BRENNER PASS L’avevo raccolta in una casa del dolore, in una di - TopicsExpress



          

BRENNER PASS L’avevo raccolta in una casa del dolore, in una di quelle case che c’erano un tempo, dove tre o quattro donne non più giovani ma non ancora sfaldate, si riunivano ciascuna nella sua celletta, bagno e cucina in comune, e alla sera recitavano il rosario della contrizione per essere state tradite dal mondo (leggi da un uomo). Era molto meglio di quanto mi aspettassi, ma completamente diversa dal tipo che mi aspettavo. Era una tedesca minuta, ma soda ed elastica in ogni sua parte, con capelli e occhi nerissimi, quando anche quelli che hanno i capelli neri, il più delle volte, hanno gli occhi blu. Avevo bisogno di un’interprete che conoscesse bene non solo il tedesco ma anche l’italiano, affinché potesse tradurre con tutte le sfumature del caso quello che avevo da dire a chi avevo da incontrare in Germania. Un amico che la conosceva la contattò per me, le spiegò la cosa, e lei disse sì. Sarebbe venuta con me perché in ogni caso doveva tornare in Germania per qualche giorno dai suoi genitori e un paio di centinaia di vecchie mille lire sarebbero bastate. Ci conoscemmo la sera prima della partenza, per una cena nel piccolo monastero dove viveva, insieme all’amico comune e alle due penitenti che spartivano con lei cucina e bagno e spleen. Il mattino dopo, alle 7, era puntualissima sul portone di casa con la sua valigetta. Fu un viaggio anonimo e noioso come in genere lo sono quelli di lavoro. Le spiegai e rispiegai i concetti di fondo che doveva far capire al tedesco che dovevo incontrare e le informazioni che avrebbe dovuto cercare di ottenere da lui. Per il resto una conversazione cortese e del tutto insignificante. Allora avevo un’Alfa 190 che teneva la strada in modo magnifico e filava silenziosa e cattiva come un missile intercontinentale. Non c’erano aulovelox e fotocamere, quelle che oggi ci avvelenano la vita, e arrivammo in un attimo in cima al passo. Ci fermammo, prima della dogana, al bar dell’autostazione, per un caffè. Naturalmente era una questione di principio e volle assolutamente pagare il suo caffè; aprì la cerniera laterale della valigetta e non trovò il portafoglio e con esso il passaporto. Si trasformò in una statua di sale, la disperazione dello sconforto senza rimedio. Con gli occhi sembrava dirmi: “Abbattimi subito e liberami di questa esistenza colpevole e vergognosa”. L’afferrai per un braccio. Per la prima volta toccai la sua carne senza un filo di ciccia, solo polpa e muscolo. “Non avere paura, ce la facciamo lo stesso. Guarda le macchine in fila alla dogana. Gli italiani non controllano proprio nessuno, gli austriaci uno su tre, ma se la macchina è tedesca o austriaca sorridono e fanno cenno di passare immediatamente. Adesso ti calmi, bevi un altro caffè, poi passi alla guida e tieni in mano il mio passaporto ben visibile e non solo saluti, ma dici qualcosa di gentile al doganiere austriaco”. Sentivo che per lei questa era cosa enorme, abnorme, stratosferica. Tentare di ingannare le autorità costituite. Provare a mentire ai superiori, macchiando indelebilmente la coscienza cristallina di onestissima cittadina. Però il senso di colpa verso di me, e l’odio che provava verso di sé, furono superiori al timore che in perfetta malafede ci fa credere di essere integerrimi e consenzienti senza riserve nell’osservanza dei doveri di cittadinanza (i passaporti li ha inventati Gesù Cristo o qualche bavoso leguleio armato di cappio e catena?). Salì al posto di guida. Le diedi il mio passaporto e le accarezzai lieve la mano che lo stringeva. Sospirò e infilò la prima. Allo sbirro di frontiera disse qualcosa che riguardava un certo signor Grüss e un altro che si chiamava Gott. La guardia accennò ad un sorriso e fece cenno di passare. Procedette in uno stato trasognato e felice, esattamente come Sonny Liston sul ring al quarto jab consecutivo di Cassius Clay. Cento metri più in là era un’altra donna. Mi chiese di fermarsi alla prima Gastette perché doveva pisciare le cascate del Niagara. Poi fu un fiume di parole e di risate. Se in una situazione di rischio mantieni la calma e la fiducia, una donna sa di avere accanto un uomo, e per una donna avere accanto un uomo, è l’unica cosa vera che chiede alla vita. E poi non è vero che il caso ti sia sempre contro. Se lui sente che gli vuoi dare una mano, che credi in lui e sei disposto a rischiare la sua sentenza, facendo qualcosa che faccia divertire la sua gelida indifferenza, lui si stiracchia dalla sua apatia e ti lascia vincere. Se credi nelle carte che ti ha dato, se lo aiuti nel prenderne delle migliori, lui capisce che credi in lui e ti aiuta. Il caso odia la folla e chi dubita. Non c’è idiota più perdente di colui che dubita, perché sarebbe come dire che si vuole assolutamente qualcosa ma si teme di non avere sufficiente titolo per averla. Se vuoi assolutamente una cosa o ce l’hai o muori. Se vuoi, prima di avere quello che vuoi, essere sicuro di sopravvivere, meriti di non averla e di vivere a sufficienza per rimpiangere il fatto di essere sopravvissuto. Provai a spiegarglielo con un paragone storico. Quando Federico di Svevia – suo antico conterraneo - venne nella pianura di Legnano era sicuro di dare la mazzata finale ai milanesi. La cavalleria milanese era una comica. I figli degli speronari, dei furmagiatt, degli spadari, dei follatori che avevano fatto i danée. I loro padri aveva fatto tanti, ma così tanti danée, che potevano comprare al figlio il cavallo da battaglia e il corredo da guerriero. Ma erano ragazzotti che al massimo a cavallo facevano la loro figura in parata giusto per aggallarsi davanti alle signore della Milano bene, e poi via alla sera in osteria a chi la sparava più grossa. Gli altri erano la cavalleria feudale imperiale, da mille anni si alzavano all’alba, affilavano le lame, e l’istinto assassino se lo passavano di padre in figlio. Ma il popolo di Milano mantenne la calma ed ebbe fiducia nella sua cavalleria. Ottone di Frisinga raccolse il cenno dell’Imperatore e ordinò alla cavalleria di avanzare al piccolo trotto. Neri i cavalli, nere le armature brunite, come una sorta di enorme drago nero, andavano implacabili dietro il labaro imperiale, l’aquila nera in campo oro. Dall’altra parte, gli elegantissimi figli dei Brambilla nelle loro corazze tirate a specchio e gli splendenti colori dei palafreni di magnifico tessuto. Sul pennone del Carroccio sventolava alto il gonfalone di Milano, la croce rossa in campo bianco. Sembrava l’emblema della Croce Rossa Internazionale che presto avrebbe accolto nei suoi ospedali mille e mille acciaccati. Il trotto della cavalleria sveva aumentava in progressione fino a farsi galoppo, e allora, i mille e mille cavalli di Milano, proprio come quando pisci su di un formicaio, si sparpagliarono in ogni direzione, in una fuga talmente vergognosa da risultare persino indecoroso vantarsi di averli messi in fuga. Ma il popolo di Milano aveva avuto fiducia illimitata nella sua cavalleria e nella vittoria che pensava le spettasse di diritto. Era accorso in massa dietro i suoi prodi, come se fosse il derby con la Juve. Donne, vecchi, bambini, su carretti, carrettini, birocci, asini. I figli dei panettieri armati dei legni con cui infornavano il pane,quelli degli osti con lo spiedo di cucina, i barbieri con pinze e rasoi. Un caos indescrivibile, ma invisibile fino a che le schiere della cavalleria milanese erano rimaste compatte. Fermare la carica era impossibile e così la cavalleria imperiale finì come in un immenso acquitrino di sabbie mobili, impastoiata fra un carro e un carrettino, fra le corde che legavano fra loro muli e asini, beccandosi ora una pignatta di busecca bollente sull’elmo, ora la fiondata di un ragazzino proprio fra le fessure che scoprivano gli occhi. Quando poi i meno finocchi dei cavalieri milanesi si accorsero del caos in cui era finita la cavalleria imperiale,fecero dietro front e iniziarono a circondare gli svevi. E infine la ciliegina sulla torta. Il figlio di un fabbro si trovò di lato ad un imponente cavallo e diede un tremendo colpo, con la mazza da lavoro, sullo stinco del cavallo, che stramazzò a terra con il suo cavaliere. Era Federico Barbarossa, l’imperatore. Come ci si accorse che l’imperatore era ruzzolato al suolo, la grande nobiltà accorse attorno a lui a fargli cerchio, abbandonando la schiera dei propri vassalli. Il conte palatino scese da cavallo e su di esso fece montare l’imperatore. Quindi, al galoppo, lo condussero al riparo verso un boschetto di pioppi. I vassalli e i cavalieri, vedendo i loro maggiori al galoppo allontanarsi dal campo di battaglia, pensarono ad una ritirata e mollarono di dare piattonate a servotte, armigeri della domenica, ragazzini esagitati. Sulla piana di Legnano restava solo la cavalleria milanese e il popolo che aveva avuto fiducia illimitata in lei. Mai vittoria fu più meritata e meno cruenta. “Noi – le dissi – abbiamo fatto come a Legnano. Abbiamo voluto passare, costasse quello che costasse, sicuri del nostro buon diritto ad averla vinta. E siamo stati premiati, l’imperatore ancora una volta a terra”. Ma lei adesso non era più accanto a me, ma dietro di me, sul cavallo alato che volava intrepido verso i castelli della Bassa Baviera. Non ascoltava, sognava. A sera ci fermammo in una gasthaus molto tradizionale di un piccolo paese sperduto nel verde. Volle a tutti i costi che fissassi una camera sola, per evitare sprechi inutili. A tavola il menù era ricco e vario. Mi traduceva il contenuto dei piatti che avremmo potuto ordinare. Lei, naturalmente, non mangiava carne, non beveva alcolici. Ma poi le cadde l’attenzione su di un piatto curioso, una zuppa di grosse polpette di fegato di maiale tritato e impastato con altre cose. Ebbe un attimo di commozione e mi disse che i suoi una volta avevano una gasthaus e questa era la specialità della casa. E così trionfalmente ordinò per tutti e due questa zuppa e aggiunse per lei un piccolo boccale di birra bianca, quella al lievito aggiunto, mentre io mi bevevo una caraffa da un litro di pilsner. Dormire nella stessa camera non fu una cosa facile. Per fortuna si trattava di lettini separati. Mi avevano insegnato a fare la cosa giusta, non la cosa facile, anche perché fare la cosa facile, in apparenza ti conduce al sodo, ma poi ti lascia nel bisogno. Di sicuro se mi fossi infilato nel suo lettino non avrebbe detto no. Ma avrei perso la faccia, perché lei era in quel lettino per una serie di circostanze del tutto stravaganti e imprevedibili. Al momento la cosa sarebbe potuta essere anche coinvolgente, ma il giorno dopo di sicuro deludente. Così dormimmo come due sposi catari, con la spada della purezza a dividere i nostri corpi, per poter unire le nostre anime. Il giorno seguente fu una vera tigre nell’ottenere tutte le informazioni che volevo dall’interlocutore con il quale avevo appuntamento e nel fargli accettare il mio punto di vista. A mezzogiorno la riunione si sciolse e ora poteva andare a casa sua, dai suoi genitori, che abitavano in un città ad una ottantina di chilometri. Voleva che la portassi alla stazione per prendere il treno. Non provai nemmeno a controbattere; imboccai l’autostrada e in poco più di mezz’ora era sotto casa. Mi salutò, dicendo: “Fra tre giorni sono a Milano”. La sera del terzo giorno del mio ritorno ricevetti una telefonata. Era lei che mi invitava a cena a casa sua per il giorno dopo. Arrivai puntuale alle sette, orario nordico. Le amiche non c’erano; lei indossava la cosa più stravagante che avessi mai visto, una sorta di tutina elastica a pezzo unico, dal collo alle caviglie, a disegno pelle di leopardo. Le mancavano solo i baffi finti da giaguaro, e sarebbe stata, in tutto e per tutto, una gattona ridente e festante. All’epoca Bersani non era ancora nato, ma io capii che avrei dovuto subito procurami un grande smacchiatore, perché a levare tutte quelle macchie di leopardo ce ne sarebbe voluto di tempo e pazienza.
Posted on: Fri, 02 Aug 2013 16:04:58 +0000

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