Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua - TopicsExpress



          

Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione Sulla (dis)continuità Marx-Hegel Riccardo Bellofiore TERZA PARTE Isaak Ilijč Rubin: l’astrazione del lavoro come processo La prospettiva di Colletti “è singolarmente vicina a quella avanzata quasi cinquant’anni prima da Rubin” osserva Silvano Tagliagambe (1978, p. 157). Lo stesso Backhaus confessa la vicinanza tra alcune sue posizioni e quelle dell’economista russo, letto però troppo tardi perché quest’ultimo potesse avere un’influenza diretta sulla sua elaborazione. Della sua opera più importante, Saggi sulla teoria del valore di Marx, uscita in prima edizione nel 1923, abbiamo una traduzione in italiano nel 1976 della terza edizione del 1928 (traduzione parziale: e dall’inglese,1973, non dall’originale russo.[14] Una quarta edizione, ignota in Occidente, è stata tradotta in giapponese,[15] ma non differisce significativamente dalla terza.[16] La versione disponibile in inglese (tradotta anche in francese 1977, e prima in tedesco 1973) è però amputata di una significativa introduzione, e di una appendice contenente le risposte ai critici. I considerevoli mutamenti apportati dalla terza edizione alla seconda del 1924, così come il contesto originale del dibattito attorno all’opera di Rubin, sono stati assenti dalla discussione seguita alla sua pubblicazione in altre lingue: anche se una spia delle questioni discusse è in un articolo del 1927 su “Lavoro astratto e valore nel sistema di Marx”, che fu in parte rifuso in capitoli della terza edizione, e che è stato tradotto in inglese nel 1978 (ne esiste una precedente traduzione in tedesco del 1975). La posizione che Rubin contesta è quella che legge il lavoro astratto come spesa fisiologica di energia: è probabilmente per contrastare questa tesi, presente con forza nel dibattito sulla rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del marxismo”), che Rubin pubblicò il suo libro, proponendo di contro un’interpretazione sociologica della teoria di Marx, e riconducendo la teoria del valore alla teoria del feticismo. In questa prospettiva il lavoro astratto è inteso come realtà “puramente” sociale, definizione a cui i critici imputeranno che essa comporterebbe recidere del tutto i ponti con la dimensione materiale del processo di produzione e una collusione con la posizione ‘idealistica’ sociale, neokantiana, di cui Franz Petry fu esponente di rilievo. Nel passaggio dalla prima alla seconda edizione Rubin aveva sostanzialmente proceduto per estensione, prolungando l’analisi qualitativa del lavoro astratto in una analisi quantitativa del lavoro socialmente necessario (trattando anche del lavoro qualificato, del lavoro produttivo e improduttivo, dei prezzi di produzione). Il lavoro socialmente necessario non era definibile in modo esclusivamente ‘tecnologico’, e nella sua fissazione si doveva tener conto della concorrenza come del rapporto del valore al bisogno sociale (alla domanda). Sarà proprio questa seconda edizione a scatenare la discussione, con reazioni particolarmente accese. Rubin reagisce agli attacchi ritornando sui nodi controversi, anche con profonde innovazioni categoriali: in particolare, modifica sostanzialmente i capitoli 12 (su contenuto e forma del valore), completamente riscritto, e 14 (lavoro astratto), notevolmente accresciuto e ripensato come approfondimento della propria posizione; e inoltre inserendo in appendice una lunga ‘risposta ai critici’, limitandosi agli interventi per lui più pertinenti (Shabus, Kon, Dashkovskii). In questa temperie sta anche un saggio di Rubin del 1924, sempre in “Sotto la bandiera del marxismo”. dedicato a Rapporti di produzione e categorie materiali, che confluirà nel capitolo 3. È questo articolo che secondo Tagliagambe costituisce il punto di inizio della controversia, e la ragione è chiara. Per l’economista russo “la struttura logica dell’economia politica come scienza esprime la struttura sociale del capitalismo. È l’orgine sociale delle categorie a costituire la ‘connessione interna’” (Tagliagambe 1978, p. 155): gli economisti volgari (ma qui, aggiungeremmo noi,la stessa economia politica classica) studiano soltanto la forma economica estraniata, oggettiva e reificata: ma la materializzazione dei rapporti di produzione “esprime il fatto che le cose svolgono un particolare ruolo sociale, quello di ‘intermediario’ o ‘supporto’ dei rapporti di produzione.” Una posizione del genere andava a opporsi, per così dire, naturalmente alla tesi che ‘riduceva’ il lavoro astratto a fisiologico, e i rapporti sociali a rapporti materiali. Era questa, per esempio, la posizione di A. Kon (in Lezioni di economia politica, parte prima: teoria del valore, teoria della moneta, teoria del plusvalore, Edizioni di stato, uscito all’inizio del 1928). Nel suo libro Kon vedeva nell’astrazione del lavoro una generalizzazione mentale dai lavori concreti, un’astrazione nel pensiero che conduceva a un lavoro ‘generale’. In questo senso il lavoro astratto è una categoria ‘logica’, che poteva dar luogo direttamente a una misurazione (in termini energetici, o in altri da individuare) della spesa fisiologica di lavoro, risolvendo di conseguenza anche il problema della misurazione quantitativa della grandezza di valore. Una tesi analoga era stata sostenuta anche da A.A. Voznesenskii nel suo articolo su “Sotto la bandiera del marxismo” del dicembre 1925, Come comprendere la categoria di lavoro astratto. Rubin vedeva piuttosto all’opera un’astrazione reale specifica di una particolare epoca storica, e nella dimensione fisiologica un presupposto metastorico del lavoro astratto (come peraltro dichiarava apertamente sulla stessa rivista nel giugno del 1926 I. Dashowski in Lavoro astratto e categorie economiche). Il lavoro astratto che crea valore è, per Kon, a un tempo lavoro sociale (come sostenuto anche da S. Shabus in Problemi del lavoro sociale nel sistema economico – una critica dei Saggi sulla teoria del valore di Marx di I.I. Rubin volume anch’esso comparso all’inizio del 1929 per le Edizioni di stato: lavoro astratto e lavoro sociale, o lavoro economico, sono una categoria unica). In questi autori, commenta Takenaga (2007), il lavoro astratto non è la sostanza del valore. L’uno e l’altra non sono storicamente specifici, legati essenzialmente allo scambio di merci, come è per Rubin, che replicherà sostenendo che per i suoi critici il lavoro non si duplica ma si triplica: lavoro concreto, lavoro astratto in quanto fisiologico, e lavoro sociale. Nella seconda edizione l’economista russo aveva rigettata frontalmente e come del tutto erronea la riconduzione del lavoro astratto alla dimensione fisiologica. Sulla base di un confronto tra il primo capitolo del Capitale (dove nei primi due paragrafi è indubitalmente presente la riconduzione della sostanza e grandezza di valore alla dimensione fisiologica, mentre è solo nel terzo paragrafo che compare la forma di valore), e Per la critica dell’economia politica (dove è invece assente il metodo della ‘riduzione’, dal valore di scambio al valore al lavoro, oggetto delle facili critiche di Böhm-Bawerk), Rubin scriveva nella secona edizione: “non vi è dubbio che lo stesso Marx ha dato adito a malintesi, non distinguendo chiaramente e nettamente l’analisi del lavoro in quanto contenuto del valore da quella della sua forma, e in particolare dando al contenuto la denominazione di ‘valore’ in generale, il che è all’origine della contraddizione che appare tra le fasi di Marx: da una parte, il ‘valore’ in generale esiste logicamente come se fosse indipendente e anteriore alla ‘forma di valore’, dall’altra parte, la ‘forma di valore’ viene affermata come fondamentale, per così dire il carattere chiave della economia di scambio. Senza la ‘forma di valore’, il ‘valore’ si trasforma in semplici erogazioni di lavoro, categoria ‘logica’” (Takenaga 2007, p. 8). Tra i malintesi dei ‘fisiologisti’, scrive Rubin nel 1924, sta proprio l’idea che il lavoro in quanto tale sia qualcosa di assoluto che si materializza nei prodotti prima e indipendentemente dallo scambio. Le obiezioni dei critici hanno però il merito di mettere in rilievo il rischio, nel Rubin della seconda edizione, di impugnare la teoria della forma di valore (e poi della natura di ‘feticcio’ assunta dalla manifestazione fenomenica del valore) contro la dimensione essenziale del valore stesso. Inutile ricordare che a questo esito, paradossalmente più fedele al Rubin della seconda edizione che al Rubin della terza che fu effettivamente tradotta, è poi approdata quella che a torto viene identificata come la “scuola di Rubin”, almeno dagli anni Ottanta: tra questi, in particolare, alcuni seguaci di Backhaus, Michael Eldred, Marnie Hanlon, Lucia Kleiber, e Volkberth M. Roth). Da questo rischio Rubin si smarca, grazie anche a uno studio attento della critica di Marx a Bailey nelle Teorie sul plusvalore (critica che gioca un ruolo importante nella lettura di Marx che l’economista russo presenta nella propria Storia del pensiero economico pubblicata nel 1926 tra la seconda e la terza edizione, e su cui tornerà con uno studio dell’Istituto Marx-Engels di Mosca intitolatio appunto Marx e Bailey). Ciò è già evidente nel suo articolo del giugno 1927 su Lavoro astratto e valore nel sistema di Marx che – ci ricorda ancora Takenaga – costituisce il cantiere da cui, con revisioni e aggiustamenti, riprende l’80% del rinnovato capitolo 12. Marx, per un verso, critica il nominalismo di Bailey, sostenendo che il valore non è identificabile al valore di scambio come si dà concretamente in ogni atto di scambio; critica però anche, per l’altro verso, il ‘sostanzialismo’ di Ricardo, che esaurisce il valore nel suo contenuto, o sostanza, restando cieco alla forma di valore, e dunque poi anche al denaro. Mentre l’economia politica segue un metodo ‘analitico’, muovendo dal valore di scambio al valore al lavoro come sua sostanza, ciò deve essere proseguito, come fa Marx, da una movenza ‘sintetica’ o ‘dialettica’, che va dal lavoro come punto di partenza al valore al valore di scambio: per far ciò la critica dell’economia politica si deve chiedere perché il lavoro si debba esprimere in quella forma, dunque anche quale è il lavoro che viene esibito da quella forma. Il valore è esposizione e espressione di una specifica forma sociale del lavoro. La forma di valore, distinta dal suo contenuto, come forma sociale del prodotto è una proprietà astratta della merce che non si è ancora materializzata in oggetti determinati, non ha ancora acquisito forma concreta. Lo farà nel valore di scambio come denaro, forma concreta e indipendente del valore. Il capitolo 14, dedicato al lavoro astratto, fu il più contestato. Lì stanno i cambiamenti più sostanziosi: non tanto repliche ai critici, quanto avanzamento e al tempo stesso revisione della propria posizione, che aveva il limite di essere stata presentata in forma preliminare e poco approfondita nella seconda edizione. Nell’argomentazione originaria di Rubin, infatti, il lavoro astratto veniva presentato come lavoro ‘privato’ che il momento, per così dire puntuale, dello scambio avrebbe reso sociale. La replica degli avversari fu che in qualsiasi forma di ripartizione sociale del lavoro, e non solo in quella capitalistica, vi è bisogno di una ‘riduzione’ della forma di lavoro a unità comune (Dashovskii), e che il lavoro così organizzato è da ritenersi già sociale nel momento della produzione immediata. Nella prefazione alla terza edizione Rubin dichiara di aver “tagliato via i passaggi che hanno dato ai miei critici motivo per attribuirmi punti di vista che non condivido affatto” (Takenaga 2007, p. 14). La mossa del cavallo di Rubin è di concedere ai critici che ogni in economia in cui vi è divisione sociale del lavoro non si può non procedere a un eguagliamento sociale del lavoro, ma che questo eguagliamento non va confuso con il lavoro astratto, che è una espressione storica particolare di eguagliamento. In una comunità socialista l’organismo devoluto al piano eguaglia i lavori individuali, ma tale eguagliamento è secondario e supplementare rispetto alla socializzazione e distribuzione del lavoro. In una economia mercantile è l’opposto, il lavoro non è immediatamente sociale, lo diventa solo attraverso l’eguagliamento via equiparazione dei prodotti del lavoro. In entrambi i casi vige il presupposto del lavoro fisiologicamente eguale, ma in un caso (comunità socialista) il lavoro è socialmente eguale direttamente nel processo produttivo grazie al piano, nell’altro (economia mercantile) diventa sociale in quanto eguale, con una equiparazione nella forma di lavoro astratto nello scambio di cose. Evidentemente, si incontra qui l’altro nodo di controversia suscitato dal capitolo 14. La rimostranza dei critici era che Rubin avesse formulato una teoria del lavoro astratto come integralmente ‘creato’ nel mercato finale delle merci.[17] Di nuovo, la seconda edizione dava più di un sostegno a questa imputazione: “Solo nel momento in cui i prodotti del lavoro sono portati sul mercato e si confrontano con innumerevoli altri prodotti che compaiono sul mercato stesso per essere eguagliati l’uno con l’altro in certe proporzioni, i produttori mercantili sentono effettivamente e completamente l’azione del mercato (cioè l’attività lavorativa degli altri produttori), e corrispettivamente esercitano sugli altri l’azione uguale e contraria […] sino a che il produttore si occupa del suo lavoro concreto particolare, questo lavoro rappresenta un lavoro privato. Diviene sociale solamente nell’atto di scambio sul mercato, cioè sotto forma di eguagliamento di generi estremamenti diversi di prodotto di lavoro, solamente sotto la forma di lavoro astratto … il lavoro astratto emerge solamente nell’atto reale dello scambio di mercato … Il lavoro astratto si produce soltanto nello scambio … Il lavoro astratto è creato nello scambio.” (Takenaga 2007, p. 14, alcuni corsivi aggiunti). Nella prefazione alla terza edizione Rubin indica, tra ciò che non condivide e che gli viene invece attribuito, proprio “la preominanza dello scambio sulla produzione” e “la collocazione del lavoro astratto nella fase dello scambio” (Takenaga2007, p. 14). Qui più che di mossa del cavallo si può parlare di una riformulazione radicale che ammonta a una diversa, più convincente, teorizzazione del lavoro astratto. Rubin ridefinisce lo scambio (anche sotto lo stimolo, non riconosciuto, della critica di Shabus, almeno secondo Takenaga) in una duplice accezione, come fase particolare del circuito economico (che viene prima e dopo fasi di produzione in senso stretto) o come forma specifica della produzione di una società di mercato che racchiude in sé la totalità della produzione e dello scambi,o come fasi che si alternano e si susseguono: definisce insomma lo scambio come la forma sociale della riproduzione. In questa situazione, dice Rubin, i produttori ‘privati’ che devono vendere sul mercato sono obbligati a tener conto in anticipo, nella sfera della ‘rappresentazione’, nel momento stesso della produzione immediata dei concorrenti: devono cioè mettere i loro prodotti in relazione a quantità di valore (denaro) prima dello scambio in senso stretto, e dunque devono anche procedere ad un eguagliamento anticipato dei lavori concreti a lavoro astratto (alcuni autori come Reuten e Williams hanno definito qualcosa del genere come una pre-validazione nella produzione immediata). In questo nuovo modo di vedere le cose, il lavoro astratto è già presente in forma latente nella produzione immediata (anche se la riduzione dei lavori concreti a lavoro astratto è ‘provvisoria’ e ‘ideale’), in attesa di attualizzarsi sul mercato finale. Senza scambio finale non vi sarebbe lavoro astratto, ma il lavoro astratto è presente in potenza nei processi lavorativi capitalistici. L’astrazione del lavoro è dunque un processo, e il valore si attualizza nell’unità di produzione e circolazione. Non mi è possibile entrare in questa sede negli aspetti quantitativi della posizione di Rubin, e dunque accennare alla sua analisi del lavoro socialmente necessario e del lavoro qualificato, chiarendo in che misura le variazioni del lavoro concreto del ‘lavoratore collettivo’ che produce merci (ove intervengono aspetti fisiologici, materiali e tecnologici) condizionino la misurazione in denaro dello stesso lavoro astratto. Né posso prolungare il discorso rilevando come la pubblicazione del libro di Rubin negli anni Settanta consentirebbe di collocarlo proficuamente nel dibattito di allora. È un discorso che ho svolto altrove: la visione processuale dell’astrazione del lavoro da parte di Rubin costituisce un deciso passo in avanti rispetto a Colletti, e al tempo stesso converge con gli sviluppi altrettanto decisivi della teorizzazione del filosofo romano che furono apportati dal Napoleoni ‘marxiano’ dei primi anni Settanta, a partire dal chiarimento che l’ipostatizzazione e inversione soggetto-predicato si riproducono nel capitalismo sul mercato del lavoro (forza-lavoro) e nella produzione immediata (lavoro vivo). Napoleoni mostra inoltre come in Marx la deduzione del lavoro astratto dallo scambio (mercantile) vada articolata con la deduzione del lavoro astratto dal capitale in quanto lavoro vivo prestato dal lavoratore salariato (il riferimento è ai Grundrisse). Napoleoni chiarisce ancora che nel lavoro astratto come lavoro immediatamente privato e solo mediatamente sociale è intrinseca una dimensione ‘concorrenziale’: i lavori privati che si scontrano sul mercato sono da intendersi come i ‘molti capitali’, e da qui discende tutta la teoria dell’extraplusvalore e dell’estrazione di plusvalore relativo. Di qui basterebbe un passo per comprendere come il lavoro astratto, che è ‘in divenire’ nella produzione immediata, una volta soggetto alla sussunzione non solo formale ma anche reale del lavoro al capitale, diventa lui il soggetto che dalla produzione si realizza nella circolazione; e come a questo stadio dello sviluppo storico-sociale, dove le dimensioni concrete vengono al lavoro dal capitale, ormai non solo il valore ‘conta’ come lavoro (astratto), ma esso è nient’altro che lavoro astratto. L’astrazione reale si fa praticamente vera. Impossibile infine intervenire sul come questa prospettiva possa riconnettersi, tenuto conto degli scritti di Augusto Graziani, ad una rivendicazione della teoria del valore nella teoria macrosociale e monetaria dello sfruttamento. Non posso però esimermi dal tirare le file del discorso su Rubin sulle due questioni su cui questo mio scritto interviene, entrambe al fondo politiche. La prima cosa da dire, e su cui insiste Tagliagambe, è che di questa diatriba poco si capirebbe se non la si collocasse nelle discussioni in URSS sulla pianificazione. La posizione antagonista a quella rubiniana è che dietro la teoria del valore vi sarebbe un contenuto valido per ogni società, fondato sulla tecnicità fisica e la materialità – il marxismo delle forze produttive, insomma. “Le forme sociali non vanno pertanto ridotte al livello della produzione materiale e fondate su di esso […] Funzioni e forme sociali, allora, non competono alla cosa in sé, considerata da un punto di vista astrattamente materiale, ma alla cosa in quanto parte di un determinato contesto sociale”.[18] (Tagliagambe 1978, 159-160) Ancora Tagliagambe che commenta Rubin: “impostazione materialistica non è necessariamente quella che si fonda su oggetti materiali, ma può essere anche quella che descrive correttamente i contenuti con cui ha a che fare, cioè riesce effettivamente a fornire una conoscenza del proprio oggetto d’analisi” (Tagliagambe 1978, p. 165); con la prima impostazione costretta di conseguenza a confondere funzioni tecniche delle cose con le loro funzioni sociali. La linea di Rubin aveva una conseguenza immediata: non esauriva il problema della trasformazione e modernizzazione strutturale col binomio macchina-apparato statale. Semmai, Rubin chiedeva alla programmazione “un quadro organico e chiaro del tessuto della società che consentisse di operare scelte ponderate, che fossero in sintonia con l’effetta ‘richiesta’ sociale, degli obiettivi e delle finalità dello sviluppo delle forze produttive”, qualcosa che l’accelerazione staliniana semplicemente cancellò dal quadro. In un contributo successivo alla terza edizione, non considerato da Takenaga (ma di cui vi sono larghi estratti in Tagliagambe) – Lo sviluppo dialettico delle categorie nel sistema economico di Marx, ancora in “Sotto la bandiera del marxismo”, febbraio1929 - la situazione è esposta con lucidità: “Una forma sociale scaturisce da un’altra più semplice sotto l’influenza del mutamento delle forze produttive materiali. Essa non sorge però in uno spazio vuoto né sorge immediatamente come semplice riflesso passivo dello stato determinato raggiunto dalle forze produttive, al di fuori di ogni legame con le forme sociali e rapporti di produzione tra gli uomini.” (Tagliagambe 1998, p. 172) A Bessonov, che gli rimprovera di dedurre una forma dall’altra come circolo vizioso e vede in ciò un esempio di pensiero scolastico, Rubin rimprovera un’impostazione non dialettica, e aggiunge: “Il mio critico dimentica che sotto ogni forma sociale si nascondono i rapporti di produzione di molti milioni di uomini” (Tagliagambe 1998, p. 172). “La natura specifica dell’economia mercantile capitalistica risiede nel fatto che i rapporti sociali tra persone non si stabiliscono solo con riferimento ma mediante le cose stesse. È ciò che dà ai rapporti di produzione tra persone una forma ‘materializzata’, ‘reificata’, e genera il feticismo della merce, la confusione tra aspetti tecnico-materiali e socio-economici del processo produttivo, confusione eliminata dal nuovo metodo sociologico di Marx … Tale metodo esige da noi che ad oggetto d’indagine, anziché cose ossificate, isolata l’una dall’altra, si assumano processi fluidi, dinamici, legati l’uno all’altro”. (Tagliagambe 1998, p. 173 e p. 176) La seconda questione che volevo ricordare è già emersa sotterraneamente dalle parole di Rubin (e ulteriori citazioni potrebbero approfondire il punto) nelle recensioni precedenti, e cioè il rapporto Marx-Hegel. La polemica su Rubin si intreccia alla controversia in ambito filosofico tra ‘meccanicisti’ e ‘dialettici’, su cui ancora Tagliagambe è una miniera di citazioni. I dialettici, contro la posizione ‘riduzionistica’ per cui i fenomeni più complessi possono essere ridotti ai più semplici che ne costituiscono la base, si schierarono con Rubin. L’economista russo, preso nella tenaglia della grande svolta del 1929, pagò con il carcere e la vita la sua ‘eresia’. Su Marx tra Kant e Hegel era intervenuto Rubin nella terza edizione con parole che vale la pena di citare: “nella nostra considerazione metodologica il concetto di lavoro astratto precede direttamente quello di valore, e deve essere posto come base (contenuto e sostanza) del secondo. Non si deve dimenticare, a questo proposito, che sul problema del rapporto tra forma e contenuto Marx assume il punto di vista di Hegel contro quello di Kant. Quest’ultimo considerava la forma come qualcosa di estrinseco rispetto al contenuto, che aderisce dall’esterno ad esso. Per Hegel, al contrario, il contenuto non è un in sé a cui si aggiunga dal di fuori la forma; ma è piuttosto il contenuto stesso che nel corso del proprio sviluppo, si dà la forma già latente in esso. È questa la premessa essenziale, comune al metodo di Marx e di Hegel, e opposta a quello di Kant. Da questo punto di vista si deve dire che la forma di valore si sviluppa necessariamente dalla sua sostanza. È per questo che dobbiamo assumere il lavoro astratto, in tutte le proprietà sociali caratteristiche di una economia mercantile, come sostanza o contenuto del valore” (Tagliagambe 1998, pp. 94-95, corsivi miei) Raggiungiamo qui di nuovo la problematica per cui, pur essendo il valore attualizzato nello scambio finale delle merci, il movimento marxiano va dalla produzione immediata alla circolazione sul mercato finale delle merci, dal contenuto (come forma ‘latente’) alla forma. Il che è evidentemente possibile solo se quel contenuto è, per così dire, previamente ‘conformato’ da una ante-validazione monetaria (come a me pare si dia con il finanziamento monetario della compravendita di forza-lavoro, sulla base di certe aspettative sull’andamento della produzione e del mercato), e si tiene conto del condizionamento che impone una pre-validazione nella produzione, che anticipano la validazione finale sul mercato (il ciclo, o circuito monetario, parallelo alla sequenzialità del lavoro astratto). È il tema che riemergerà negli anni Settanta, ed è un tema anch’esso, a ben vedere, politico: perché la riscoperta della centralità del lavoro e della produzione come luogo ‘contestato’ fu imposta alla riflessione da ben reali lotte dentro i processi capitalistici del lavoro. Lotte che problematizzavano il rapporto tra forza-lavoro e lavoro vivo come era stato pensato dai vari marxismi, e che imponevano di ricondurre il problema della ‘costituzione’ della realtà cosale capitalistica alla natura conflittuale e potenzialmente antagonistica del ‘laboratorio segreto della produzione’. Ma di questo più avanti. Marx ‘perso nella traduzione’ Possiediamo a questo punto la gran parte degli elementi che ci possono consentire di proporre un quadro, sia pure approssimativo, del procedere dialettico dell’argomentazione all’inizio de Il Capitale. Prima di procedere oltre devo però prima render conto al lettore di alcune convenzioni che adotterò riguardo alla traduzione di alcuni termini hegeliani che strutturano il discorso di Marx.[19] Schein ha a che vedere con i fenomeni di superficie quando vengono considerati in se stessi come essenziali: in quanto tale si tratta spesso di una parvenza, illusoria e ‘volgare’. Hegel scrive nella Scienza della Logica: “L’essenza che proviene dall’essere par che gli stia di contro. Questo essere immediato è anzitutto l’inessenziale. Ma in secondo luogo esso è più che semplicemente inessenziale; è essere privo di essenza, è parvenza (Schein). In terzo luogo questa parvenza (Schein) non è un che di estrinseco, altro rispetto all’essenza, ma è la sua propria parvenza. Il parere dell’essenza (Scheinen des Wesens) in lei stessa è la riflessione (Hegel 1812, pp. 437-38)”. Riporto il commento di Suchting: “In the first main sub-division of the Doctrine of Essence it is the Essence that has ontological superiority, as it were. The surface is a Schein in the two-fold sense of the word in German: it is a reflection, but also a mere seeming. Indeed it is a mere seeming just because it is a mere reflection: insofar as it is taken to be a reality itself (as it is in the Doctrine of Being), but is in fact wholly a product of the Essence, it is only a semblance, a mere illusion of reality.” (1986, p. 38: corsivo mio). La traduzione opportuna per il verbo, erscheinen, è ‘sembrare’. Erscheinung ha a che vedere con questi stessi fenomeni di superficie per come ‘appaiono’ o ‘manifestano’ se stessi. È la manifestazione fenomenica necessaria dell’essenza, il modo attraverso cui quest’ultima non può che apparire a livello fenomenico; ma in Marx essa è allo stesso tempo una manifestazione spostata delle leggi essenziali, da cui la ‘deviazione’ delle Verrückte Formen. Qui la traduzione opportuna mi pare essere ‘apparenza’ o ‘manifestazione (fenomenica)’. Hegel scrive: “L’essenza deve apparire (erscheinen) […] in quanto è fondamento, si determina realmente, mediante la riflessione sua che toglie se stessa o rientra in sé. In quanto inoltre questa determinazione, o l’esser altro della relazione fondamentale, si toglie nella riflessione del fondamento e diventa esistenza, le determinazioni della forma hanno qui un elemento di sussistenza indipendente. La loro parvenza (Schein) si compie diventando apparenza o fenomeno (Erscheinung). […] Il fenomeno (Erscheinung) è quello che è la cosa in sé, cioè la sua verità. Questa esistenza soltanto posta, riflessa nell’esser altro, è però parimenti l’oltrepassar se stessa per entrare nell’infinità. Al mondo del fenomeno (Erscheinung) si contrappone il mondo riflesso in sé, il mondo che è in sé e per sé.” (Hegel 1812, pp. 537-538) Ancora una volta il commento di Suchting è utile: “The course of the argument through this first sub-division of the Doctrine of Essence … is, in brief, an exposition of the difficulties in the way of giving any account of Essence independently of its Schein. The culmination of the first sub-division is the category of ‘Matter and Form’. The world is now conceived of as fully manifest ‘matters’ partly constituted by their inter-linked ‘forms’. What was previously Schein now becomes the essential moment … Schein becomes Erscheinung – ‘Appearance’ – when it is grasped in the real network of its relations.” (Suchting 1986, pp. 38-39)[20] L’ ‘essenza’ manifesta fenomenicamente se stessa in virtù di una ‘esposizione’, di una ‘presentazione’: una Darstellung. Questo termine è spesso tradotto con ‘rappresentazione’. Anche se in passato ho usato io stesso ‘rappresentazione’, ora preferisco ‘esposizione’ – proprio perché è meno un termine del linguaggio ordinario ed è più tecnico, aiutandoci a comprendere il tessuto dialettico del sistema di Marx. Rende anche più facile comprendere perché questa ‘presentazione’ non sia in ore-lavoro ma in denaro. La Darstellung è l’esposizione processuale del sistema che è necessaria dal punto di vista della ricostruzione logica del tutto. Se ciò che viene esposto, viene riconosciuto come risultato di un complesso processo di mediazione, allora è una ‘apparenza’, una ‘manifestazione fenomenica’; altrimenti è una ‘parvenza’, un’ ‘illusione’. È Vorstellung che corrisponde a rappresentazione, mentale o concettuale: è un’anticipazione ‘ideale’, il modo attraverso cui gli agenti percepiscono le forme capitalistiche. Interpreto Ausdrücken in un senso più forte di quanto normalmente venga fatto, ovvero come ‘esprimere’, inteso come un movimento che dall’interno (come realtà ‘latente’ o ‘potenziale’) va verso l’esterno (la forma ‘oggettualizzata). È il processo ‘genetico’ che ‘costituisce’ la Darstellung.[21] Come cercherò di sostenere tra poco, nella critica dell’economia politica marxiana, quale che sia l’interpretazione corretta di Hegel, la Darstellung non può essere ridotta esclusivamente “all’esposizione del sistema nella sua stringenza concettuale”, ovvero alla sua “autoesposizione rispecchiata nella mente del filosofo che fa scienza e che contempla la cosa stessa nel suo farsi” come scrive Fineschi (in Marx 1867, p. 1323). Dal sito consecutio temporum
Posted on: Tue, 29 Oct 2013 12:56:46 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015