Divi di stato – Le balle spaziali di Hollywood 2 Parte – di - TopicsExpress



          

Divi di stato – Le balle spaziali di Hollywood 2 Parte – di John Kleeves La politica estera americana Il che introduce l’argomento dell’uso della CIA fatto dalla politica estera americana. Tutti sanno che la CIA è responsabile di varie nefandezze nel mondo: ogni tanto un colpo di Stato, ogni tanto l’omicidio di una personalità politica estera, e così via. Com’è ovvio, la CIA non prende iniziative di tale portata da sola: necessità dell’ordine o dell’approvazione sia del Congresso che del Presidente, i responsabili della politica estera del paese. Come presentano la cosa i film americani sull’argomento? Immancabilmente le nefandezze della CIA sono il frutto di sue “deviazioni”, o quantomeno dell’eccesso di zelo dei suoi dirigenti e agenti; Congresso e Presidente non sono mai chiamati in causa, non sapevano mai niente. Tale è dunque la situazione: Hollywood falsifica la realtà americana in alcuni suoi aspetti sensibili, sia del passato che del presente. Non vi sono dubbi che la prassi sia intenzionale. Ciò si deduce prima di tutto dalla sistematicità e coerenza della falsificazione: non un film di Hollywood fa eccezione a quanto detto sopra. Quindi si può notare che Hollywood non è certamente all’oscuro della verità sui vari argomenti. Per quanto riguarda la società americana è sotto i suoi occhi; ci vive dentro e la conosce perfettamente. Negli Stati Uniti la corretta interpretazione delle varie topiche della storia americana è perfettamente nota a scrittori, registi, sceneggiatori, consulenti vari: gli artefici dei film di Hollywood. L’interpretazione sopra esposta della Guerra di Indipendenza e della Guerra Civile non è mia, ma di Charles Austin Beard (1874-1948), il più grande storico americano, che la dimostrò in vari libri a partire dal 1913 (An Economic Interpretation of the Constitution, The Rise of American Civilization, The Economic Basis of Politics e altri ancora), tutti libri conosciutissimi dall’intellighenzia statunitense e la cui veridicità non è messa in dubbio. La vera situazione degli schiavi neri è descritta in molti libri statunitensi, così come la dimensione della tragedia dello schiavismo per l’Africa (Native American Htstorical Demography è in ogni biblioteca). Lo stesso vale per la storia degli indiani: negli Stati Uniti il primo libro che raccontava la verità, A Century of Dishonor della Jackson, fu addirittura pubblicato nel 1881, e seguito da moltissimi altri – Bury my heart at Wounded Knee di Dee Brown, pubblicato nel 1971, è conosciutissimo in Europa, e logicamente ancora di più negli States. La storia del Texas e dei suoi schiavi è nei libri per le scuole medie così come raccontata sopra, tranne che per i mercenari e la figura di Davie Crockett, la verità sui quali è comunque nella biblioteca di qualunque Junior College. Meno pubblicizzati negli Stati Uniti sono i motivi della partecipazione alle due guerre mondiali e la natura coloniale delle guerre di Corea e del Vietnam: si tratta dell’attualità della politica estera americana, si tratta di american foreign policy in the making,, ed i suoi scopi sono tenuti nascosti al grande pubblico. Ma anche qui la verità è perfettamente intuibile per l’stablishment statunitense, ed in particolare per la sua intellighenzia, che tale politica estera concorre, nella pratica, a formulare. La vera natura dei bombardamenti aerei strategici della Seconda Guerra Mondiale è di sicuro un tabù negli USA; alcuni libri sull’argomento consentono però di farsene un’idea abbastanza precisa, e potrei citare Wings of Judgement di Ronald Schaeffer del 1985 e A History of Strategic Bombing di Lee Kenneth del 1982. Lo stesso si può dire delle responsabilità statunitensi in America Latina, dove la letteratura in merito è abbondantissima negli Stati Uniti, e per citare solo i più illuminanti vedi Cr of the People. United States Involvement in the Rise of Fascism, Torture, and Murder and the Persecutiont of the Catholic Church in Latin America di Penny Lernoux del 1980, American Neo-Colonialism di William Pomeroy del 1970, An American Company. The Tragedy of United Fruits di Thomas McCann del 1976, Silent Missions di Vernon Walters del 1978, The Morass. United States Intervention in Central America di Richard White del 1984, US Policy Toward Latin America di Harold Molineau del 1986. Una analoga abbondanza si trova sull’argomento CIA e operazioni segrete varie, dove la verità della situazione non è poi tanto fra le righe. Sull’argomento ha scritto anche un importante agente della CIA pentito, Philip Agee, che nel 1975 pubblicò negli Stati Uniti Inside the Company. CIA Diary e poi riparò all’estero. Anche Victor Marchetti, un (ex?) agente della CIA piuttosto noto in Italia, ha scritto delle verità sulla Compagnia; ad esempio, in The CIA and the Cult of Intelligence del 1974 ha scritto a pag. 6 che i Presidenti americani “are always aware of, generally approve of, and often initiate the CIA’s major undertakings” (“sono sempre stati consapevoli e generalmente hanno approvato e in più di un caso addirittura promosso le maggiori imprese della CIA”). I colpi di Stato e gli omicidi politici sono certamente dei major undertakings. Il fascino indiscreto della disinformazione Non rimane che chiedersi perché Hollywood faccia tanta disinformazione mirata sul proprio paese: chi glielo fa fare, e cosa ci guadagna? La risposta non è difficile, anche se richiede delle premesse, come sempre purtroppo quando si tratta degli Stati Uniti, questi sconosciuti. Si è già accennato all’organizzazione interna degli Stati Uniti, al dominio dell’establishment oligarchico ed alle sue esigenze di prevenzione del dissenso, prevenzione attuata essenzialmente tramite lo stretto controllo del mondo mediale. Hollywood è fuor dl dubbio l’elemento più importante di tale mondo assieme alla carta stampata ed al notiziari televisivi e radiofonici. Ecco che Hollywood deve confezionare prodotti politically and culturally correct, e cioè di regime, proprio come fanno la carta stampata ed i notiziari televisivi e radiofonici americani. Ma la massima importanza di Hollywood è in politica estera. La politica estera americana è elaborata dallo stesso establishment mercantile che comanda nel paese e non fa che proiettare all’estero gli scopi che quello ha all’interno: arricchire sempre più. Per questo la politica estera americana ha sempre seguito, sin dalla fondazione dell’Unione, il seguente unico criterio, o logica di comportamento: mettere a disposizione le sue risorse – diplomatiche e militari – per agevolare le imprese economiche all’estero di quelle entità private americane – società o anche singoli operatori, entrambi membri per definizione dell’establishment mercantile – che vi si dedicano. Naturalmente c’è anche l’esigenza della difesa nazionale, ma questa, vista la geografia, è sempre stata del tutto secondaria. In pratica con gli Stati Uniti abbiamo una classe mercantile dalla psicologia speciale che si è completamente impadronita di un paese e che ne adopera i grandi mezzi umani e materiali per ricercare opportunità di arricchimento in tutto il resto del mondo, ovunque le trovi. Si capiscono meglio gli Stati Uniti, nei loro rapporti con gli altri paesi, se li si pensa non alla stregua di un paese fra i tanti, ma come una impresa commerciale privata; privata ma grandissima, con enormi risorse umane e materiali a disposizione; privata ma con un potente esercito mercenario agli ordini, e con nessun tribunale cui dover rendere conto. Il vero volto degli USA Questo, e niente altro, sono gli Stati Uniti d’America. Ciò si dimostrò sin da subito nelle relazioni estere del paese, e cosi rimase sempre. I mercanti del New England scatenarono la rivolta del 1776 contro la madrepatria inglese quando questa scoprì il suo gioco di voler lasciare alla East India Company di Londra il monopolio del commercio con la Cina. Quindi la neonata federazione combatté la su prima guerra, quella del 1812 sempre contro la Gran Bretagna, con l’obiettivo di scalzarla dai Grandi Laghi canadesi, la zona che forniva quelle pellicce che erano la merce di scambio più ambita dai cinesi, e quindi da John Jacob Astor, il proprietario della American Fur Company. L’intera Conquista del West fu eseguita giusto per raggiungere il Pacifico ed suoi porti, dai quali i grandi mercanti del New England avrebbero potuto commerciare con l’Oriente; anche le Hawaii e le Filippine furono prese allo stesso scopo, così come allo stesso scopo era stata acquistata l’Alaska. Cuba fu presa nel 1898 per garantire lo sfruttamento delle piantagioni di canna da zucchero che vi avevano acquistato alcune multinazionali e alcuni singoli americani. Per analoghi motivi si iniziarono a sovvertire in quegli anni i paesi dell’America Centrale: le multinazionali statunitensi della frutta, fra le quali particolarmente attiva la United Fruits (poi United Brands), volevano procurarsi in loco e praticamente per niente, grandi piantagioni e chiesero al loro governo di Washington di sostituire i governi regolari con altri più condiscendenti. Detto e fatto. Poi vollero che la mano d’opera locale fosse ancora più a buon mercato ed ottennero governi ancora più condiscendenti, formati da dittatori mentecatti alla Anastasio Somoza che per garantire a se stessi e a qualche loro accolito un buon conto in banca a Miami consegnavano la loro popolazione alla macellazione degli statunitensi: infatti ogni tanto si verificavano scioperi nelle piantagioni, e la multinazionale proprietaria mandava marines e green berets a mitragliare i peones con gli elicotteri (proprio così, più e più volte, è capitato nelle piantagioni della United Fruits in Guatemala, e da altre parti; capita ancora, certo, ed i mitragliamenti sono eseguiti dalla Delta Force e dagli Air Commandos dislocati alla Eglin Air Force Base in Florida). Più tardi motivi analoghi portarono alla sovversione dell’America del Sud: con il colpo di Stato in Brasile del 1964, nel giro di due anni le multinazionali statunitensi si appropriarono della metà delle industrie brasiliane (una volta in pensione il gen. Do Couto y Silva, amico di Castelo Branco, fu assunto dalla Dow Chemical come direttore della filiale brasiliana); il colpo di Stato in Cile del 1973 fu voluto da un pool di multinazionali statunitensi operanti nel paese, specialmente nel settore del rame; e così via. Stessi scopi e stessi sistemi per la “politica estera” statunitense in altri luoghi del mondo, in pratica ovunque poté: in Africa, nel Medioriente, nel Pacific Market (segnatamente nelle Filippine, in Indonesia, nella Corea del Sud, a Taiwan e in Indocina, dove però alla fine andò male). Il motivo del grande attivismo della politica estera americana, della sua presenza in ogni luogo del mondo, anche il più remoto, il suo intromettersi in ogni bega locale, in ogni controversia, in ogni conflitto anche il più lontano dai propri confini e quindi anche il più assolutamente ininfluente sulla propria “sicurezza nazionale”, è il fatto che tale politica segue gli interessi dei propri imprenditori privati, e questi ultimi vanno dappertutto nel mondo, a rivoltare ogni sasso per vedere se sotto c’è qualcosa da prendere. Tale logica vale per tutti, non solo per gli sprovveduti del Terzo Mondo: gli americani non hanno timori reverenziali né un rispetto particolare per nessuno, tantomeno per gli europei. In Europa gli sconfitti furono mantenuti nel recinto col Piano Marshall, che era la soluzione più economica per mantenerne il controllo, e poi furono spremuti per quanto si poteva: ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, Germania e Italia non possono praticamente costruire aerei, né da guerra né civili, perché li devono comprare dalle industrie americane, e lo stesso vale per altri settori “strategici”, mentre ancora non possono esportare certe merci negli States e ne devono di là importare a forza altre. Ancora questi due paesi non hanno il coraggio di presentare alle rispettive popolazioni i veri dati delle loro relazioni economiche con gli Stati Uniti. Ancora di più questo vale per il Giappone. Come già accennato, anche le due guerre mondiali furono fatte dagli Stati Uniti per agevolare le loro aziende con interessi all’estero: si doveva impedire la formazione di un Blocco europeo continentale, che sarebbe stato troppo forte militarmente ed avrebbe dominato i mercati internazionali escludendo tutti gli altri, in primis le multinazionali statunitensi; nella Seconda Guerra Mondiale era pressante l’esigenza delle aziende statunitensi di non essere escluse dal mercato della Cina, occupata militarmente dal Giappone nel 1937. Anche la Guerra Fredda con l’URSS del 1945-1989 era, in ultima analisi, fatta solo per le aziende americane con interessi all’estero: la scusa del contenimento del comunismo serviva per controllare e cambiare governi un po’ dappertutto allo scopo di renderli più accondiscendenti con le esigenze delle medesime. In effetti, con la Guerra Fredda l’impero neocoloniale americano raggiunse la massima espansione della sua storia: in quel periodo fu completato l’asservimento dell’America Latina e vi furono aggiunti quelli di mezza Africa, di mezzo Medioriente, dl quasi tutti i paesi del Pacific Market. USA cancro del pianeta? Non rimane che notare come tale politica estera americana non sia affatto indolore per il mondo. Ci sono sfruttamenti economici, risorse portate via ai legittimi proprietari, che rimangono così impoveriti con tutte le conseguenze del caso. Ad esempio con la vita media più corta, con tanti anni che avrebbero potuto essere vissuti e che invece non lo sono stati perché il paese è drenato dalle aziende statunitensi. Quindi c’è da dire che un governo filo-americano, e cioè filo-multinazionali statunitensi, non nasce spontaneamente in un paese, perché per definizione contrario ai suoi interessi: deve essere creato artificiosamente, influenzando elezioni, corrompendo elementi chiave, provocando colpi di Stato; e spesso per certi periodi deve essere mantenuto a forza con la repressione poliziesca e militare, con gli Squadroni della Morte. Ci sono quindi stragi e ammazzamenti dappertutto, laddove quelli accennati prima per l’America Latina non sono che una frazione (si pensi al colpo di Stato del 1965 in Indonesia, che portò alla sostituzione di Sukarno col più conciliante Suharto e provocò un numero impressionante dl morti: da cinquecentomila a un milione, a seconda delle fonti; ora le stragi sono ancora in corso a Timor, dopo i 700.000 morti del 1976). Questa, e niente altro, è la politica estera statunitense. In parole povere, con l’operato degli Stati Uniti si sta assistendo al tentativo di un paese di soggiogare l’intero mondo ai suoi desideri, che ora sono economici ma che un domani potrebbero ampliarsi, prospettiva ben poco rassicurante. Si tratta di una politica che va a detrimento degli interessi di tutti gli altri e che è anche pericolosa per il mondo, in verità micidiale. Non può essere dichiarata, eseguita alla luce del sole: se la gente la capisse, vi resisterebbe, e portarla avanti sarebbe troppo costoso per gli Stati Uniti, probabilmente impossibile. Ecco che gli Stati Uniti hanno l’esigenza di nascondere tale politica, facendo credere che la loro politica sia realtà un’altra. Questa politica estera finta, facciata, è quella ben nota e ufficiale degli Stati Uniti, che essi dichiarano ad ogni passo ed in ogni occasione: la difesa della democrazia e della libertà nel mondo. Ciò implica di dover eseguire a monte un altro camuffamento, quello sulla vera natura degli Stati Uniti, come società e come storia: chi crederebbe ad una politica estera mirante a difendere democrazia e libertà nel mondo da parte di paese che la democrazia e la libertà non le ha mai viste e che ha una storia come quella cui si è accennato sopra? Bisogna sostenere, invece, che gli Stati Uniti sono una democrazia genuina, pure se con qualche pecca forse nel passato (mai nel presente); che tutti gli americani hanno facile opportunità di raggiungere l’agiatezza; dove i fallimenti dipendono solo da rare e inscusabili debolezze personali; che gli americani sono ingenui e che se fanno qualche errore, magari in politica estera con qualche strage di troppo, lo fanno per stupidità; che la storia americana è un sentiero cosparso di candore e buone intenzioni: una guerra di indipendenza dal tiranno Giorgio III; una guerra nel 1812 contro lo stesso problema; una Conquista del West per fare un po’ di spazio a quei poveri emigranti provenienti dall’Europa; una guerra civile con quasi 500.000 morti fatta solo per ragioni morali, per togliere ad una parte della popolazione un cattivo vizio datogli dalla Corona inglese; una conquista delle Hawaii per portare la civiltà, e idem per le Filippine; una conquista di Cuba per liberarla dal giogo coloniale spagnolo; una intromissione – un po’ pesante, è vero – in America Latina per aiutare quegli sprovveduti a governarsi; due guerre mondiali fatte contro i propri interessi, solo per difendere la democrazia in casa d’altri; qualche centinaio di colpi di stato che purtroppo si dovettero fare a partire dal 1945 per evitare che poveri e buoni popoli cadessero vittime del comunismo; qualche guerra con qualche milione di morti che purtroppo si dovette fare sempre dopo il 1945 per lo stesso motivo; e così via. Ecco creata la ben nota Retorica di Stato americana. Essa è, appunto, ben nota perché è propagandata con straordinari mezzi e intensità in tutto il mondo. Il compito non è affidato all’improvvisazione di qualche benintenzionato: c’è un’Agenzia federale apposita, che si occupa statutariamente solo di questo, l’USIA. L’United States Information Agency è stata creata nel 1953 con lo scopo dl “Influenzare le attitudini e le opinioni del pubblico estero in modo da favorire le politiche degli Stati Uniti d’America.., e di descrivere l’America e gli obiettivi e le politiche americane ai popoli di altre nazioni in modo da generare comprensione, rispetto e, per quanto possibile, identificazione con le proprie legittime aspirazioni”. In parole povere propaganda, solo propaganda, niente altro che propaganda: l’USIA ha il compito di diffondere all’estero l’immagine che si vuole degli Stati Uniti, proprio quella della Retorica di Stato sopra delineata, all’unico e solo scopo di mascherare la vera politica estera del paese. La sede centrale dell’USIA, che dipende dal Segretario di Stato e cioè dal Ministero degli Esteri, è ora al 301 IV South West Street di Washington ed il suo attuale direttore si chiama Joseph Duffey. E un’Agenzia federale pubblica nell’esistenza, ma segreta nell’operatività, esattamente come la CIA. Attualmente può contare su un budget che si aggira intorno ai 3 bilioni di dollari ed impiega sui 30.000 (trentamila) dipendenti, che gestiscono più di 300 centrali operative in più di cento paesi. L’USIA possiede suoi mezzi di informazione sparsi per il mondo, alcune centinaia tra riviste, giornali, fumetti, case discografiche, emittenti televisive locali, stazioni radio (sua è la VOA, Voice of America) e così via con i media. Il principale, strumento di lavoro dell’USIA è però il controllo del mondo mediale statunitense e dei suoi prodotti, perché questi poi vanno a finire in tutto il mondo, influenzando in modo decisivo l’opinione che all’estero ci si fa degli Stati Uniti. Seconda parte Propaganda di Stato Ora possiamo finalmente tornare a Hollywood. I suoi film, esportati in tutto il mondo, hanno una straordinaria importanza nel determinare l’immagine che all’estero ci si fa degli Stati Uniti; anzi, nella grandissima maggioranza dei casi, essi sono l’unico mezzo con cui la gente nel mondo si forma tale immagine. Hollywood quindi non poteva essere lasciata libera di creare i suoi prodotti, seguendo solo una logica di mercato: doveva essere guidata, portata a conciliare tali esigenze con quelle della propaganda governativa. L’asservimento di Hollywood alle esigenze della propaganda di Stato americana è una storia documentata. Agli inizi Hollywood crebbe in pace e autonomia: non si aveva ancora idea della sua formidabile importanza politica. Essa iniziò ad attrarre l’attenzione dell’establishment negli anni Trenta, quando produsse alcune pellicole di contenuto “sociale”, in linea con la politica apparente del New Deal del presidente Roosevelt (“apparente” perché in realtà Roosevelt non aveva alcuna intenzione riformistica; voleva solo salvare il regime oligarchico da una rivoluzione dovuta all’eccesso di miseria portato dalla Grande Depressione del 1929, ma, né fu scoperto dagli intellettuali, né fu capito dal grosso dell’ establishment:era troppo astuto per entrambi). La tendenza fu acuita dall’arrivo negli Stati Uniti a partire dal 1936, e in particolare a Hollywood, California, di molti intellettuali tedeschi “progressisti” che fuggivano dal nazismo, come Bertolt Brecht, Thomas Mann, Erich Fromm, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Hans Eisler, Fritz Lang, Billy Wilder e vari altri. In questo periodo la Frontier Film, per la quale lavorava anche il regista Elia Kazan, produsse dei documentari fortemente caratterizzati sul piano sociale, come The Plow that Broke the Plaints e The River di Pare Lorentz, che insospettirono l’establishment, mentre Blockade di William Dieterle del 1938, Grapes of Wrath di John Ford del 1939 e Man Hunt dl Fritz Lang del 1941 suscitarono aperte proteste in ambienti politici. Ma poi ci fu la guerra. Durante la guerra Hollywood partecipò massicciamente allo sforzo propagandistico del governo; vi si impegnarono, in genere con documentari, registi come Capra, Ford, Huston, Wyler, e furono prodotti film come Pride of the Marines, Mission to Moscow, Sahara, Action in the North Atlantic, Song of Russia., Tender Comrade, Hitler’s Children, Thirty Seconds Over Tokio. Ciò rese benemerenze a Hollywood, anche se Edgar J. Hoover immediatamente protestò per Mission to Moscow, ma anche dimostrò in pieno la sua tremenda potenzialità politica, la sua capacità unica di influenzare il pubblico mondiale. In più nell’immediato dopoguerra, accoppiando l’esperienza fatta nei documentari di guerra con l’esempio del cinema neo-realista italiano (Roma città aperta, Ladri di biciclette, Paisa’ ecc.), Hollywood produsse molti film sul tipo neo-realista, e di impegno e denuncia sociale, che ebbero un grande successo di pubblico sia negli Stati Uniti che all’estero; alcuni esempi sono The Best Years of our Lives di William Wyler, Crossfire di Edward Dmytryk, Lost Weekend di Billy Wilder, Snake Pit di Anatole Litvak, Kiss of Death di Henry Hathaway, Brute Force di Jules Dassin, Smash-up di Stuart Heisler, Gentleman’s Agreement di Elia Kazan, tutti usciti fra il 1945 e il 1947. Non erano film politici e tantomeno di propaganda politica; trattavano temi reali di gente reale: problemi di reinserimento per reduci, odio razziale, situazioni carcerarie, malattie psichiatriche. Erano realisti, raccontavano la società – americana – così com’era. Ma era proprio questo il problema: Hollywood andava assolutamente posta sotto controllo, non doveva più produrre film del genere. Ormai si era anche chiarito come bisognava procedere. La legislazione americana scritta garantiva – come ancora certamente garantisce – la libertà di parola e di espressione. Non si poteva istituire un ufficio centralizzato governativo di censura cinematografica, un Minculpop. Bisognava fare capire a Hollywood come si desiderava che si comportasse, trovare in quest’ottica una scusa emblematica per tormentarla sino ad ottenere la sua completa e volontaria, democratica, sudditanza. Dai numerosi e sempre meno timidi tentativi fatti a partire dal 1930 si era capito che tale scusa poteva essere l’esigenza di scoprire i comunisti che lavoravano in un’industria così sensibile come Hollywood. In realtà non si dovevano colpire i comunisti di Hollywood, o almeno non loro in primis. Questi erano pochissimi, solo qualche sceneggiatore come Dalton Trumbo e Paul Jarrico, qualche scrittore di testi come John Lawson e Albert Maltz, qualche regista come Robert Rossen e Herbert Biberman e qualche attore come Howard Da Silva e Anne Revere, e non avevano quasi influenza alcuna sui film prodotti. E poi erano dei comunisti all’acqua di rose, entravano e uscivano dal partito a seconda se piaceva o no l’ultima mossa internazionale dell’URSS; tranne che nel caso di Lawson non erano affatto degli attivisti, ma giusto dei simpatizzanti a parole e solo in certi periodi. Si dovevano colpire i molto più numerosi e determinanti progressisti, o liberali, elementi che senza essere affatto comunisti erano però sensibili a istanze o argomenti sociali, o erano semplicemente intelligenti, e che avevano sia la tendenza che la capacità di influenzare, di conseguenza, i lavori cui partecipavano. Soprattutto, e naturalmente, si dovevano convincere i produttori ad eliminare pellicole di un certo tipo, anche se economicamente remunerative. Dissenso a stelle e strisce Ad occuparsi della cosa non poteva essere altro che la commissione parlamentare chiamata House Committee on Un-American Activities (HUAC). Tale era il nome infine dato nel 1938 a varie commissioni parlamentari istituite a partire dal 1930 allo scopo di vigilare sul dissenso politico interno (definito “attività non tipicamente americana”), anche se il suo compito ufficiale era di raccogliere dati per aiutare la formulazione di nuove leggi. Già nel 1936 (in pieno New Deal rooseveltiano…) queste commissioni avevano innescato il fenomeno del blacklisting a Hollywood, e cioè l’esclusione pratica dal lavoro di elementi ritenuti nocivi agli interessi dell’establishment oligarchico. Quindi nel 1940 l’HUAC aveva già convocato a Washington, per interrogarli sulle loro idee politiche, ventidue esponenti di Hollywood fra i quali figuravano Fredric March, Humphrey Bogart, James Cagney, Jean Muir e Louise Rainer. La guerra aveva imposto la sospensione delle indagini, anche se Hollywood non fu affatto dimenticata: in pieno 1943 il Congresso, tramite il meccanismo dei fondi, bloccò il settore documentari di guerra dell’Office of War Information perché vi erano confluiti elementi della Frontier Film. Nel 1947 dunque l’HUAC, presieduta da J. Parnell Thomas e fra i cui membri figurava il giovane parlamentare Richard Nixon, iniziò una serie di udienze pubbliche e pubblicizzate, ufficialmente allo scopo di appurare il grado di infiltrazione comunista a Hollywood. In realtà l’obiettivo era di indurre i soggetti decisionali di Hollywood – in breve i produttori – a creare solo film adatti alla politica governativa americana, sia interna che soprattutto estera (già Nixon si era chiesto che effetto avrebbe avuto Grape of Wrath sugli yugoslavi). Nelle intenzioni dell’HUAC, e secondo le esperienze del 1936, si sarebbe dovuto arrivare a questo tramite la creazione da parte dei produttori di liste nere, che sarebbero servite per escludere da Hollywood tutti i soggetti, di ogni livello, non disposti a seguire fedelmente nel loro lavoro la Retorica di Stato ufficiale. Come ulteriore avvertimento trasversale le banche di New York che finanziavano i produttori di Hollywood strinsero il credito, mentre la Corte Suprema minava l’indipendenza economica dei medesimi stabilendo che essi non potevano possedere anche le sale di proiezione, cioè vendere direttamente al pubblico il loro prodotto chiudendo il cerchio. Una parte del personale di Hollywood reagì all’apertura delle udienze creando il Committee for the First Amendment (il Primo Emendamento stabilisce la libertà di espressione), del quale fra gli altri facevano parte i registi John Huston, William Wyler, John Ford, Billy Wilder, Elia Kazan e George Stevens, gli attori Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Gregory Peck, Danny Kaye, Gene Kelly, Kirk Douglas, Henry Fonda, Burt Lancaster, Edward G. Robinson, Katharine Hepburn, Myrna Loy, Rita Hayworth e Marsha Hunt, i musicisti Benn Goodman e Leonard Bernstein. Ma la maggioranza degli operatori di Hollywood, produttori come Jack Warner, David Selznick, Samuel Goldwyn e Louis Mayer in testa, aveva capito che avrebbe dovuto accettare la prassi dell’auto censura politica e culturale. La scrittrice di testi cinematografici Ayn Rand per dimostrare quanto bene avesse capito, compilò e pubblicò anche un manuale di autocensura per Hollywood, intitolato Guida dello schermo per Americani, che conteneva fra gli altri i seguenti principi: “Non insultare il Sistema della Libera Impresa”, “Non deificare l’Uomo Comune”, “Non glorificare il Collettivo”, “Non glorificare il Fallimento”, “Non insultare il Successo”, “Non insultare gli Industriali”. La guida sarà poi incorporata dall’USIA nei suoi manuali interni. Il risultato delle audizioni fu esattamente quello previsto. Dopo pochi interrogatori, dove chi si rifiutava di rispondere in virtù della protezione del Primo Emendamento veniva deferito per oltraggio al Congresso, e chi rispondeva citando il medesimo veniva tacitato o trascinato fuori dall’aula a forza, mentre ogni tempo e riguardo era concesso a chi accusava altri, con la cosiddetta Dichiarazione del Waldorf Astoria del 26 novembre 1947 i produttori accettarono di “ripulire” l’ambiente loro stessi tramite liste nere, e le sedute dell’HUAC furono immediatamente interrotte, senza neanche terminare l’audizione di tutti i convocati. Dieci degli interrogati – Bessie, Biberman, Cole, Dmytryk, Lardner, Lawson, Maltz, Ornitz, Scott e Trumbo, tutti sceneggiatori e registi – furono condannati ad un anno di carcere per “oltraggio al Congresso”, condanna confermata dalla Corte Suprema e poi scontata. Nessun’altra accusa si era potuta trovare nei loro confronti, come di nessun altro del resto, né di essere dei sovversivi né di avere neanche mai inserito della propaganda comunista nei loro lavori. Fra i primi interrogati c’era stato Bertolt Brecht (L’opera da tre soldi), che per Hollywood aveva scritto Hangmen Also Die (Anche i boia muoiono di Fritz Lang, uscito nel 1943). Fuggendo dal nazismo aveva cercato la libertà negli… Stati Uniti. Subito dopol’interrogatorio, nel quale aveva detto di non essere mai stato iscritto al partito comunista e di mettere nei suoi lavori giusto le sue opinioni, tornò in Germania. Le liste nere funzionarono. L’HUAC non commise l’errore di compilarle; disse solo che erano necessarie, aumentando il terrore con l’incertezza. Comparvero così materialmente, ancora non si sa per opera di chi, delle liste gonfie a dismisura di nomi di sceneggiatori, registi, scrittori, attori, musicisti, tecnici ecc., che erano ricavate, sembra, da articoli di giornale, dai resoconti dell’HUAC, dai titoli di testa di certi film e da dicerie, e che – continuamente aggiornate – servivano ai produttori ed ai datori di lavoro in generale di Hollywood per sapere chi tenere alla larga. Alcuni elementi continuarono a lavorare in nero, e a paga dimezzata; altri utilizzarono prestanome o pseudonimi; la maggioranza non poté più lavorare nell’industria cinematografica per molti anni, anche per sempre. Il danno maggiore agli elementi sulla lista nera ed alle loro famiglie, quando le avevano, era fatto dalla gente comune, dai vicini e dai conoscenti: erano oramai additati come sovversivi, traditori, nemici di quella società, e tutti giravano loro le spalle, quando non li infastidivano attivamente o non se la prendevano coi loro figli a scuola. Ad alimentare in modo quasi ufficiale queste hate campaigns c’erano una quantità di associazioni dei più vari generi e qualifiche, tutte però “ultraamericane”. Fra queste ne spiccava una a livello nazionale, la American Legion, forte di quasi tre milioni di iscritti e di un milione di simpatizzanti, con più di 17.000 sedi sparse nel paese: si occupava di tenere vivo il risentimento nei confronti dei “devianti” di Hollywood e picchettava anche gli ingressi dei cinema in cui si proiettava un film all’indice, o nei cui titoli di coda compariva un personaggio della lista nera. La normalizzazione funziona Per Hollywood fu sufficiente. L’unico film a contenuto sociale prodotto negli Stati Uniti dopo il 1947, del tipo mettiamo di Grape of Wrath, fu The Salt of the Earth (Il sale della terra di Herbert Biberman), girato nel 1951 fuori da Hollywood. Trattava dello sciopero di una piccola comunità di minatori del Nuovo Messico. Per produrlo Biberman, Scott e Jarrico avevano creato una compagnia di produzione indipendente ed il film era stato realizzato in un clima di terrore (ci furono spari contro la troupe) e terminato fra mille difficoltà: i laboratori non volevano sviluppare la pellicola, le ditte non consegnavano l’attrezzatura per il sonoro, la musica fu registrata con un sotterfugio, il montaggio fu eseguito di nascosto. Alla fine le poche sale che accettarono di proiettarlo furono picchettate dall’American Legion e negli States il film non fu neanche visto. A partire dal 1947 non solo scomparvero da Hollywood i film a contenuto sociale: anche in tutti gli altri film fu tolto qualunque riferimento alla classe operaia ed ai suoi luoghi di lavoro, le fabbriche. Si può esaminare l’intera produzione di Hollywood post-1947 sino all’ultimo fotogramma dell’ultimo film, ma una catena di montaggio o anche solo l’interno di una fabbrica non si vede. Eppure negli USA ci sono. Alla fine del 1949 giunse notizia che la Russia aveva costruito il suo primo ordigno nucleare. L’establishment americano si infuriò: in realtà accusava il governo di non aver portato prima un attacco nucleare alla Russia. L’attacco non era stato portato perché, nonostante tutti gli sforzi fatti su quel piano, non sarebbe stato decisivo e nella guerra generale che sarebbe seguita gli Stati Uniti avrebbero perso. Ma questo erano in pochi a saperlo: l’establishment pensava che la colpa fosse dei troppi “comunisti” che si erano “infiltrati” nel governo e nelle Agenzie governative, nelle scuole, nei media, dappertutto. Iniziava, a farla breve, l’Era McCarthy, che sarebbe durata sino al 1960 e che avrebbe visto il senatore Joseph McCarthy guidare sino al 1956 le inchieste dell’HUAC in ogni settore alla ricerca dei “comunisti”. Hollywood non fu risparmiata, benché avesse “già dato”, ma ogni tanto rivisitata per tutto il periodo. Nel 1951 furono convocati a testimoniare un centinaio di operatori di Hollywood, ed in base alle dichiarazioni di alcuni di loro, e segnatamente i “pentiti” Elia Kazan e Edward Dmytryk, fra il 1952 e il 1953 l’HUAC segnalò espressamente 324 nominativi da aggiungere sulla lista nera, fra cui lo scrittore Dashiell Hammett, il regista Joseph Losey, gli attori Howard Da Silva, Zero Mostel, Lionel Stander, Anne Revere, John Garfield. Hammett fu poi incarcerato per un anno per non aver voluto rispondere alle domande della Commissione (rispose solo quando gli chiesero se riconosceva la sigla “D.H.” in calce a un documento: “I can answer that”, disse Hammett, “Two letters of the alphabet” – “a questo so rispondere, sono due lettere dell’alfabeto”). Garfield morì per lo stress, come delresto accadde agli altri attori Edward Bromberg, Gordon Kahn, Canada Lee e Mady Christians, mentre Philip Loeb e Madelyne Drnytryk, moglie di Edward, si uccisero al pari di vari personaggi diciamo minori. A partire dal 1953 il compito di forgiare l’immagine degli Stati Uniti nel mondo venne affidato, come s’è visto, all’USIA. Questa Agenzia funzionò da consulente all’HUAC, le cui incursioni ad Hollywood divennero più competenti, e quindi più mirate, più chirurgiche e anche più rare. A partire da quella data, quindi, le convocazioni dell’HUAC per Hollywood riguardarono di tanto in tanto singoli personaggi, in genere eccellenti, o gruppetti di persone collegate in qualche modo logico. In questo contesto più “scientifico” incapparono ad esempio il commediografo Arthur Miller, condannato ad un anno di carcere per essersi rifiutato di rispondere, e l’attore Charles Chaplin, che riparò in Europa (già nel 1947 il Senatore Rankin aveva chiesto l’espulsione di “Charlot”, che era inglese, ed il bando di tutti i suoi film – Luci detta ribalta, Tempi moderni ecc. – dal territorio statunitense). Chaplin fu seguito in Europa da diversialtri, ad esempio i registi Orson Welles, John Huston, Joseph Losey e Jules Dassin e gli sceneggiatori Carl Foreman, Ben Barzman, Paul Jarrico e Michael Wilson. Preoccupato che troppi scontenti andassero all’estero, a raccontare poi delle verità scomode sulla realtà statunitense, nel 1956 il governo ritirò il passaporto agli indagati dall’HUAC. In ogni caso le persecuzioni dell’Era McCarthy non avevano aggiunto molto al lavoro fatto dall’HUAC nel 1947. Sin da allora Hollywood era stata ridotta al rango di fabbrica di propaganda di Stato, esattamente come la filmografia sovietica, e come quella di qualunque altro paese totalitario. La differenza era che Hollywood non veniva pagata dallo Stato per quello: doveva fare propaganda, mantenersi con la medesima, e contribuire con le esportazioni alla bilancia commerciale della nazione. La grandezza del sistema americano sta in queste cose. Per non appesantire il discorso non si sono citati gli interventi repressivi dell’HUAC, e governativi in generale, negli altri settori importanti per la propaganda di Stato, come l’istruzione, la carta stampata, la radio, la televisione, la musica leggera, il teatro, lo sport: ovviamente ci furono. (Segue) byebyeunclesam.files.wordpress
Posted on: Thu, 21 Nov 2013 18:39:11 +0000

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