ANALISI LOGICA DEL NULLA 1 PREFAZIONE LETTORE: Cosa - TopicsExpress



          

ANALISI LOGICA DEL NULLA 1 PREFAZIONE LETTORE: Cosa significa Analisi logica del nulla? AUTORE: Significa analizzare logicamente il nulla. LETTORE: E perché fare questa analisi? AUTORE: Perché al mondo c’è chi preferirebbe essere nulla piuttosto che essere. LETTORE: E perché fare un’analisi logica? AUTORE: Perché il nulla è meno inquietante del niente. In questo dialogo immaginario tra me e il lettore sta la risposta al perché di questo scritto; una risposta che forse è tutta comprensibile, tranne che per la differenza tra niente e nulla, ma di questo parleremo tra poco. Io sono tra quelli che preferirebbero non essere venuti al mondo. Non so se questo significhi necessariamente che io desidero essere nulla, perché non so se sia proprio il nulla che desidero, o il niente; io so solo che non vorrei essere. Se non essere è essere nulla, allora vorrei essere nulla, se non essere è essere niente, allora vorrei essere niente. Ma, siccome sono sostanzialmente allergico all’essere in generale, se nulla e niente sono delle forme di essere, mi sa che persino loro potrebbero risultarmi indesiderate. Il nulla è il non essere? Il non essere è il niente? Da questa domanda nasce l’esigenza di questo mio scritto. Per quel che ne so di filosofia, solo due autori mi hanno aiutato in questa ricerca: Henri Bergson e Martin Heidegger. Il primo con una risposta logica al problema del «nulla», il secondo con una risposta non logica al problema del «niente». La distinzione è, linguisticamente, una mia proposta. Quale possa essere la differenza tra niente e nulla è presto per dire. Al momento, diciamo solo che «non logico» non significa illogico, e che quindi la risposta di Heidegger alla domanda sul niente non è campata in aria, è semplicemente non logica. Per cui la risposta di Bergson, essendo logica, è più facilmente comprensibile. Però, se si ammette che la comprensibilità è per definizione eminentemente logica perché è capita dall’Intelletto, der Verstand, risulterà che potrebbe anche esserci una comprensibilità non intellettuale e pur non meno ragionevole, e questa potrebbe essere quella della Ragione, die Vernunft. La mente umana forse non è così semplice da poter essere divisa in due parti nette, Intelletto e Ragione, alla maniera di Kant, ma questo è quanto la filosofia più autorevole ci ha trasmesso, e a noi non resta che prenderne atto. Insomma: ci sono sostanzialmente due modi di affrontare la domanda circa il nulla/niente, o in modo razionale o in modo ragionevole; il primo modo è l’approccio logico dell’Intelletto al nulla, il secondo è quello non logico della Ragione al niente. Quale sia la differenza tra i due “approcci” lo spiega bene Heidegger, in Was ist Metaphysik? (Che cos’è metafisica?) (1929). L’approccio di Heidegger è l’approccio al niente, e la domanda sul niente è risolta dicendo che il niente è l’origine della negazione, non viceversa [Heidegger] L’approccio logico al nulla postula, al contrario, una frase del tipo la negazione è l’origine del nulla, non viceversa [Io] Ora, io credo che, prima di discutere sul niente o sul nulla sia opportuno capire bene come la logica intenda il nulla del niente: per capire l’approccio logico al niente è meglio parlare di nulla, piuttosto che di niente. Non voglio suggerire, al momento, nessun’altra differenza tra niente e nulla se non quella che è già emersa in queste poche righe; voglio solo usare il termine «nulla» e fare attento il lettore alla sua radice etimologica: il nulla non esisterebbe senza la «n» con cui inizia, per cui nulla è n-ulla, n + ulla. Ora, una volta capito che la «n» nega «ulla», resta da vedere cosa sarà mai un ulla, o una ulla (perché non si sa se sia femminile o maschile; forse è neutro, ma l’italiano non ha il genere neutro). Per capire come un approccio non logico possa intendere la “negatività” del nulla basta leggere questo passo di Heidegger, il quale, dopo aver scritto, come s’è visto, che « il niente è l’origine della negazione, non viceversa», prosegue: «E se, così, vien fiaccata la potenza dell’intelletto nell’ambito della questione intorno al niente e all’essere, allora si decide con ciò anche il destino della signoria della Logica dentro la filosofia». [Martin Heidegger: Che cos’è la metafisica? – La Nuova Italia, Firenze 1953 – Traduzione di Armando Carlini, pag. 26] È evidente che se il niente è indagabile dalla Ragione, questa indagine non logica sancisce la fine della signoria della logica nella filosofia. Io mi sono ostinato a voler fare, tuttavia, una analisi logica del nulla, ma senza “far finta di niente”, senza ignorare, cioè, che il niente potrebbe anche essere la vera identità del nulla. Parlare di un giudizio non logico sul nulla, cioè parlare del niente, significa sia affermarne la non logicità sia negarne la logicità: Kant ci ha esaurientemente spiegato che i giudizi, considerati nella loro qualità, oltre che affermativi e negativi, possono anche essere infiniti: 1. AFFERMATIVO: Niente è nulla 2. NEGATIVO: Niente non è nulla 3. INFINITO: Niente è non-nulla Potevo anche scegliere il termine niente, ma ho scelto nulla perché, nel terzo giudizio, esce quel suggestivo non-nulla, che in italiano esiste come nonnulla. • Se niente è nulla, di esso si può dare un giudizio razionale. • Se niente non è nulla, di esso si può dare un giudizio irrazionale. • Se niente è non-nulla, di esso si può dare un giudizio non-razionale. Che differenza c’è tra irrazionale e non razionale? C’è la differenza che passa tra qualcosa di non spiegabile logicamente e qualcosa di spiegabile non logicamente; a dire che fra la cognizione razionale e quella irrazionale potrebbe esserci un’infinità di altre possibilità cognitive. Il giudizio infinito lascia semplicemente la porta aperta a ciò che potrebbe esserci al di là (o al di qua) di ciò che si afferma e di ciò che si nega. L’Intelletto ondeggia continuamente tra l’affermazione e la negazione: come l’energia elettrica in un circuito chiuso. La Ragione ne esce e cerca altre possibilità. Il circuito chiuso è confortante, sicuro, ma è un carcere. Si è sempre indecisi sulla scelta fondamentale della vita: accontentarsi delle ore d’aria nel carcere di sicurezza dell’Intelletto o evadere nell’aria aperta della Ragione. Evadono coloro ai quali sta stretta la libertà condizionata; evadono coloro che vogliono entrare nella libertà incondizionata: Heidegger è fra questi. Io, dal canto mio, voglio solo evadere dall’essere: • Se essere è essere vivo, voglio morire • Se essere è non essere non-essere, voglio essere non-essere: nulla o niente? Heidegger definì l’essenza del nostro essere, in quanto esistenti, come «l’uscir fuori dall’essente, per vederlo dall’alto»; noi, essenti, e-sistiamo perché siamo in grado di “star” sia fuori (es- = ex) sia dentro (-sistenza = sistentia): teniamo il piede in due staffe, in due scarpe: da una parte viviamo e dall’altra ci vediamo vivere (cosa che l’animale non può fare). Siamo naturalmente portati su, dalla fisica alla meta-fisica: possiamo vedere ed anche stare a guardare il nostro vedere. L’Intelletto vede e la Ragione guarda il “suo” Intelletto mentre questi vede; ma l’Intelletto è della Ragione e la Ragione è dell’Intelletto, perché, a ben vedere, sono la stessa facoltà che agisce in ambiti e modi diversi. Se io guardo il mio Intelletto vedo il mio essere ente che è (= essente) ente fra enti; se poi, guardando il mio ente, lo desidero non essente, mi resta il dubbio su cosa questo desiderio aneli, effettivamente. Parlavo di circuito chiuso. La domanda che mi ha sempre ossessionato, da che sono in grado di pensare (non ho detto di ragionare) è: c’è una via di fuga dall’essere? Un’uscita di sicurezza per evadere dal carcere della vita? Non mi si risponda che questa uscita è la morte, perché non sono così sicuro che essa sia un’uscita di sicurezza: a sentire i cristiani, il trapasso per quella porta è porta in quanto porta comunque alla vita; si danno solo due possibilità: o vita in paradiso o vita all’inferno. La vita eterna la si può scegliere in una sola di queste due forme. I filosofi di professione ritengono poco serio, cioè poco professionale, tirare in ballo il catechismo, quando si fa filosofia; io credo però che il catechismo, di qualsiasi religione esso sia, influisce, e molto, sulla nostra educazione metafisica, anche se siamo filosofi, più o meno professionisti. Lo stesso Heidegger, pur avendo fatto molta attenzione a non tirare in ballo la sua educazione cattolica, ha fatto comunque i conti con essa, a dire che una tal educazione per lui ha contato, comunque. E se uno non la volesse, la vita eterna? E sa a uno la vita non piacesse, in nessuna forma, in nessun modo, né eterna né non eterna? Dal momento che si nasce si è costretti a vivere per sempre, dannati o salvati? Prendere o lasciare? Oppure si viveva anche prima di nascere, e allora la vita è eterna come si dice essere Dio, senza scampo? Insomma: c’è, da qualche parte, un nulla o un niente nel quale sperare di poter finire? Io sono un insegnante, e, talvolta, non sarà educativo, ma mi succede di farlo: dico ai miei allievi che se ci fossero due pulsanti, uno verde per rimanere “in essere” e uno rosso per non rimanere “in essere”, io schiaccerei subito il pulsante rosso; e chiedo a loro quale dei due schiaccerebbero. Mi interessa vedere quali ragioni a favore dell’essere mi danno questi ragazzi; sì, magari alla loro età sarà difficile dare un giudizio maturo sulla vita, ma continua a piacermi sentire le ragioni che adducono a favore della vita. Mai nessuna ragione mi ha convinto, però, fra quelle a favore della vita. Più ascolto le risposte a favore del pulsante verde e più mi convinco che l’essere umano non è ancora abbastanza esistente, cioè non è ancora abbastanza capace di uscire fuori dal circuito chiuso della propria intellezione animale per guardare ragionevolmente la propria condizione umana. L’«essere» mi sembra un enorme contenitore, una specie di scatola nera nella quale avviene di tutto; il cielo in una stanza, per citare il titolo di una famosa canzone. Cioè, dentro a questa scatola con il soffitto dipinto d’azzurro sono vissuti, e tutt’ora vivono, una miriade di esseri che credono veramente (o vogliono credere) di poter vedere il cielo in quel falso cilestrino che affresca la volta del loro scatolone! Questi esseri, inscatolati, questi esseri in scatola, che siamo tutti noi, pigiati come acciughe, non si sognano mai di vedere un apriscatole, in quel contenitore rompiscatole? E le stelle, che stanno a guardare? Tutto, in questo scatolone, viola la privacy. Questi esseri inscatolati passano tutta la vita a reclamare la propria libertà e il diritto alla loro privacy, spaccano il capello in quattro su diritti e doveri contenuti nello scatolone, e poi, sulla questione fondamentale, che è appunto il loro diritto/dovere di essere o non essere inscatolati, cioè di mettere in discussione il contenitore, di questo non fanno quasi mai questione? Come è possibile? Costoro mi sembrano dei forzati che spacciano l’ora d’aria per aria libera, il soffitto per il cielo, lo scatolone per lo spazio infinito. Essere inscatolati dalla vita per finire in pasto alla morte, come delle sardine! Spero che il lettore capisca la mia speranza di uscire dallo scatolone senza dover entrare in un altro; uscire e basta, a costo di finire nel nulla, o nel niente, senza nessuno che apra la scatola per ingoiarti e defecarti da qualche altra parte dell’universo. Penso che a Dio non piaccia la carne in scatola, ed è per convincermene che ho scritto quanto segue.
Posted on: Sun, 03 Nov 2013 14:13:45 +0000

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