OBIETTIVO SU PELUSO-LIGRESTI-Gianni Barbacetto per il Fatto - TopicsExpress



          

OBIETTIVO SU PELUSO-LIGRESTI-Gianni Barbacetto per il Fatto quotidiano Il triangolo no: perché il rapporto è a quattro. Mediobanca, Isvap, Consob. E i giornalisti. È in questo intreccio mistico che cresce la fusione tra Fonsai e Unipol. Le autorità che dovrebbero controllare (lIsvap le assicurazioni, la Consob le società quotate) invece di essere arbitri neutrali tifano in modo smaccato per la compagnia bolognese controllata dalle coop: è fra le sue braccia che deve finire Fonsai, portata da Salvatore Ligresti sullorlo del crac. Così ha deciso Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, che chiede di non esaminare la proposta con gli altri: cioè la richiesta della Palladio di Matteo Arpe e della Sator di Roberto Meneguzzo. Usciti di scena i Ligresti, il matrimonio va celebrato con Unipol: questa è la via maestra. Nei mesi della primavera-estate 2012 le nozze sono preparate con cura, fino al 19 luglio in cui avviene laumento di capitale che porta la compagnia bolognese all81 per cento di Premafin, la holding di Salvatore Ligresti. Ora le carte dellindagine milanese del pm Luigi Orsi, appena depositate, rivelano lincredibile groviglio tra controllati e controllori. Le intercettazioni telefoniche realizzate dai carabinieri del Noe dimostrano che gli arbitri tifavano pesantemente per una delle due squadre in campo. Protagonista di primo piano è la vice del presidente dellIsvap, Giancarlo Giannini (indagato dalla Procura di Milano per corruzione e calunnia), e cioè Flavia Mazzarella. È lei a tenere i contatti con gli altri protagonisti delloperazione e in particolare con Carlo Cimbri, amministratore delegato di Unipol. Ma è anche molto attenta ai giornalisti e a quanto scrivono i giornali. NOTIZIE E INDISCREZIONI A DOPPIO SENSO Il più assiduo è Riccardo Sabbatini, che allora scriveva sul Sole24oree oggi lavora allAnia, la Confindustra delle imprese assicuratrici. Telefona spesso a Mazzarella, chiede notizie (comè naturale per un giornalista), ma anche gliele dà. Come quando il 1 giugno riporta ciò che ha sentito dagli advisor di Fonsai, o il 9 le riferisce le indiscrezioni provenienti da Mediobanca dove dicono che potrebbe non esserci lassemblea di Premafin perché, se le banche non ristrutturano i crediti e non viene approvata loperazione, non avrebbe senso fare lassemblea. Molto apprezzato da Mazzarella è anche Massimo Mucchetti, allora commentatore del Corriere della sera e oggi senatore del Pd. La sintonia tra i due è forte, perché Mucchetti è (legittimamente) favorevole al matrimonio con Unipol e lo scrive chiaramente sul suo giornale. Il 25 giugno, Mazzarella chiama un dirigente di Mediobanca, Stefano Vincenzi, che le detta il numero di cellulare di Mucchetti e le dice che questa persona domani è a Roma e non ha nulla in contrario a prendersi un caffè con lei. Il contact name è Lorenza (probabilmente Lorenza Pigozzi, addetta stampa di Mediobanca). ARTICOLI CHE PREOCCUPANO Ma cè anche chi dà invece molte preoccupazioni alla signora dellIsvap: sono i giornalisti di Repubblica Giovanni Pons e Vittoria Puledda e il cronista del sito Linkiesta Lorenzo Dilena, che nei loro pezzi mettono in rilievo anche gli aspetti critici delloperazione Fonsai-Unipol. Pons e Puledda raccontano anche quanto dice uno studio di Ernst&Young denominato Plinio, secondo cui i conti reali di Unipol, che ha la pancia piena di titoli strutturati, sono ben diversi da quelli scritti nei bilanci ufficiali. Dilena poi pubblicherà Plinio integrale sullLinkiesta. Se sono veri i numeri di Plinio, la fusione non sarebbe più lauspicato salvataggio della disastrata Fonsai da parte di unUnipol in ottima salute, ma sarebbe invece un matrimonio riparatore, in cui si uniscono due debolezze per risolvere i problemi della banca creditrice di entrambe, e cioè Mediobanca. Il 23 giugno, Mazzarella chiama il suo presidente, Giannini, e gli parla dellarticolo apparso quel giorno su Repubblica . Mazzarella lo giudica vergognoso. Indica anche chi ritiene essere la fonte interna, che presume spalleggi la proposta Sator-Palladio: è Giovanni Cucinotta, capo di una delle due divisioni della Vigilanza di Isvap (poi spostato). Mazzarella e Giannini parlano del comportamento infedele e scorretto di una persona che non ha firmato allultimo momento... Mazzarella parla dellapertura di un procedimento disciplinare nei confronti di Cucinotta. Dice che le hanno proposto di parlare con Dilena, ma non ne vale la pena e sta pensando di parlare con Mucchetti. Parole dure, il 25 giugno, per Salvatore Bragantini, ex consigliere Consob in quel periodo consigliere Fonsai su nomina di Sator-Palladio: Mazzarella dà del bandito a Bragantini e dello smidollato a Marco Cecchini. Questultimo è laddetto stampa di Isvap, accusato di prendere i soldi da noi e lavorare per altri. Cucinotta è un truffatore e un mascalzone. CONTROLLATO E CONTROLLORE Intanto il controllato, è cioè Cimbri di Unipol, chiama il controllore, Mazzarella di Isvap, con cui scambia informazioni, preoccupazioni e documenti (una comparazione da mandare al consulente... dice che se ha già qualcosa domani gliela porterà sicuramente) e progetta incontri a Roma con lei e con il presidente Giannini. Qualche mese dopo, l11 dicembre 2012, Pons e Puledda scriveranno su Repubblica un articolo (Consob fa le pulci ai conti Unipol) che costerà loro lapertura di uninchiesta amministrativa di Consob per aggiotaggio informativo. In realtà è una mossa per ottenere i loro tabulati telefonici, poi effettivamente consegnati alla Consob dalla Procura di Milano, nel tentativo di individuare la fonte dei due cronisti. Di Giovanni Pons per la Repubblica È una storia di siciliani emigrati a Milano quella che in questi giorni sta travolgendo la famiglia Ligresti e la famiglia Peluso, in un affaire che sta minando le fondamenta del governo Letta e la credibilità del suo ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri in Peluso, accusata di essersi adoperata a favore della carcerata Giulia Ligresti. Un abbraccio quantomeno incauto, che trova una spiegazione solo se si inquadra in un contesto più ampio, che ricomprenda tra i protagonisti anche Mediobanca, merchant bank milanese fondata nel 1946 da Enrico Cuccia, anchegli siciliano trapiantato a Milano. E che mai sarebbe finito sotto i riflettori se i tradimenti non avessero a un certo punto preso il sopravvento sulle amicizie e sui patti occulti, che hanno per anni contraddistinto la storia di queste famiglie. Una storia che il pm milanese Luigi Orsi sta faticosamente, con la sua inchiesta, cercando di ricostruire anche nei suoi aspetti più incoffessabili. BORSA E IMMOBILI «La mia avventura è iniziata negli anni ‘50 quando sono arrivato a Milano come ufficiale dellAeronautica - racconta Salvatore Ligresti in uno dei tre interrogatori a cui ha accettato di rispondere - . Agli inizi degli anni ‘60 ho lavorato nella progettazione immobiliare e progressivamente ho iniziato a svolgere unattività imprenditoriale immobiliare. Sono stato agevolato dal fatto di aver conosciuto persone importanti che mi hanno fatto crescere. Lagente di Borsa Aldo Ravelli mi ha aiutato ad acquisire azioni della Liquigas, società allora presieduta dallavvocato Antonino La Russa (padre di Ignazio, altra famiglia di siciliani trapiantati a Milano negli anni ‘60, ndr.)». Oggi pare abbastanza incredibile constatare quanta strada Ligresti sia riuscito a percorrere grazie alla sua rete di persone collocate nei posti giusti. «Ho anche conosciuto Arcaini - prosegue nel racconto - il presidente di Italcasse che mi ha concesso dei fidi che ho impegnato nella costruzione di un grattacielo a Piacenza. Oltre allattività di progettazione, agli investimenti in Borsa ed alla costruzione di immobili ho iniziato ad acquisire aree, specialmente nella zona sud di Milano. Io sono un ingegnere e mi occupavo della parte tecnica mentre la parte amministrativa è stata storicamente seguita dai miei collaboratori che lavoravano con Carlo Aloisi, un immobiliarista che era anche presidente della Banca Ibi e dellUnire, lassociazione degli appassionati di equitazione». GAVETTA CON BERLUSCONI In un ventennio le conoscenze giuste hanno dunque spinto Ligresti a diventare un uomo molto potente, al centro di un crocevia fatto di immobili, rastrellamenti di Borsa, banchieri influenti ed esponenti delle istituzioni in grado di facilitare la sua ascesa. In questo Milieu così blasonato non poteva mancare Silvio Berlusconi. «Ho una particolare consuetudine con Berlusconi, siamo amici di vecchia data, veniamo dalla gavetta e gli incontri sono tanto frequenti quanto informali. Con il presidente Berlusconi si parla di tutto», racconta Salvatore quando gli si chiede di spiegare perché ha interceduto a favore dellex presidente dellIsvap Giannini, accusato di corruzione. Ed è di vecchia data anche il contatto con la famiglia Peluso, che sembra avvenire quasi per caso, nella Milano degli anni ‘70, come descrive Piergiorgio, figlio della Cancellieri, oggi ministro della Giustizia, e di Sebastiano Peluso, nel suo interrogatorio. «Negli anni ‘70 mio padre gestiva una farmacia che si trovava vicina allo studio medico esercitato da Antonino Ligresti. È nata così una conoscenza familiare. Ho avuto rapporti di lavoro con il gruppo Ligresti già nel 1999, quando lavoravo in Mediobanca alle dipendenze del dott. Pagliaro, mi ero occupato della Premaimm». LA RETE DI MEDIOBANCA A quel tempo Salvatore era appena uscito dalla bufera di Tangentopoli, non senza acciacchi. Finì dietro le sbarre per corruzione ma anche durante la detenzione il suo network si è attivato. Il tam tam della finanza milanese narra che Cuccia mandò allavvocato di Salvatore un messaggio da vero siciliano: «A quellora affacciati alla finestra e se vedi passare per strada Maranghi (lex dg di via Filodrammatici) allora vorrà dire che Mediobanca non ti ha abbandonato». E così fu. Tocca così a Peluso farsi le ossa da banchiere nel salvataggio immobiliare dei Ligresti e poi dal 2002 nel gruppo Capitalia si imbatte ancora nelle società di Don Salvatore. «In questo periodo ricordo due operazioni importanti con il gruppo Ligresti: una prima ristrutturazione del debito che il gruppo Sinergia aveva nei confronti di Capitalia e un nuovo finanziamento erogato da Capitalia a Premafin». Mentre Peluso si occupava della parte immobiliare in Mediobanca decidono di sfilare la Fondiaria dalla morsa degli Agnelli e di offrirla in sposa alla Sai di Ligresti. Unica raccomandazione di Maranghi: smetterla con la gestione tutto in famiglia. LA STAGIONE DEI TRADIMENTI Ma senza Cuccia il patto non regge e comincia la stagione dei tradimenti. É Ligresti il primo a rompere le fila e ad allearsi con le banche di sistema per far fuori Maranghi. Poi cerca la sponda con lUnicredit di Profumo portando in dote la conoscenza con Berlusconi, quindi tenta lo sganciamento attraverso laccordo con la francese Groupama. A Piazzetta Cuccia scatta lallarme rosso, Ligresti non è più affidabile, bisogna sfilargli la Fonsai (il gioiello) per metterlo in mani più sicure. E chi può essere lesecutore di una così complessa operazione? Ancora Peluso, che accetta di passare armi e bagagli nella compagnia. Ligresti è contento, pensa di essersi messo in casa uno della sua cerchia, «uno che ha visto crescere fin da bambino », come dice il teste della procura Gismondi. E invece è linizio della fine. Il pentolone della galassia Ligresti viene scoperchiato, Peluso figlio lautamente ricompensato per il suo lavoro, con la famiglia di Paternò in galera al completo. È a questo punto che mamma Peluso, diventata ministro, si adopera per segnalare la delicata situazione di salute di Giulia Ligresti. Ma così facendo finisce anchessa nella bufera. Lultimo affondo, per il momento, è di Salvatore: il 19 dicembre, dai domici-liari, ricorda al guardasigilli che non è lì per caso: «Mi feci latore del desiderio dellallora prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione. Lattuale ministro Cancellieri è persona che conosco da moltissimi anni e ciò spiega che mi sia rivolta e che io abbia trasmesso la sua esigenza al presidente Berlusconi. In quel caso la segnalazione ebbe successo perché la Cancellieri rimase a Parma». Ma la ministra smentisce tutta la ricostruzione e resta al suo posto. LARUSSA Di Walter Galbiati per la Repubblica Le loro famiglie, originarie della siciliana Paternò, si frequentano da anni. Anzi, da generazioni. Eppure, quelle parcelle pagate dal gruppo Fonsai di Salvatore Ligresti allavvocato Ignazio La Russa quando - tra il 2008 e il 2011 - era ministro della Difesa del governo Berlusconi, lasciano spazio a cattivi pensieri. A scoprirle è stata linchiesta del pm della procura di Milano Luigi Orsi che vede accusato di corruzione e calunnia lex presidente dellIsvap Giancarlo Giannini, e di corruzione Salvatore Ligresti. Il finanziere avrebbe promesso al capo dellistituto di vigilanza sulle assicurazioni private di raccomandarlo a Silvio Berlusconi per una nomina allAntitrust, in cambio della protezione goduta per tutta la durata del suo mandato. Ebbene, in una storia che intreccia sempre di più politica e cattiva finanza, dalle carte di Milano sono emersi numerosi pagamenti alla famiglia dellex ministro La Russa: al nipote Vincenzo, al figlio Geronimo. Ma soprattutto a lui, che con un primo pagamento da Milano Assicurazioni - nel 2009 - incassa 198.928 euro per altre prestazioni di servizi. Altri 98mila euro nello stesso anno da Fondiaria Sai per parcelle per spese sinistri. E ancora nel 2010, 76mila euro da Fondiaria Sai e 150mila da Milano Assicurazioni. Onorevole, negli anni in cui rivestiva un ruolo istituzionale importante ha ricevuto 450mila euro dalla famiglia Ligresti. Come le spiega? «In realtà mi sono auto-sospeso dallOrdine degli avvocati quando sono diventato ministro. Ho mandato due lettere entrambe datate 28 luglio 2008, la prima al presidente di Milano, Paolo Giuggioli, e la seconda al segretario generale dellAutorità Garante delle comunicazioni e del mercato, in cui dichiaravo di non prendere nuove pratiche e che quelle che avevo le affidavo a colleghi». Ma il dubbio è che quei lavori le siano stati affidati proprio per la sua attività politica... «Lo studio legale La Russa lavora per la Sai fin da prima dellarrivo dei Ligresti. Io ho iniziato la mia collaborazione alla fine degli anni 70, tra il ‘76 e il ‘78 con uno studio distinto da quello di mio padre e di mio fratello. Ligresti entra in Sai a metà degli anni 80, non ricordo nemmeno quando, ma sicuramente io ero già consulente. Mi sono sempre dovuto trattenere. Se avessi voluto fare lavvocato del gruppo, avrei guadagnato cento volte di più che fare il deputato» Le sembrano pochi 450mila euro in due anni? «Ho rivisto tutte le carte: si tratta di circa 300 pratiche da poco più di mille euro. Con quei soldi ci si paga a stento gli avvocati che ci lavorano, anche perché io sono impegnato a fare altro. Io capisco non mi arrabbio: se uno non fosse stato ministro, non ci sarebbe stato nulla di male. Ma mentre ero ministro ho interrotto tutti i rapporti professionali e non ero per nulla obbligato, puoi fare ministro e avvocato se hai pratiche che non riguardano il tuo dicastero. Comunque ho sospeso lattività, non sono più andato alle udienze. Ho ripreso la toga adesso per difendere Sallusti, la prima cosa che ho fatto. Poi basta guardare la dichiarazione dei redditi: lanno scorso non ho parcellato niente. Nel 2011, sono passato da redditi per 500mila euro, a uno stipendio di solo parlamentare». Nel 2009 e nel 2010 comunque ha fatturato per i Ligresti, e la dicitura «altre prestazioni di servizi» non è molto chiara? «Sono tutte parcelle professionali relative agli anni precedenti e fatturate successivamente, non ho emolumenti, alcune sono sinistri, altre pratiche sanitarie, per i medici, poi non so loro come le classifichino ». Con il gruppo Fonsai lavora anche suo figlio, Geronimo. «Quando è morto mio padre nel 2004, alla Sai, siccome sanno che è un avvocato giovane e brillante hanno voluto creare una sorta di prosecuzione, loro non io. Fra laltro il suo primo nome è Antonino, come il nonno. Hai vantaggi, ma molti svantaggi a essere figlio di un ex ministro. Il suo rapporto con Fonsai inizia quando lavora per lo studio Jaeger». E ora lei che rapporti ha mantenuto con i Ligresti? «Avrei voluto parlare con i Ligresti, ma siccome vi conosco, voi giornalisti... sarei andato a trovarli anche in carcere. Io, Giulia e Jonella, le ho conosciute quando sono nate... gli altri avvocati hanno un rapporto di lavoro. Non mi interessa se sono colpevoli o innocenti, umanamente mi dispiace, però mi sono dovuto astenere da ogni contatto con lo stretto entourage familiare». Non come il ministro Cancellieri... «La Cancellieri ha fatto una telefonata umanamente comprensibile, ma troppo avventata. La telefonata con il fratello non centra niente, ci posso parlare anchio. Lunica telefonata imprudente, che capisco benissimo e che è evidente che sarebbe stata strumentalizzata, è quella con la famiglia». INTERNI 1. RENZI E LETTA HANNO IN COMUNE UNA SOLA COSA: PAURA DI GRILLO (‘AL VOTO CI MASSACRA) di Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera Matteo Renzi vede allontanarsi la data delle elezioni. Il 2015 è la scadenza ufficiale. Ma è il 2016, confessava ieri un ministro, lobiettivo reale (anche perché per allora, malignano i sostenitori del sindaco, Letta avrebbe letà per salire al Quirinale). Quale che sia lanno giusto, il sindaco ha paura che nel frattempo lui e il Pd, stretti tra palazzo Chigi e il Quirinale, che dettano la linea, muoiano di «consunzione». Teme che lopinione pubblica e lelettorato «abbandonino» il centrosinistra, che «i grillini ci massacrino». Insomma, il futuro segretario del Pd non vuole, come ha spiegato in questi giorni ai suoi, che «limmobilismo» del governo, la sua politica «moderata» e in alcuni casi «conservatrice», frutto di una maggioranza non politica e innaturale, finisca per penalizzare il Pd. Per tutte queste ragioni Renzi sta accelerando il suo pressing nei confronti di Letta e dellesecutivo. Anche perché, e questo non è certamente un particolare di poco conto, nella primavera prossima si voterà per le europee. E il sindaco vorrebbe riuscire ad «attirare gli elettori scontenti del Movimento 5 Stelle» e, soprattutto riprendere quei milioni di voti che il partito ha perso alle politiche del febbraio scorso. Sennò, ragiona con i fedelissimi, cè veramente il rischio che i Cinquestelle diventino il primo partito. Perciò cè chi tra i suoi lo vorrebbe capolista in più circoscrizioni. E per lo stesso motivo Renzi non darà mai e poi mai il posto del numero uno nella lista che il Pd presenterà al Sud per le Europee a Massimo DAlema. Quellappuntamento elettorale è la sua vetrina e non si può concedere il lusso di presentarsi con quello che lui definisce, con un pizzico di disprezzo, «il vecchio Pd». Il che significa che lex presidente del Consiglio dovrà accontentarsi di unaltra posizione, più in basso. Cè poi un obiettivo più immediato nel Renzi onnipresente in tv e perennemente parlante e dichiarante. Riguarda le primarie. Lobiettivo, spiegava laltro giorno il responsabile Comunicazione e Cultura del partito Antonio Funiciello, un veltroniano che ora sta con Renzi e che è uno dei più attivi e fattivi a Roma di quella componente, è raggiungere almeno quota due milioni. Non è tanto. Un milione in meno delle altre volte. Ma con laria che tira nellelettorato di centrosinistra nei confronti del Pd e del governo quello è un traguardo ambizioso e non è detto che sia così facilmente raggiungibile. Per questa ragione Renzi si sta dando un gran da fare («La storia della Cancellieri non ci ha certo aiutati», si è lamentato). E, comunque, per scaramanzia e non solo, Renzi fa sapere che per lui il 50 per cento sarebbe già un buon risultato. In realtà il sindaco punta anche al voto dei grillini alle primarie. Motivo per cui i suoi toni si sono alzati, mentre i Cinquestelle, proprio per arginarlo, sono partiti allattacco di De Luca. Nelle parole del Renzi scoppiettante (e dilagante), che incalza Letta e il governo, che dichiara apertamente di non venerare Napolitano, però, non tutti i messaggi vanno letti in chiave di pressing sul governo. Tra le righe, cè anche un chiaro messaggio al partito e agli avversari interni: «Non pensiate che io, una volta eletto segretario, venga a fare il passacarte». E questo deve essere chiaro anche ai gruppi parlamentari che, essendo stati scelti in maggioranza dal vecchio gruppo dirigente e da Bersani, pensano di logorare il sindaco di Firenze. Se non altro perché sarà poi la nuova segreteria a mettere bocca nelle liste elettorali alle prossime politiche e questo sarà senzaltro un deterrente per chi punta a sfiancare il nuovo segretario. Il quale ha già ben chiaro in testa cosa chiedere a Letta appena eletto per conto del Pd: primo, le riforme istituzionali con nuova legge elettorale annessa; secondo, maggiore determinazione nei confronti dellEuropa; terzo, provvedimenti fiscali e sul lavoro, nonché tagli alla spesa pubblica; quarto, maggiore attenzione a cultura e istruzione. 2 - LETTA ALLEUROPA: NO AGLI AYATOLLAH DEL RIGORE: «ORA PIÙ FORTE, BERLUSCONI NON È UN PERICOLO». E SULLE TASSE: ABBASSARLE O GRILLO VA AL 51% di Marco Galluzzo per il Corriere della Sera Di mattina, allassemblea di Federcasse, parla anche di loro, dei tedeschi: «Per gli ayatollah del rigore non è mai abbastanza, ma di troppo rigore lEuropa e le nostre imprese finiranno per morire». Di pomeriggio li va a trovare, in casa loro, a Berlino, e riesce a farli ridere: «Dite ai politici tedeschi che devono seguire lesempio italiano per larte, il cibo, le bellezze paesaggistiche, ma non per la politica». Letta si sposta dallItalia alla Germania, incontra imprenditori e banchieri a Roma, poi imprenditori, politici e media tedeschi, a Berlino, e in sostanza discute solo di Europa. A tutti dice di avere un unico faro, «riportare i tassi di interesse al 3%», solo ai secondi di non fare troppe resistenze, sia sullunione bancaria («viceversa sarà difficile convincere i mercati che siamo uniti»), sia sulla firma del patto commerciale con gli Stati Uniti: «Dobbiamo firmare il Trattato durante il semestre europeo a guida greca o durante il successivo, a guida italiana». Con la platea di un convegno organizzato dalla Suddeutsche Zeitung il nostro premier scherza sui ritardi nella formazione del nuovo esecutivo della Merkel («quando ho letto linvito ho detto: devo andare perché sarà interessante con il nuovo governo tedesco già insediato»), ironizza sul cognome del presidente degli industriali, Ulrich Grillo («lei è quello buono, con laltro è difficile parlare»), in modo più serio ripete quanto già detto qualche settimana fa davanti ai vertici della Spd, «lItalia ha fatto tutti i suoi compiti a casa e li ha fatti bene». E per questo motivo oggi può pretendere alcune cose. «Lanno prossimo saremo lunico Paese insieme alla Germania ad avere un deficit sotto il 3%», aggiunge Letta, che ai tedeschi chiede di condividere nuovi obiettivi: «Non abbiamo più un sogno europeo, nel 1983 cera il mercato unico, nel 1993 leuro, oggi quale sogno diamo ai nostri figli?». Insomma occorre dire ai tedeschi «che non salvano solo loro lEuropa, ma la salviamo tutti insieme: serve unEuropa più solidale» e in grado di riformarsi, per tornare a crescere. Lalternativa il premier la formula in questo modo: «Se si continua con tasse e tagli Grillo avrà la maggioranza, arriverà al 51%», e visto che oggi «Berlusconi non è più un pericolo», visto che «oggi sono più forte rispetto ai sette mesi passati», visto che «con Renzi lavoreremo, perché il Pd ha imparato che le rivalità interne non devono mettere in crisi i governi», allora, aggiunge, sarebbe un peccato sprecare unoccasione unica, dando nuovi traguardi alla costruzione europea. Magari cominciando con lelezione diretta «di un presidente della Ue, un capo»: qualcuno «oggi sa dirmi chi è il capo della Ue?». Ieri la legge di Stabilità ha superato lo scoglio dellEurogruppo, il ministro Saccomanni ha detto che «la nostra strategia complessiva è passata». E a proposito di riforme della Ue è intervenuto anche il presidente della Bce, Mario Draghi: «È arrivato il momento» che le riforme strutturali da parte dei singoli Paesi «siano sottoposte a una maggiore governance dellUnione Europea». REGIORGIO-di Fabrizio dEsposito per il Fatto quotidiano Lo rispetto, ma non lo venero. Matteo Renzi è seduto nello studio di Agorà, trasmissione mattutina di Rai3. Risponde a una domanda sul ruolo del Quirinale nella blindatura cieca, a prescindere, del guardasigilli Annamaria Cancellieri. Sono due anni che il realismo togliattiano del Colle squassa il Pd. Ma malumori, insofferenza e mal di pancia sono sempre stati compressi nei ragionamenti riservati di vertici e parlamentari democratici. E il sindaco di Firenze è consapevole, dopo il biennio delle larghe intese e della democrazia sospesa, che il rilancio del partito passa anche per una fuoriuscita dalla monarchia del Napolitanistan. Dice: Non diamo però a Napolitano responsabilità che sono della politica: se alle primarie vincessi io non ci sarebbero più alibi. È la versione diplomatica, pubblica di quanto confidato in altri termini martedì scorso, a margine delle telefonate con Enrico Letta prima dellassemblea dei deputati del Pd, quella per consacrare la fiducia alla Ministra dei Ligresti: Enrico mi ha detto: ‘Lo vuole il presidente. Per me Napolitano può continuare a fare il presidente del Consiglio, ma il segretario del Pd lo farò io. La crisi sullo scandalo Cancellieri è stata la terza occasione che ha messo Renzi in una posizione molto distante, diciamo così, dal Quirinale. È ce ne saranno molte altre dopo le primarie dellImmacolata se lo scontro con Letta, tutto imperniato sul fare, altrimenti ci arrabbiamo, come ha detto sempre ieri ad Agorà, si impennerà nello primo scorcio del 2014. Quando Renzi spiega di voler essere un segretario forte per non dare alibi alla supplenza di Re Giorgio di fronte alla debolezza dei partiti, ribalta lo schema di questi ultimi due anni. Lo ha detto anche Antonio Bassolino, ieri al Fatto Tv: Un Quirinale forte può essere limitato solo da un segretario forte. Bassolino non è un renziano in senso ortodosso. Anzi. Lex sindaco di Napoli dice che voterà per Renzi senza secondi fini. Ossia un ritorno in politica dopo lassoluzione nel processo per i rifiuti: Non mi candiderò, né alle Europee, né per fare di nuovo il sindaco di Napoli. Dopo lassoluzione ho anche ricevuto la telefonata di Napolitano. Avversario storico della corrente migliorista di Napolitano nel Pci, Bassolino individua con grande lucidità il peccato originale che ha condotto il Paese alla monarchia: È stato un errore non andare a votare due anni fa, ma il Pd e Berlusconi non furono abbastanza forti per chiedere con decisione le elezioni anticipate. Altrimenti, se questa fosse stata la loro volontà, Napolitano ne avrebbe preso atto. Allepoca, nel novembre del 2011, si raccontò anche di un burrascoso colloquio al Quirinale tra Napolitano e Bersani, segretario e candidato premier in pectore. Bersani voleva il voto ma venne isolato e messo in minoranza dalloligarchia del Pd, Veltroni e DAlema inclusi. Il nuovo fronte anti-Napolitanistan del Pd renziano assembla una significativa triade di leader extraparlamentari. Lontanissimi uno dallaltro. Renzi, ovviamente, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi, che mercoledì prossimo sarà cacciato dal Parlamento. Secondo ledizione italiana dellHuffington Post, il Condannato starebbe valutando lipotesi di inserire forti critiche a Napolitano nel discorso che terrà a Palazzo Madama il 27 novembre. Si ritorna, in pratica, al mistero del patto tradito della pacificazione, quello tra il Cavaliere e il Colle. Forse Berlusconi aggiungerà qualche dettaglio decisivo alla vera storia che ha portato Napolitano per la seconda volta al Quirinale. Certamente, per B. e i suoi falchi di Forza Italia il patto non è stato una panzana ridicola, come la liquidò Re Giorgio in una nota contro il Fatto. A proposito di note, messaggi e moniti. Ieri, il capo dello Stato ha spedito un messaggio di solidarietà al circolo del Pd di via dei Giubbonari, a Roma, attaccata dai No Tav. Fino al 2006, anno della sua prima elezione a presidente della Repubblica, Napolitano era un iscritto di quella sezione. Bollando come inqualificabili le violenze, il Colle ha rivolto lennesimo appello alla politica per un dialogo civile tra i partiti. Parole che arrivano alla vigilia del 27 novembre, quando senza più il Condannato in Parlamento, per Napolitano e Letta si chiuderà un ventennio. CAVALIERE da La Stampa.it Mercoledì 27 novembre alle 14 in via del Plebiscito a Roma, davanti Palazzo Grazioli, è in programma la manifestazione di Fi contro il voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi. È stato comunicato ai deputati del partito, secondo quanto si apprende, in una mail arrivata questa mattina. Il Cavaliere, sulla questione decadenza, è durissimo. «Non mi dimetto prima, non ci penso nemmeno. Aspetterò che votino. Che si assumano la responsabilità di una cosa di cui si dovranno vergognare per sempre», dice in una intervista al Mattino. Berlusconi ritiene che «quello che mi ha condannato è un processo viziato da un chiaro intento politico e - annuncia - lo dimostrerò», «presto arriveranno dagli Usa testimonianze decisive, prove del fatto che il fisco americano ha acclarato la configurazione veritiera delle compagnie off-shore che, secondo i giudici della sezione feriale della Cassazione, mi vedrebbero socio occulto del finanziere Agrama». Sulle larghe intese, Berlusconi afferma: «Ci siamo accontentati di cinque ministri su 23, siamo stati disponibili e loro ci hanno risposto con un omicidio politico». Del resto, aggiunge, «il Pd doveva concedere agibilità politica allalleato, invece vuole eliminarmi». Sulla scissione del suo partito, Berlusconi osserva: «Forza Italia è al 20,1%, Ncd al 3,6, la nostra gente non capisce la scissione» ma, aggiunge, «nessuna frattura è insuperabile. Se dovessero capire di aver commesso un errore, noi saremmo tutti lieti di un ritorno allunità». Il Cavaliere non vede le elezioni anticipate. In ogni caso, aggiunge, contro Matteo Renzi, «abbiamo un colpo segreto». Più tardi, davanti ai giovani di Forza Italia, si lascia andare. «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe» dice, attaccando la magistratura. «Il Corriere della Sera e da sempre lorgano ufficiale, anzi, non ufficiale, della Procura di Milano» affonda. «A poco a poco Magistratura democratica ha trasformato la magistratura, tutta, da quello che è, un ordine dello Stato, in un potere. Anzi in un contropotere, capace di contrastrare, di mettere sotto, gli altri due poteri dello Stato: quello legislativo e quello esecutivo. In Parlamento non si riesce a far approvare una riforma da tempo» CANTODELCIGNO Di Ugo Magri per la Stampa Il dramma psicologico di Berlusconi si racchiude in due parole latine: «Damnatio memoriae». Cioè la condanna alloblio, che veniva inflitta a quanti meritavano di essere dimenticati. Il Cavaliere sospetta che lItalia voglia cancellarlo dal suo «hard disk», teme che il voto sulla decadenza sia anticamera del cono dombra... E questo, si racconta, che più di lo fa impazzire e al tempo stesso spiega come mai il Cavaliere sia così deciso a prendere la parola nellemiciclo, a trasformare la propria espulsione dal Senato in un evento memorabile. Per usare le parole del personaggio, «quel giorno dovrà restare scolpito negli annali della Repubblica» in modo da impedire che ne svanisca il ricordo. E non cè bisogno di essere stati ieri da lui, seduti a pranzo con la Mussolini e la Carfagna, con la Bernini, la Prestigiacomo, per indovinare dove si accanirà Silvio: contro la magistratura italiana, contro le «toghe rosse» in particolare. Luomo si prepara a scagliare allindirizzo dei giudici una sorta di biblica maledizione che trasformerebbe laula del Senato in una plaza de toros, sangue e arena, con una folla rumoreggiante allesterno. Perché forte è la tentazione dei pasdaran berlusconiani di trasformare la manifestazione di via del Plebiscito in un presidio rivoluzionario intorno a Palazzo Madama, nel timore che lì si appostino (come fu per Craxi 20 anni fa) i lanciatori di monetine. Cè dellaltro. Berlusconi vuole parlare a braccio, senza un testo scritto, libero di «boxare» dialetticamente con i banchi della sinistra, felice di cedere alle scontatissime «provocazioni». In diretta tivù, si annunciano scontri verbali da fare arrossire chi crede ancora nella bella politica. Qualcuno suggerisce di prepararsi almeno un appunto, ma il Cav risponde con sdegno: «Sono tutte cose che so a memoria... Volete insegnare a me che cosa debbo dire sulla giustizia?». A invocare prudenza pare non siano stavolta i soli Letta (Gianni) e Bonaiuti, ma pure lavvocato Ghedini, il quale vede addensarsi nuove burrasche sul capo del suo cliente, specie dopo che il Tribunale milanese ha messo sotto inchiesta tutti quanti testimoniarono pro-Berlusconi nel processo Ruby. Prendere a insulti i magistrati il giorno prima di essere privato dello scudo parlamentare è una sfida affascinante che, forse, lex-premier non può permettersi. Mercoledì scopriremo. Sempre che il 27 davvero si voti, e il finimondo non venga ancora una volta rinviato. Zanda, capogruppo Pd, lo esclude. Epifani, pure. Persiste tuttavia un filo di incertezza perché il presidente del Senato, Grasso, riunirà la conferenza dei capigruppo dopodomani mattina e da lì verrà lultima parola. Alfano, per quanto ormai libero dalle sue catene, resta vincolato umanamente allex-leader e insiste per far slittare il giorno del giudizio, complici i ritardi della legge di stabilità. Il neo-capogruppo Sacconi si batterà per guadagnare qualche giorno ancora. Lo sforzo non è peraltro sufficiente a mettere il Nuovo centrodestra al riparo dagli attacchi forzisti. Anzi, più Alfano vuole mostrarsi leale col Berlusconi e più i «falchi» cercano di scalciarlo via, con Bondi e Brunetta in prima fila. Forza Italia ha piantato ieri mattina una grana procedurale, lennesima, chiedendo a Grasso di riesaminare la famosa seduta della Giunta dove non solo il grillino Crimi, ma svariati altri commissari chattavano allegramente. Grasso considera viceversa il caso «chiuso», attirandosi le contestazioni di Bondi, già psicologicamente in sintonia con quanto Berlusconi intende gridare in Aula: «Lei, presidente, passerà alla storia come colui che ha consentito la violazione di un principio fondamentale». E ancora, quasi fosse motivo di inaudita vergogna: «Lei non è imparziale perché resta un magistrato». Grasso, alzando le spalle: «Ai posteri lardua sentenza». ECONOMIA BANKE(Adnkronos) - Boom di sofferenze nelle banche: negli ultimi 12 mesi sono cresciute del 23% arrivando a sfiorare quota 145 miliardi di euro. La fetta maggiore di prestiti che non vengono rimborsati regolarmente agli istituti di credito è quella delle imprese (99 miliardi). Le «rate non pagate» dalle famiglie valgono oltre 30 miliardi mentre quelle delle imprese familiari più di 12 miliardi. Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi Unimpresa che stima in 1,8 miliardi le sofferenze della P.a, delle assicurazioni e di altre istituzioni finanziarie. Sofferenze che corrispondono complessivamente al 10,09% dei prestiti bancari (1.432,8 miliardi), in aumento rispetto al 7,95% di un anno fa. Preoccupato il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «Ci preoccupano le recenti dichiarazioni del presidente Abi, Antonio Patuelli, il quale ha detto che le banche dovranno selezionare ancora di più il credito proprio a causa della crescita delle sofferenze perchè il calo registrato progressivamente negli ultimi anni è già la conseguenza di una restrizione delle condizioni. Se gli istituti hanno intenzione di irrigidire ulteriormente i criteri, allora vuol dire che di denaro per le imprese, ma anche per le famiglie ce ne sarà sempre meno». Secondo lo studio Unimpresa, su dati Bankitalia, in totale le sofferenze sono passate dai 117,6 miliardi di settembre 2012 ai 144,5 miliardi di settembre 2013 (+22,86%) in aumento di 26,8 miliardi. Nel dettaglio, la quota delle imprese è salita da 78,4 miliardi a 99,1 (+26,34%) in aumento di 20,6 miliardi. La fetta relativa alle famiglie, dice ancora Unimpresa, è cresciuta da 26,7 miliardi a 30,8 miliardi (+15,33%) in salita di 4,1 miliardi. Per le imprese familiari cè stato un aumento di 1,7 miliardi da 10,8 miliardi a 12,6 miliardi (+16,41%). Le «altre» sofferenze (pa, onlus, assicurazioni, fondi pensione) sono passate invece da 1,5 a 1,8 miliardi (+21,81%) con 331 milioni in più. Credit crunch avanti senza fine. È Unimpresa, in uno studio, a certificare come il giro di vite sui finanziamenti alle imprese abbia ridotto in un anno di 47 miliardi il credito alle imprese. Un giro di vite che ha fatto registrare un calo dei prestiti bancari al ritmo di 3,9 miliardi al mese. Da settembre 2012 a settembre 2013, infatti, il totale dei finanziamenti al settore privato, diminuito appunto di 46,8 miliardi di euro, è passato da 1.479,6 miliardi a 1.432,8 miliardi. Una riduzione che interessa sia le famiglie (-6 miliardi) sia le imprese (-40,8 miliardi). Le erogazioni degli istituti di credito sono scese, complessivamente, del 3,17% nellultimo anno. Particolarmente grave, dice ancora Unimpresa, il quadro per le imprese: nellultimo anno le aziende hanno assistito alla riduzione dei finanziamenti di tutti i tipi di durata. In totale lo stock di finanziamenti alle imprese è sceso da 869,8 miliardi a 828,9 miliardi con una diminuzione di 40,8 miliardi (-4,70%). Analoga situazione per le famiglie: in dodici mesi meno credito al co nsumo per 1 miliardo (-1,68%) da 59,7 miliardi a 58,7 miliardi e meno prestiti personali per 1,1 miliardi (-0,61%) da 183,8 miliardi a 182,7 miliardi. In totale, lo stock di finanziamenti alle famiglie è calato da 609,8 miliardi a 603,8 miliardi con una diminuzione di oltre 6 miliardi (-0,98%). TRASPORTI Di Valentina Santarpia per Corriere.it Ieri era Napoli, con gli autobus costretti a rimanere in deposito senza benzina. Oggi è Genova, dove il Comune sta cercando di risanare unazienda che fa acqua da tutte le parti. Ma la protesta dei lavoratori dellAmt, che sta paralizzando la città, scoperchia un vaso enorme: è la crisi del trasporto pubblico locale (Tpl), che tra bilanci dissestati, personale in esubero, disservizi, evasori, e troppe deroghe, rischiano il collasso. In Campania sono fallite già tre società: lEnte autonomo Volturno, il Cstp salernitano, lAcsm a Caserta. Molte altre hanno sfiorato il tracollo: come lAtac di Roma, travolta da un miliardo e 200 milioni di debiti, dove un supermanager sta cercando di rimettere a posto i conti e far dimenticare gli scandali delle assunzioni pilotate e dei biglietti duplicati. FALLITI - Ma su un esercito di 1.140 aziende, pubbliche e private, «il 43-44% è tecnicamente fallito», denuncia il sottosegretario ai Trasporti Erasmo De Angelis. Pesano i pesanti tagli ai finanziamenti statali: il Fondo unico nazionale è di 4,9 miliardi rispetto al fabbisogno di 6,4. È vero che le Regioni sono riuscite, presentando entro ottobre il piano di riprogrammazione dei trasporti, a evitare le penalità. Ed è vero che una sentenza della Corte costituzionale ha respinto il ricorso del Veneto contro il Fondo unico nazionale: «La mobilità è finalmente riconosciuta servizio pubblico essenziale la cui garanzia deve essere lasciata allo Stato centrale», spiega Marcello Panettoni, dellAsstra, che raccoglie le società pubbliche di Tpl. Ma il ripristino dopo sette anni del fondo di 500 milioni per la manutenzione dei mezzi - vecchi 12 anni contro una media Ue di 7- è una goccia nel mare per le aziende di trasporto e per i Comuni, che dovendo raggiungere il pareggio di bilancio non riescono più a coprire i buchi. E così guardano ai privati: una necessità dettata anche dallobbligo, fissato dallEuropa, di assegnare con gara la gestione dei trasporti pubblici locali entro il 2019. GARA NEL 2015 - È proprio questo che sta accadendo a Genova, come già successo a Firenze: lAmt, ha assicurato il sindaco, resterà una società in house del Comune fino al 31 dicembre 2014. Ma nel 2015, come prevede la legge regionale appena approvata, verrà indetta una gara per il trasporto unico regionale. Il Comune punta a far partecipare anche lAmt, purché sia in buone condizioni economiche: secondo le stime, nonostante i contratti di solidarietà per i 2.300 lavoratori, anche questanno si chiuderà con un bilancio in passivo di 8,3 milioni, e il capitale sociale è ancora troppo esiguo, 7-8 milioni. La parola dordine è: risanamento. Basta guardarsi intorno, per capire che grandi alternative non ci sono. LEav napoletana, per essere risollevata da debiti per 500 milioni, è stata sottoposta ad un piano ministeriale di ristrutturazione, e i 2.300 lavoratori hanno accettato grossi sacrifici per conservare il posto. LActv veneziana questanno è riuscita a dimezzare i 17 milioni di debito solo con 200 pensionamenti e 130 spostamenti interni. PARCHEGGI - A Torino il Comune ha messo in vendita la gestione dei parcheggi di Gtt, perché non è ancora riuscito a risolvere il nodo politico per cedere il 49% della società di Tpl ai privati. A Napoli lAnm si sta rialzando grazie alla fusione con Metro Napoli, e a una iniezione di 200 milioni dal decreto salva imprese. A Bologna il Comune è riuscito a far passare laumento del biglietto e un taglio alle corse per puntare allutile nel 2014. E a Milano, dove la virtuosa Atm chiuderà lanno con un utile di 3 milioni, il Comune, che incamera lutile dei biglietti, ha deciso laumento degli abbonamenti mensili e annuali. ATAC Di Fabio Pavesi per Il Sole 24 Ore È la più grande azienda di trasporto pubblico in Italia, ma a livello contabile è un pozzo senza fondo, una sorta di buco nero che inghiotte e consuma risorse milionarie. Anche questanno lAtac di Roma chiuderà in perdita. Si stima per almeno 200 milioni. Un caso? Tuttaltro, dato che negli ultimi 10 anni non cè stato mai un bilancio in utile. Se si sommano i 200 milioni di buco di questanno alle perdite di 2011 e 2012 siamo a mezzo miliardo di rosso. In tre anni. Ma come dimenticare la maxi-perdita del 2010 da 319 milioni e quella del 2009 da 91? E così via fin dal 2003. Un decennio che è costato quasi 1,6 miliardi di perdite cumulate. Una cifra mostruosa, più delle perdite da 1,2 miliardi della disastrata Alitalia. Il costo è già stato pagato una volta dalla collettività. Nel 2010 Atac si è mangiata tutto il patrimonio e due anni fa è stata ricapitalizzata per un miliardo. Altri due anni come il 2013 e Atac sarà di nuovo senza capitale. Vista così, lo scandalo della truffa dei biglietti falsi che sta agitando la città e prima ancora la Parentopoli delle assunzioni facili, appaiono solo la punta delliceberg di un sistema malato in profondità. Da Atac sono passate giunte di centrosinistra e centrodestra e una decina di amministratori delegati succedutesi senza che nulla cambiasse. Anzi. La situazione è andata peggiorando. Basta sfogliare le relazioni dei collegi sindacali in questi anni. Già da anni i controllori dei bilanci mettevano in guardia: ricavi troppo bassi e costi troppo elevati. Impossibile in queste condizioni chiudere senza perdite. Già i ricavi. La truffa dei biglietti clonati ha distratto risorse ma il nodo gordiano è più profondo. Il nuovo assessore alla Mobilità, Guido Improta, denuncia senza mezzi termini come levasione tariffaria sia del 30-40%. La prova? Atac ha aumentato il prezzo del biglietto a 1,5 euro poco più di un anno e mezzo fa. I ricavi dalla vendita dei ticket avrebbero dovuto salire a parità di traffico del 50%. Non è successo nulla. Anzi i ricavi da biglietti valgono solo il 30% del miliardo circa di fatturato. Mezzo miliardo viene dal contributo pubblico del contratto di servizio con Comune e Regione. È vero che quei soldi spesso rimangono sulla carta come crediti perché la Regione (soprattutto) tarda a versare, ma è sempre una poderosa stampella pubblica. Nessuna azienda di trasporti in Italia riceve mezzo miliardo lanno di sussidi pubblici. E nonostante ciò si sono cumulate perdite. Si poteva fare di più? Certo. Ma se su un organico di 12mila dipendenti (che costano 550 milioni lanno) fai fare il controllore a poco più di 70 persone significa che a nessuno degli amministratori è mai interessato contrastare levasione tariffaria. Oltre mille dipendenti stanno alla scrivania e uno degli ultimi amministratori delegati di Atac ha detto che il 30% sono di troppo. Ma a nessuno è venuto in mente di potenziare gli organici per il controllo dei biglietti. Del resto gli amministratori, con rarissime eccezioni, hanno più pensato a loro stessi che allazienda. Basti pensare a uno degli amministratori delegati degli anni passati, Bertucci che, non contento della retribuzione (oltre 300mila euro) da ad, si fece approvare dal cda nel 2010 un contratto di consulenza in materia giuslavoristica da 219mila euro. Dovette intervenire il collegio sindacale a stoppare la maxi-consulenza. O a Giocchino Gabbuti, passato da ad di Atac ad ad di Atac patrimonio che nel 2013 oltre al fisso di 350mila euro si è fatto riconoscere un premio da 245mila euro. Premio per cosa? Per aver guidato per anni il malato cronico di Atac senza successo? Così funziona una municipalizzata. Vertici strapagati (solo ora con la nuova Giunta è stato messo un tetto da 200mila euro alle retribuzioni dei massimi dirigenti) e incapaci di affrontare le difficoltà in cui versa strutturalmente lazienda romana; personale in eccesso e mal distribuito e continui casi di malagestio. Più volte i collegi sindacali sono intervenuti nel tentare di mettere un freno a ruberie varie. Come quella del 2011 sulla gara per i servizi di pulizia: un appalto da 95 milioni gonfiato di oltre il 30% rispetto ai valori sul mercato. O la denuncia sullacquisto di mille dischi freni (7 milioni di euro) che in realtà costavano meno di 2 milioni. Per non parlare (siamo nel 2009) delle consulenze varie per oltre 20 milioni di euro a fronte di risorse interne per 12mila unità che costano di loro oltre 500 milioni lanno. E ancora. Gli effetti di un derivato capestro (Us Cross border lease) stipulato nel 2003, definito temerario dai revisori dei conti e chiuso di recente con una perdita per Atac di 28 milioni. Sono solo alcuni dei casi palesi di malagestio in un poderoso cahier de doléances che contrassegna in tutti questi anni i verbali dei collegi sindacali. La politica (bipartisan prima con Veltroni poi con Alemanno) non ha fatto nulla per arginare la deriva di inefficienza e cattiva gestione di Atac, così come nessuno della decina di amministratori delegati e presidenti succedutesi in due lustri ha mai inciso sulla struttura di unazienda che se fosse sul mercato sarebbe fallita molti anni fa. Ora Atac ha visto rinnovare laffidamento al 2019 del servizio pubblico. Se non si cambia rotta al più presto il costo per la collettività sarà esoso. Tra contributi pubblici e perdite Atac è costata ai romani 6,4 miliardi negli ultimi 10 anni. Si spera che il copione non si ripeta di nuovo. ESTERI SIRIA_CECENI Da la STAMPA di Domenico Quirico, il Paese del Male, anche titolo del libro scritto dopo la sua liberazione. Siria, la feroce guerra dei ceceni. La caligine calda soffocava lagosto di Aleppo, due anni fa: la rivoluzione era ancora gioventù selvaggia, un preludio, tutto squillava e rimbombava, non come ora ometti sornioni e feroci a caccia di un ruolo importante e di bottino. Quel frammento del quartiere di Salaheddin era ancora intatto, miracolosamente, come il corpo di un ucciso. «Alexander, ma questi ceceni dove sono...?» Alexander, a testa china, tagliava con cura i pezzi del formaggio, uno dopo laltro. Li mangiava con la buccia, lentamente. Due bambini erano entrati con un uomo, il padre forse, nel cortile della scuola che era il comando di una brigata. La katiba «Ubada ben al Saamet»: un nome che faceva tremare, di ammirazione di commozione di rispetto; la gente si inchinava e stringeva gli occhi quando lo pronunciava, quel nome, ad Aleppo. Aleppo martire, assediata bombardata fatta a pezzi dagli aerei e dagli elicotteri, dai mortai di Bashar il sanguinario. Non guardavano Alexander, per loro era come se non esistesse nemmeno, guardavano il formaggio. Non gli toglievano lo sguardo di dosso. Ne erano affascinati. Tutte le volte che Alexander tirava fuori un pezzo, il loro sguardo si illuminava, seguiva il frammento nel suo viaggio verso la bocca, e quando mordeva, esprimevano unansia acuta che si trasformava in disperazione quando inghiottiva lultimo boccone. Cera ancora formaggio? Questo era limportante. II compagno interprete Alexander continuava freddamente a rimpinzarsi. «Ancora niente? I ceceni... quando arrivano i ceceni?». «Arrivano, arrivano... sono andati a finire un lavoro poi torneranno. Quelli tornano sempre quelli sono immortali...». Guardo fuori: in fondo alla strada la moschea dalla cupola verde, nuda, e questa nudità suggerisce una forza invisibile, in quello scompiglio, come quella dei nostri grandi chiostri. La moschea è al centro della battaglia come se fosse immortale. Ecco dunque Salaheddin: la verità, la leggenda e la forza oscura che tramuta in epopea i combattimenti passati, tutto si congiunge in questo quartiere brucato dalle bombe. Qui i combattenti normali non vanno più. I rivoluzionari bambini di Aleppo quando gli chiedevi di Salaheddin abbassavano la testa, umiliati: «Là ci sono soltanto i ceceni...». Gli epici vagabondi venuti dal Caucaso a fermare con le loro mani di montanari addestrate ai bazooka le divisioni del tiranno. «Il tempo passa. I tuoi ceceni non arrivano...» dico in russo. Alexander si alza, infastidito, va sulla strada, due mitragliatrici vigilano posate sul loro treppiede come gatti egiziani sulle zampe posteriori. Rovine a destra e a sinistra, gli occhi non raggiungono il cielo. Lontano, si odono brevi raffiche di mitragliatrice come scoppi di risa nel silenzio. «Arrivano, non seccare! Ma i soldati e gli shabiha non si arrischiano più nelle strade, se non cè lelicottero... adesso è diventato difficile persino fare le imboscate con quei fifoni...» e ride, guardando per la prima volta i due bambini. Non mi piaceva Alexander, cristiano ortodosso; era tondo e grasso in un mondo di uomini affilati dalla fame, dalla guerra, dalla tensione di affrontare ogni giorno la morte. Il russo laveva imparato a Smolensk che era ancora Unione Sovietica, allora. «Che ci facevi a Smolensk negli anni settanta, Alexander? Tu un siriano in Bielorussia...» «Rabota, lavoro» rispondeva lui scivolando via svelto dallargomento, «non sai che Afez Assad e i comunisti erano alleati?». Ora fa linterprete, Alexander, linterprete dei ceceni: «Se non ci fossi io che traduco come la farebbero la guerra quelli, pregano Allah ma non sanno una parola di arabo» sogghigna come se quei fratelli nellordine della Notte potessero vivere solo nelle sue parole, nei suoi vocaboli. Dei ceceni, due anni fa, parlava nessuno, non come ora che Tarkhan il caucasico dicono sia diventato uno dei capi ad Aleppo, solo voci allora: leggenda, come la katiba di Salaheddin, la katiba dei ceceni i primi tra i combattenti stranieri venuti a battersi in Siria, con le bandiere nere degli islamisti che impedivano ai soldati di riprenderselo il quartier maledetto. Qualche decina di uomini contro un esercito: eppure erano ancora là. «Eccoli, arrivano» sibila Alexander nascondendo svelto in tasca il formaggio, come se si vergognasse. Li sentiva. Perché arrivava un tuono lontano, cannonate sibili fragori, come se la guerra si fosse svegliata e messa in movimento lartiglieria bombardava, e sembrava che il cielo dovesse spaccarsi e cedere sotto le incalzanti vibrazioni dellaria... «Se la portano dietro la guerra, quelli, li segue come le pulci il cane...». Esco a guardare: due file di uomini, una ventina, avanzano aggirando disinvoltamente le rovine che ingombrano la strada, dritti, il fucile come per una battuta di caccia, libero e stretto sotto il braccio. I cece-ni, eccoli; alcuni, ora che sono vicini, sorridono ondeggiando di qua e di là, come se avanzassero a passo di danza, i primi calciano davanti a sé un pallone, un pallone da calcio sgonfio e sudicio trovato chissà dove. Versetti e frasi di Lenin Entrarono. La maggior parte vestiti di nero, galabie afgane, ingrigite dalla battaglia. Altri con giubbotti mimetici, camicie militari, qualcuno con le fasce verdi e i versetti del Corano strette come bandane attorno alla testa. Occhi, volti, barbe brizzolate, assire: facce che ricordavo, tanti anni fa, a Grozny, la prima guerra cecena. Mi avevan tenuto prigioniero, i ribelli, due giorni con il mio amico russo Serghej. Non si fidavano: siete spie! Il ricordo non sembra invecchiato con me. Questi ceceni sono ragazzi, eppure sono gli stessi di Grozny. SI, razza dura e accanita. Gente che uccide senza collera, con indifferenza semplicemente perché può farlo, come il terremoto o lalta marea. Abu Majed, il nome di battaglia, non ha gradi ma si capisce subito che è lui che comanda. Lo capisci da come gli altri lo guardano e gli fanno posto. Da come uno dei ragazzi gli porge, quasi come una offerta sacra, una galletta di pane fresco. Posa il lanciagranate, il trasmettitore, con delicatezza, come se fossero fragili. Si siede su una poltrona sfondata in quello che un tempo era lufficio del preside; la foto di Assad è ancora per terra in un angolo. «Chi è questo?» Chiede ad Alexander, la faccia aggrottata, diffidente. «Sono un giornalista» rispondo io, in russo. Abu Majed si illumina: «Parli russo! magnifico... magnifico!... Portate il tè...». Dalla porta spuntano le facce degli altri, chiassosi felici. E così che ho conosciuto i ceceni, i nuovi signori di Aleppo, che sono andato con loro in guerra nel quartiere di Saif al Daula, il cuore di tenebre della battaglia.«È qui che le sorti della battaglia si decidono» mi disse Abu Majed - «Dobbiamo fermare lesercito di Bashar, noi siamo lo scudo di Dio». «Perché sei venuto qui ? - gli chiedo - questo non è il tuo Paese...». Mi guarda bevendo il tè con un sorriso frettoloso: «A scuola i comunisti mi hanno insegnato una frase di Lenin, lo conosci Lenin? Sarà nostro un mondo che non abbia sanguinato fino allultima goccia?... A Grozny abbiamo perso, lo sai. Ma questa è la stessa guerra, una santa guerra. I nemici sono gli stessi, i russi e i loro servi siriani, le armi con cui cercano di ucciderci e li uccidiamo hanno la stessa marca di allora, i soldati di Bashar combattono, male, ma come hanno loro insegnato i russi... e poi bombardamenti, quartieri rasi al suolo: non è nemmeno cambiato lo sfondo...». A Salaheddin i due campi si fronteggiavano separati da una strada, la strada numero dieci. Ma a Saif al Daula era peggio, il fronte non cera, gli avversari separati da una terra di nessuno di qualche centinaio di metri, infestata dai cecchini. «Dai, vieni con noi, andiamo a caccia di pidocchi domani... vedrai come combattono i ceceni». Il primo morto fu un soldato, trecento metri oltre la moschea; era coricato sul dorso con lo sguardo fisso, solo occupato in apparenza a godersi la vista del cielo. «Labbiamo preso ieri, mi spiega un ceceno, labbiamo interrogato un po, sai... ma non aveva gran che da dire. Prigionieri non ne facciamo... i prigionieri mangiano, fanno perdere tempo». E ride soddisfatto. La linea qui è una strada dasfalto e un palcoscenico di palazzi abbandonati, nessun essere umano. Non cè nemmeno una casa che si possa ancora usare come alloggio. Non un tetto, niente muri, dappertutto solo monconi dritti sotto il sole grigi, a pezzi, maciullati. I cavi della luce tagliati, spezzati formano una fitta giungla di rampicanti, drappeggiano su ciò che rimane dei pali o serpeggiano, semplicemente, sul terreno. I miei ceceni si muovono senza fretta tra lo sfacelo di travi e di muri sgretolati come se avessero in testa una mappa che li guida. Cè puzza in giro, un fetore insopportabile: «Cadaveri» mi spiegano due che bevono il tè nel salotto di una casa distrutta, il kalashnikov appoggiato a una feritoia ricavata nel muro. Cecchini. «Le case erano piene di gente quando il Mig le ha distrutte... impossibile portarli via, i cadaveri». I soldati ora devono averci sentito, i mortai pazienti cominciano a cercare, sbocconcellando tassello dopo tassello la mappa delle rovine, un colpo qui, poi più avanti e ancora ancora. Avanziamo sempre, come se le rovine fossero enormi scogli che ci riparano dal mare delle schegge e dei colpi. Il walkie talkie di Abu Majed gracchia «Ismail è morto». Lui non dice niente, interrompe la comunicazione. Fa un cenno ai compagni: ora si muovono svelti, come se improvvisamente avessero uno scopo, un obiettivo da raggiungere. Entriamo in un palazzo, sembra meno sciupato degli altri; una scala di cemento, lacqua scende in un rivolo scuro, tubi tranciati dalle bombe. Entriamo in un appartamento, la porta è divelta, dentro i mobili bianchi di polvere e calcinacci ci guardano come se fossero ostaggi. Ci sono ceceni, silenziosi, al centro del gruppo inginocchiato un uomo, un soldato, capisco dalluniforme. Un guerrigliero gioca con il suo elmetto, ci sono sopra le sigle della polizia militare. Il volto è una maschera di sangue, gli occhi il naso le labbra enormi per i colpi . Guaisce, piano, come se non volesse far troppo rumore, ma senza interruzioni. Il rumore, quel rumore sembra riempire la stanza. Abu si avvicina, da dietro. Non ho il tempo di voltarmi, di chiuderegli occhi. Il coltello sbuca da una tasca la gola si squarcia. «Adesso sai cosè la guerra compagno: tenace costante violenza. Uccidere, punire, costringere, pulire. Questa è la vita...» AFORISMIASSIOMI Gli avvenimenti, tra¬sformati in oggetti di consumo, muoiono, come le cose, nellistante stesso in cui vengono utilizzati. Ogni notizia è senza collegamento con le altre se privata del proprio passato, e dal passato di tutte le altre. Nellera dellec¬cesso di informazioni si produce un eccesso di igno¬ranza.
Posted on: Sun, 24 Nov 2013 08:32:01 +0000

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