Il settembre del nostro incontro. Italo Zingoni Racconto - TopicsExpress



          

Il settembre del nostro incontro. Italo Zingoni Racconto breve --------------------------- Mio padre si alzò di buon mattino in quel giorno ancora caldo di metà settembre. Guardò il cielo dai vetri della finestra. Qualche nuvola sparsa nel soffuso chiarore dell’ alba interrompeva l’ azzurro ancora mischiato con il rosa che il sole nascente insinuava nell’orizzonte lontano. Le colline, in controluce, apparivano come distese sul letto verde muschio della campagna. Sinuose, le loro curve definivano il confine di quel piccolo mondo, oltre cui nemmeno il pensiero riusciva ad addentrarsi. “Sarà una bella giornata-disse fra sé-e bisognerà sfruttarla, anche se è domenica”. In lontananza sei rintocchi di campane gli ricordarono che era ora di scendere nella stalla. Ancora al caldo, dal mio letto, osservavo la sua imponente figura e il suo volto stagliato nel chiarore della finestra. Mio padre era un uomo giovane allora e a me pareva già vecchio. La vita di campagna, il lavoro duro e le poche soddisfazioni lo resero presto poco incline al sorriso e ai complimenti. Infatti lo chiamavano “I’ crudo” e lui a volte si arrabbiava per questo nomignolo poco simpatico,” ma in fondo,- diceva poi a mia madre- me lo merito. Non son di certo uno zuzzurellone ‘ome ce n’ è tanti… me la son sudata, io, la vita…” ------------------------- La Villa sovrastava il nostro podere e vista dal basso appariva enorme, con le due torrette che parevano toccare il cielo. A quell’ora del mattino poi, il silenzio incombeva sulla campagna e la suggestione del “castello” (così lo chiamavamo noi ragazzi) era ancora più grande. Vi abitavano i Padroni e quando arrivavano dalla città, i contadini andavano a riverirli portando loro quanto di meglio avevano in casa. Mio padre invece rifiutava questo rito e mia madre prendeva sempre il suo posto scusandolo ogni volta. “Ringrazia Gianni da parte mia – diceva il Padrone – è tanto che non si fa vedere, spero che stia bene” Mia madre con un gesto di approvazione e un galante sorriso cercava di metterci una toppa. ------------------------- “Dormi ancora ‘n po’, bighellone! –mi disse con aria imbronciata- che oggi sarà una giornata fatiosa. Devi venì anche te a coglie l’ uva,’ un ti crede di scansalla anc’ oggi. Io scendo a governà le vacche, poi mungo la Nina e vi porto i’ latte. La tu’ mamma è già parecchio ‘e s’è levata, pora donna ! Quando sarò pronto co’ i carro e le bigonce si parte, e te tu vieni ‘on noi ‘he le braccia tu ce l’ha’ bone e la bocca anche meglio !” Mi rigirai nel letto facendo finta di niente. Sapevo bene di essere in colpa. --------------------------------- Il sabato infatti, tornato dalle medie, avevo mangiato in fretta perché dovevo andare all’ oratorio per la dottrina. Mio padre brontolava con la mamma perché “ i’ prete un doveva fa’ dottrina i’ sabato sera, perché ne’ ‘ ampi c’ è da lavorà sodo, speciarmente di ‘esti tempi !” e “che se non si vendemmiava sverti sverti magari bastava una grandinata a sciupa’ r’ lavoro di tutto l’anno !” “Quell’ attri giorni e’ c’ ha da studià, poerino !, ‘r sabato ci manca la dottrina !” Per me invece era una buona scusa per scansare il lavoro nei campi, che non mi piaceva affatto ! Poi ci s’ incontrava con tutti i ragazzi del paese e si giocava “di morto a pallone” invece di stare ad ascoltare Suor Lucia e la sua dottrina. Ma quel sabato poi era stato particolare. Una volta arrivati alla Chiesa e entrati nel cortile di dietro, c’ eravamo messi a giocare mentre aspettavamo la Suora. Padre Eugenio ci faceva da allenatore e anche lui, sudato marcio, correva come un matto. Tre o quattro ragazzine stavano in disparte con il libro sottobraccio e ci osservavano parlando tra loro. Il pallone non era certo un gioco da femmine!. Lei entrò e il nero dei suoi capelli contrastava contro il bianco della piccola porta. I miei occhi si fermarono nei suoi e quell’azzurro mi entrò dentro come un raggio di sole fende a volte il grigio delle nuvole nel cielo d’ inverno. Mi arrivò un pallone facile da buttare in porta e io che ero considerato il più bravo di tutti lo sentii colpirmi invece in pieno viso e caddi a terra quasi svenuto. Mi usciva del sangue dal naso ma appena rialzato dissi “e un’ è nulla” e me ne andai verso il pozzo per lavarmi. La ragazzina nuova era lì e un po’ mi vergognavo per la brutta figura. “Ti verrà un bel naso gonfio – mi disse – mamma che pallonata!” “E… e tu chi sei ? – chiesi un tantino imbarazzato. “Mi chiamo Sara, ciao ! “ “Ciao” risposi. “Sono ospite della Villa dei Marchesi, e sono venuta in Chiesa per una preghiera, poi ho sentito un gran chiasso qui dietro e mi sono affacciata…” “Mi chiamo Valerio, piacere.. – e le porsi la mano ancora bagnata per l’ acqua che mi stavo passando sul viso – Per quanto sarai su alla Villa ?” Non sapevo cosa altro chiedere in quel momento. “Qualche giorno ancora…qui però è troppo bello e non vorrei andarmene mai!” “Beati noi che ci viviamo allora ! Però sapessi che noia !” La guardai e lei ricambiò il mio sguardo, fissandomi negli occhi. Non disse altro e se ne andò con il solito ciao. “Ci si vede domani alla messa ? –provai a chiedere! – “Chissà – disse lei – comunque semmai noi si viene a quella delle nove e mezzo !” ---------------------------- Nel letto però non ascoltavo le parole di mio padre. Il suo volto, bianco come una nuvola bianca nel cielo d’ estate, i sui capelli, neri come un monte di carbone nel forno del pane, la voce che sprizzava simpatia come il suo sorriso che Le creava due fossette nelle guance, mi erano rimasti impressi negli occhi e credo anche nel cuore. ---------------------------- Mi alzai con estrema fatica e feci colazione con il latte appena munto e il caffè fatto con l’ orzo tostato nel forno di casa. Il pane caldo abbrustolito sulla brace e inzuppato nel caffellatte era buonissimo, ma il mio pensiero era pieno di sensazioni strane e non avevo voglia né di mangiare né tanto meno di andare a vendemmiare. Però la voce di mio padre mi riportò alla realtà e scesi di corsa le scale della vecchia casa. Il carro era pronto, pieno di bigonce e le vacche avevano già con il giovo attaccato al collo. La vigna non era molto lontano da casa. Vi arrivammo che il sole ancora non si vedeva far capolino all’orizzonte, sebbene la sua luce irradiasse il cielo rendendo magico il quadro incorniciato dai contorni delle colline. “Babbo, però alle nove e mezzo io vado alla messa – dissi, con la speranza che questa buona intenzione venisse in qualche modo compresa – Padre Eugenio ha detto che ci vuole tutti, oggi !” “Ma neanche per sogno! E c’ è da lavorà se’ un tu l’ ha’ ancora ‘apito!” “E fall’anda’ no! –disse mia madre- in fondo va ‘n chiesa, è bene che ci s’abitui, un tu lo vorra’ mia fa diventà come te!” “E un’ è questione- rispose il babbo – a parte che a me i preti ‘un mi garbano e tu lo sai, ma son lo stesso un buon cristiano! Ma l’ uva ‘un pole aspettà le messe e compagnia bella.” “Ma è questione d’ un ora e poi torno – insistevo !- ‘un more mia nessuno !” “E more, more…e te tu fai ‘ome dio io, maremma troia.!” E con questa imprecazione tutti capimmo che non se ne faceva di nulla.! “Mi dispiace per Sara –pensai- ma questo è duro ‘ome ‘r muro! I’ crudo, già” ----------------------------- A tarda sera, le bigonce piene d’ uva nera bella matura e sana, riprendemmo la strada verso la Villa per portare il raccolto nelle cantine della fattoria. L’uva bianca invece la mettevano nei cesti perché era destinata, una volta selezionata, ad essere stesa sui cannicci ad appassire, che poi ci facevano il vin santo. Era bello per noi ragazzini andare alla fattoria, specialmente nei giorni della svinatura e scendere nelle cantine dove il profumo intenso dei mosti e delle vinacce ci riempiva di una certa euforia, come se quell’odore ancora acre nel fondo dei tini preludesse ad una sbornia collettiva. Lo strettoio funzionava a pieno ritmo e i contadini si alternavano a spingere le pale di ferro. Il mosto usciva dalla bocca di quella specie di mulino come sgorgasse da una sorgente. Poi ci si perdeva nella frenesia del lavoro e tutti avevano il loro compito. Scaricare, svuotare, stringere, riempire…un vociare continuo di comandi e rimbrotti, di scherzi, parolacce e parecchie bestemmie cui nessuno faceva caso. Uno spettacolo da non perdere e da non dimenticare. Come lei, che mi apparve un’ altra volta all’improvviso, nella luce del tramonto. “Meno male che venivi alla messa ! A me non si può dare buca…” Però sorrideva. “Dillo ar mi’ babbo – cercai di scusarmi, e del resto era vero. Uscimmo nel giardino e ci incamminammo per i sentieri del parco. Ad un tratto la sua mano prese la mia e il mio cuore impazziva. Camminammo ancora per un po’ di tempo e lei mi raccontava della sua vita in città e della scuola che frequentava, con le monache che non sopportava e i suoi genitori che volevano fare di lei una “signorina bene”, mentre invece lei amava la campagna, gli animali, gli oliveti e le viti e il vino… “Signorina ! Signorina ! – D’ un tratto l’ incantesimo si ruppe- E’ un po’ che la cerchiamo, lo sa bene che deve rientrare per la cena ! Il Marchese vuole che tutti siano a tavola insieme e non sopporta di aspettare!” “Vengo subito Matilde! Un attimo solo! Di’ a mio padre che mi si è rotta una scarpa e che sto arrivando piano piano…” “Ma tu chi sei ? – Le chiesi già sapendo la risposta – “Perché ?. Non potevo dirti un’ innocente bugia ?” sospirò profondamente. Mi guardò con un’ intensità che certo non ho mai dimenticato. Si avvicinò e mi sfiorò la bocca con un bacio. Poi corse via verso la Villa, con le scarpe in mano. “Ci vediamo – si voltò radiosa nel suo vestitino rosato- verrò qui a fare il miglior vino del mondo. Te lo prometto.” Rimasi così, con il sapore di quel bacio sulle labbra e il profumo delle cantine e del vino rosso che ancora mi inondava le narici. Italo Zingoni. -Inedito- t.d.r.
Posted on: Thu, 19 Sep 2013 17:46:53 +0000

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