclusione della presenza di una scissione letale tra un Marx filosofo e un Marx scienziato, come farà dal 1974, si interroga sulla tensione positiva che può darsi nell’autore del Capitale tra economia politica e critica dell’economia politica, tra scienza e rivoluzione. Una conferma spettacolare di quanto importante fosse questa linea di pensiero per Colletti è stata la pubblicazione postuma, a gennaio 2012, di alcune lezioni dei primi anni Settanta su Il Capitale, Libro Primo, dove questa lettura ‘hegeliana’ di Marx è molto evidente. Il titolo di queste lezioni è, non a caso, Il Paradosso del Capitale. La caratterizzazione della realtà del capitale come paradossale è un tema comune con Backhaus, e ci tornerò. Si veda, per esempio, alle pp. 72-73 (corsivo mio): “Qui il discorso di contenuto e il discorso di metodo si coprono interamente: pensate a quella celebre proposizione che è nel poscritto alla seconda edizione del Capitale: Hegel trasformò il pensiero in soggetto ‘indipendente’. Il pensiero, che è evidentemente sempre il pensiero dell’uomo, cioè una caratteristica, una prerogativa dell’ente umano, Hegel lo distacca dall’uomo e ne fa un soggetto a sé stante. Quella trasformazione del predicato in soggetto, quella sostantificazione dell’astratto, quell’alienazione o estraneazione è al centro sia della riflessione di metodo che dell’analisi di contenuto del Capitale.” [è stato corretto un refuso] Se le merci sono delle entità metafisiche, osserva il filosofo romano, “non bisogna avere un concetto ingenuo e superficiale di metafisica, come se le metafisiche siano cose inesistenti.” Il discorso di Colletti non potrebbe essere più chiaro. La ‘merce’ in quanto materializzazione di lavoro, cioè valore, ha un’esistenza immaginaria, puramente sociale. Con il capitale e con lo Stato, ‘rappresenta’ [Darstellung] un processo di ipostatizzazione nella realtà. Per capire ciò, si deve studiare tenendo Il Capitale nella mano destra e La Scienza della Logica in quella sinistra (o viceversa!). L’universale astratto, che dovrebbe essere una proprietà del concreto, diventa un’entità auto-sussistente e un soggetto attivo, mentre il concreto e il sensibile diventano soltanto una forma della manifestazione fenomenica dell’universale-astratto – il predicato del suo stesso predicato sostantificato. Nell’ultima pagina de Il marxismo e Hegel se ne trae la conclusione: “Questo rovesciamento, questo quid pro quo, questa Umkehrung, che, secondo Marx, presiede alla Logica di Hegel, presiede anche, e ben prima di essa, ai meccanismi ‘oggettivi’ di questa società, a cominciare già dal rapporto di ‘equivalenza’ e dallo scambio delle merci.” (p. 282). Per Colletti, insomma, la logica dialettica di Hegel non è nient’altro che ‘il metodo specifico dell’oggetto specifico’, e questo – si badi - non a dispetto ma in forza del suo idealismo assoluto. La critica filosofica a Hegel e la critica al capitale, ne Il Capitale così come nei Grundrisse, sono una cosa sola. Pur con il suo fastidio per la Scuola di Francoforte, è lo stesso Colletti che introduce Il concetto di natura in Marx di Alfred Schmidt, allievo di Adorno e Horkheimer. E che lo cita positivamente quando il filosofo tedesco, nel suo lavoro giovanile, scrive che “[t]ra Kant e Hegel, Marx assume una posizione difficilmente definibile. La sua critica materialistica alla identità hegeliana di soggetto e oggetto lo riconduce a Kant … Anche se, mantenendo la tesi kantiana della non-identità di soggetto e oggetto, Marx ribadisce però la posizione postkantiana che non trascura la dimensione storica e vede soggetto e oggetto entrare in sintesi e relazioni mutevoli.” (in Schmidt1962, p. xi). E ancora, sempre Schmidt apprezzato da Colletti: “Marx, d’accordo con Hegel, respinge riflessioni gnoseologiche antecedenti all’indagine dei contenuti concreti del sapere, ma al tempo stesso, in quanto materialista, non può accettare la conseguenza che Hegel trae dal rifiuto della teoria della conoscenza: l’identità di soggetto e oggetto.” (p. xii) Come pure cita positivamente Helmut Reichelt (riprenderò questa sua citazione in conclusione), e manda sue allieve a studiare da Hans Georg Backhaus: e siamo di nuovo nell’orbita adorniana, visto che i due sono stati suoi allievi. Schmidt, Backhaus e Reichelt sono le figure chiave all’origine della Marx Neue-Lektüre, che dalla critica dialettica della società di Adorno discende, ma che rispetto al maestro prende maledettamente più sul serio la critica dell’economia politica. In una intervista a “Rinascita” del 14 maggio 1971 su Marx, Hegel e la Scuola di Francoforte, Colletti ribadisce: “La logica di Hegel, con il suo scambio di soggetto e oggetto, riproduce la logica stessa del capitale, e la ipostatizzazione, le astrazioni indeterminate sono, prima ancora che astrazioni indeterminate di chi riflette (da un certo punto di vista) sulla realtà della società capitalistica, astrazioni presenti nella realtà capitalistica stessa […] il rapporto Hegel-Marx torna a proporsi in una forma più complessa , anche se questa forma, ripeto, non significa affatto che sia possibile ricondurre Marx entro il quadro della filosofia hegeliana” (in Cassano 1973, p. 296). E poche righe dopo aggiunge. “Per me non si è mai trattato di negare l’importanza del pensiero di Hegel. La mia polemica, anche quella attuale, non si è mai indirizzata a Hegel come tale: si è indirizzata piuttosto a un certo marxismo […] C’è una tradizione marxista, la tradizione che è andata sotto il nome di ‘materialismo dialettico’, che ha finito, in primo luogo, col distorcere il senso di tutta una serie di proposizioni hegeliane volgendole a un significato che era completamente estraneo all’intenzione di Hegel; e in secondo luogo, ha finito con l’eludere l’elemento profondo di novità che Marx ha rappresentato nei confronti di Hegel.” (p. 297). Dopo aver rilevato che “se il marxismo si libera di quel tanto di residuo naturalistico e positivistico che forse qua e là si è depositato anche in alcune parti del Capitale di Marx, ne risulta esaltata l’importanza del fattore coscienza – la coscienza di classe, intendo – ai fini della mobilitazione rivoluzionaria”, Colletti arriva addirittura a spendere qualche parola positiva persino sulla stessa Scuola di Francoforte, che per lo meno “ha avuto il merito di riproporre con forza l’accento sull’importanza dell’elemento soggettivo ai fini del maturarsi e risolversi del processo storico” (p. 301). Hans-Georg Backhaus: le ‘forme impazzite’ e l’oggettività irrazionale del capitale Ritengo che il giudizio di Colletti secondo cui la critica a Hegel e la critica al capitale sono una cosa sola sia in buona sostanza corretto, anche se il linguaggio rivela ingenuità e qualche imprecisione.[10] Hans-Georg Backhaus giunge a delle conclusioni molto simili nel suo articolo “Il ‘rivoluzionamento’ e la ‘critica’ dell’economia politica compiuti da Marx: la determinazione del loro oggetto come totalità di forme impazzite”.[11] Il regno delle Verrückte Formen (le forme ‘impazzite’, ma anche ‘spostate’, ‘deviate’, dove si allude non solo alla follia ma anche ad una sorta di dislocazione spaziale, e ad una inversione che è in qualche misura una perversione) è già lì, fin dall’inizio, al principio de Il Capitale, non compare solo nel Libro Terzo. La forma non ancora sviluppata del valore di scambio è già una mistificazione della realtà: ed in ogni caso, è l’apparenza delle cose così come sono (è una ‘manifestazione (fenomenica)’, un Erscheinung e non una parvenza, uno Schein – torneremo su questo più avanti nel capitolo). È perciò la realtà capitalistica stessa ad essere paradossale, non il linguaggio che la descrive. Secondo Backhaus, Hegel è all’origine del ‘rivoluzionamento’ della teoria sulla merce/denaro/capitale da parte di Marx, proprio per la sua ‘esposizione’ (Darstellung) strutturata dialetticamente. Tuttavia Hegel è soltanto un primo passo, perché il filosofo di Stoccarda non fu in grado di ‘sviluppare’ il carattere duplice delle merci (che vide molto chiaramente in inediti ignoti a Marx) nel carattere duplice del lavoro. Questo carattere doppio del lavoro naturalmente era un punto chiave dell’ultimo capitolo di Marxismo e Hegel di Colletti, come altre citazioni avrebbero potuto mostrare. Ed era un tema già cruciale nell’Introduzione a Bernstein del 1968. La questione era stata anticipata e approfondita da Isaak Ilijč Rubin, al tempo del tutto sconosciuto in Occidente: ci torneremo tra poco. D’altra parte, prosegue Backhaus, Hegel riproduce a suo modo un limite dell’economia politica e dello stesso Ricardo: la cecità verso la ‘genesi’ del valore; e ciò benché il suo apparato categoriale fornisse tutti gli strumenti concettuali per adempiere questo compito.[12] Le due idee fondamentali dello sviluppo dialettico di Marx nella teoria del valore sono molto semplici, per Backhaus (2009, pp. 456-457). Prima si trova una contraddizione nella merce stessa: quella di essere nello stesso tempo ‘valore d’uso’ e ‘valore’ – sensibile e soprasensibile. Secondo, si mostra che soltanto nel suo essere denaro la merce è davvero una merce. La vera domanda che dà la cifra della critica dell’economia politica marxiana nasce da qui: com’è che la cosa-valore (in quanto merce, denaro, capitale), il Fetisch, viene costituita da una base umana? Ovvero, com’è che una sostanza sociale e sovra-individuale quale è il valore, si sviluppa in una forma che presenta se stessa come qualcosa che va oltre e al di là degli essere umani? Il rapporto tra forma e sostanza, o tra essenza e apparenza, deve essere pensato come una connessione interna necessaria, come una non-identità che è allo stesso tempo un’identità. L’essenza deve apparire (ancora un Erscheinung), ma questa apparenza è anche una distorsione: tutto appare rovesciato. Dal momento che nello scambio generale, le ‘cose’ si presentano in una connessione non-materiale, le merci nascondono un modo d’esistenza ‘fantasmatico’. Per Backhaus, così come per Colletti, questo oggetto peculiare deve essere analizzato con una scienza peculiare: una scienza il cui metodo è diverso da, e addirittura opposto a, quello normalmente usato nelle scienze naturali o nelle scienze dello spirito. Come già Colletti (2012, p. 76), anche Backhaus (2009, pp. 486-487) rimanda alla critica di Marx a Bailey: le ‘sottigliezze’ di Marx dipendono dalla struttura paradossale della cosa stessa. L’essenza deve manifestarsi fenomenicamente, ma questa manifestazione fenomenica non è l’essenza, dal momento che questa apparenza [Erscheinung] è un ‘rovesciamento’ e una ‘inversione’. Il fenomeno, o ‘forma’, è un velo materiale che distorce e che nasconde ciò che nello stesso tempo paradossalmente rivela. Backhaus fa però un passo avanti importante rispetto a Colletti, come mostra bene un saggio a noi disponibile in inglese: “Between Philosophy and Science: Marxian Social Economy as Critical Theory” (Backhaus 1992). Per Marx – tanto per il Marx giovane che per il Marx maturo: Backhaus, come Colletti, è un ‘continuista’ in merito all’evoluzione del pensiero di Marx – la concezione secondo cui l’oggettività economica, l’oggettività di valore è una ‘seconda natura’, sovrasensibile e non ‘fatta dagli esseri umani’, è al tempo stesso una illusione, più propriamente una illusione oggettiva (gegenständlicher Schein). Le forme economiche sono forme ‘impazzite’, ‘deviate’, ‘spostate’ – nel senso anche di uno spostamento dal loro luogo naturale. Si tratta di una trasposizione e una proiezione del sensibile nel sovrasensibile. Se l’economia conosce solo il risultato di questo ‘impazzimento’ e ‘spostamento’, la ‘critica’ dell’economia ha il compito di esporre la genesi delle Verrückte Formen, la loro ‘origine umana’: disvelando in ciò che è immediato per gli esseri umani delle forme alienate da sradicare. È nella fusione dell’inversione soggetto-oggetto con il problema del concetto di capitale il filo rosso che unisce le problematiche del giovane Marx con quelle del Marx maturo. Di qui, per così dire automaticamente, il primato del qualititativo sul quantitativo nel discorso marxiano. Seguendo Adorno, si deve comprendere che la teoria del valore in quanto denaro e in quanto capitale si colloca nella terra di nessuno tra filosofia e scienza empirica. Per Backhaus, soltanto il principio del valore-lavoro, e non quello del valore-utilità, è in grado di spiegare l’esistenza del valore come ‘oggettualizzazione’ dell’essere umano come ente ‘generico’ (un altro tema che potrebbe essere sviluppato con un riferimento a Colletti, e a una sua critica, in positivo). Gli esseri umani si trovano ‘di fronte’ le proprie forze generiche, come forze collettive, come totalità alienata che li domina. Un pensiero, questo, il cui sviluppo approda alla concezione del capitale sociale come totalità autonoma, come Soggetto totalitario e reale, ‘astratto’ e ‘indifferente’ agli individui: Capitale che ‘abbraccia’ e ‘domina’ nel suo automovimento e nella sua autonomia. Backhaus riconduce l’origine di questa riflessione a Feuerbach, e qualifica la trasformazione della dialettica di Hegel operata da Marx come una dialettica ‘economico-antropologica’. Le ‘apparenze’ economiche vanno intese non come oggettivazioni dell’autocoscienza ma come oggettualizzazioni di un soggetto ‘terreno’, delle forze generiche dell’essere umano.[13] Ancora seguendo Adorno, occorre riprendere l’idea hegeliana che lo Spirito è sempre ‘soggettivo-oggettivo’, tenendo però conto del compito (ancora da svolgere) di articolare il punto dove si ferma Hegel, secondo cui il momento finale dell’unità soggetto-oggetto è il prodotto della reificazione dell’autocoscienza, con l’orizzonte aperto (ma non risolto) da Marx, secondo cui quell’unità è il prodotto delle forme sociali del lavoro degli esseri umani: forme che nel capitalismo (di nuovo Adorno) si cristallizzano in una ‘oggettività irrazionale’. Il valore è materiale, oggettivo, e al tempo stesso illusorio, soggettivo. Nello sviluppo di questo tema che gli è proprio e unico Marx rimane, a giudizio di Backhaus, allo stadio del ‘frammento’. Il rapporto fondativo con Adorno della Neue Lektüre è stato rimarcato in anni a noi più vicini da Reichelt: “had not Adorno repeatedly put forward the idea of a ‘conceptual in reality itself’, of a real universal which can be traced back to the abstraction of exchange, without his questions about the constitution of the categories and their inner relation in political economy, and without his conception of an objective structure that has become autonomous, this text would have remained silent — just as it had been throughout the (then!) already one hundred years of discussion of Marx’s theory of value.” (Reichelt 2008, p. 11). In una battuta: più che Das Ganze ist das Wahre, vale l’opposto: Das Ganze ist das Unwahre. Dal sito consecutio temporum
Posted on: Tue, 29 Oct 2013 12:46:47 +0000

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