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E questa è la verbalizzazione rivista del mio intervento nella seduta del 24 giugno, la prima dedicata al titolo V PROF. OLIVETTI Ritiene importante soffermarsi sulla funzione che le Regioni possono svolgere nell’ordinamento costituzionale italiano del nostro tempo. Sostiene che esse rispondono anzitutto a un’esigenza identitaria, soprattutto alla luce della questione settentrionale, ove le identità regionali sono importanti anche per evitare che si rafforzi una identità “padana”, che avrebbe base prevalentemente in rivendicazioni di carattere economico e fiscale e che potrebbe essere pericolosa per l’unità nazionale (mentre non lo sono le identità regionali lombarda, piemontese, veneta, ecc.). Evidenzia, in particolare, due aspetti: 1) che nei nostri sessant’anni di storia repubblicana le identità regionali si sono radicate, pur essendo all’origine storicamente deboli (salvo alcune eccezioni come la Toscana); 2) che del resto talvolta si sopravaluta il radicamento storico di altri enti substatali, come i Länder tedeschi: questi ultimi hanno una storia molto meno lineare di quanto di solito si afferma (eccetto la Baviera, fino al 1934 gran parte del territorio tedesco rientrava in un Land solo, che era la Prussia; tutto quello che esiste in quel territorio è nuovo e risale al dopoguerra o al periodo successivo al 1990): le identità sono legate alla storia, ma si tratta di una storia che non è congelata, e che invece si modifica, e negli ultimi sessant’anni credo si sia costruita una identità regionale. Proprio nell’ottica dell’unità del Paese – rispetto alla quale la creazione di una macro Regione del nord costituirebbe una grande minaccia – le identità regionali sono preziose. Da ciò deriva che il ruolo delle Regioni non può essere marginale, ma deve rimanere un ruolo politico (non solo amministrativo ma anche legislativo), naturalmente cercando di mettere un po’ d’ordine nel Titolo V. E’ d’accordo sullo spostamento delle quattro-cinque materie individuate negli interventi precedenti dalla competenza concorrente alla competenza esclusiva, già anticipata dalla Corte costituzionale. Ritiene, però, che su altre misure di centralizzazione si debba avere maggiore cautela. Ciò vale anche per alcuni meccanismi unitarizzanti inventati dalla giurisprudenza costituzionale, come la “chiamata in sussidiarietà”: se essa può essere spiegata per le grandi opere di trasporto, il ricorso ad essa per materie come il turismo e lo spettacolo appare molto meno giustificato. In materie di questo tipo, infatti, pur essendo presenti alcuni interessi di rilievo nazionale, la mancanza di una legislazione statale o di un’attività amministrativa statale non pregiudicherebbe l’unità materiale Paese e quel tanto di unità che può essere utile si potrebbe realizzare mediante una convergenza dal basso fra gli enti territoriali autonomi. Ritiene che alcune funzioni legislative regionali potrebbero essere elencate nell’attuale quarto comma dell’art. 117 (vale a dire all’interno della potestà residuale), chiarendo, per esempio, che la Regione ha competenza esclusiva (di questo termine non si dovrebbe aver paura) su alcune materie specificamente menzionale, oltre che su tutte le altre non espressamente elencate (si ricordi che ogni potestà “esclusiva”, statale o regionale, è pur sempre tenuta ad operare nei limiti del diritto dell’UE e della Costituzione). Tutto ciò nel contesto degli spostamenti materiali prima menzionati (dalla potestà concorrente alla potestà esclusiva statale e magari precisando anche che lo Stato è abilitato ad intervenire nel governo dell’economia, che dalla lettera del riparto attuale sembrerebbe in buona parte rifluire nella potestà residuale regionale. Ritiene, poi, che la competenza concorrente “all’italiana” sia tuttora difendibile almeno nell’idea di fondo che sta alla base di essa, vale a dire nella distinzione, in alcune materie, fra una disciplina di base che deve essere comune per tutto il Paese e una disciplina di sviluppo o dettaglio, che può essere differenziata da Regione a Regione. Resta, certo, la difficoltà tecnica di individuare ciò che è principio e ciò che è dettaglio. A questo proposito, riprende uno spunto del prof. Luciani e afferma l’utilità di tenere conto della giurisprudenza costituzionale sul titolo V, ma anche di inserire indicazioni che stimolino ad una correzione di tale giurisprudenza in un senso più rispettoso dell’autonomia legislativa regionale. Un esempio potrebbe essere la previsione della necessità per lo Stato di adottare espressamente le norme di principio, con la conseguenza che, in caso di mancata adozione delle stesse, le Regioni sarebbero libere di legiferare (beninteso nei limiti della Costituzione e del diritto europeo) e non sarebbero tenute a ricercare i principi fondamentali impliciti nella legislazione vigente sulla materia in questione (si tratterebbe della cosiddetta “competenza concorrente limitata ai principi” nota alla tradizione svizzera). Inoltre si potrebbe stabilire espressamente che la legge statale sia vincolata a indicare sempre il titolo di competenza su cui essa si basa. Con riferimento all’intervento di Panebianco sulla responsabilizzazione fiscale, ritiene che esso sia un principio su cui ragionare, ma esprime due osservazioni: 1) ritiene che tale meccanismo debba essere applicato solo alle spese relative agli organi e agli apparati, non alle altre funzioni, 2) ritiene che tale meccanismo debba essere un po’ annacquato per tenere in considerazione di alcune differenze esistenti fra le varie aree del Paese (ad es. nella dimensione degli enti regionali). Evidenzia infine alcune questioni “interstiziali”: 1) con riferimento al problema del riaccorpamento delle Regioni, ritiene che il procedimento di revisione costituzionale che si sta avviando non sia la sede adeguata, poiché ai sensi dell’art. 132 Cost. è necessaria una legge costituzionale rinforzata. Osserva che non si può semplicemente cambiare l’art. 132 con una legge costituzionale, togliendo alcune Regioni dall’elenco ivi contenuto. Ritiene, però, che si potrebbero introdurre alcune innovazioni nell’art. 132 Cost., ad es. che il criterio previsto nell’art. 132, ovvero la soglia di 1 milione di abitanti per istituire una nuova Regione, dovrebbe essere esteso alle Regioni esistenti. Qualora ciò non sia politicamente fattibile, suggerisce di estendere il sistema della “Provincia regionale”, utilizzato per la Valle d’Aosta a tutte le Regioni con meno di un milione di abitanti (tale proposta si differenzia da quanto aveva previsto il Governo Monti con riferimento al Molise, all’Umbria e alla Basilicata: lo “schema Monti” rispetto a questi territori prevedeva una sola Provincia, ma la permanenza di due enti: la Regione e la Provincia, identiche per territorio e capoluogo. Lo schema della “Provincia regionale”, invece, prevede un solo ente territoriale). 2) Il secondo problema riguarda l’organizzazione regionale, che all’inizio fu costruita imitando gli enti locali, mentre in seguito è stata strutturata nella prospettiva di un mimetismo rispetto allo Stato. Ritiene che si potrebbe mantenere il quadro attuale, ma che si potrebbero immaginare alcuni ritocchi. Ad es., si dovrebbe riservare allo Stato la determinazione del numero massimo dei consiglieri regionali (come era previsto nel testo costituzionale in vigore fino al 1999), e che si potrebbe stabilire una regola di massima sulle indennità dei consiglieri regionali: ad esempio, si potrebbe stabilire che i consiglieri non possono avere nessun altro reddito oltre all’indennità e che questa non può superare il 70% dell’indennità parlamentare. 3) Il terzo punto riguarda il controllo sulle leggi statali e regionali davanti alla giustizia costituzionale. Con riferimento a tale aspetto ritiene che potrebbe essere utile stabilire un obbligo di conciliazione preventivo presso la Conferenza Stato-Regioni o presso la Seconda Camera. 4) l’ultimo punto riguarda l’importanza di delineare delle norme transitorie per l’attuazione della riforma e ricorda che uno dei deficit della riforma del Titolo V stava proprio nell’assenza di norme di questo tipo. Infine, evidenzia l’importanza di concentrarsi su profili operativi concreti attinenti al funzionamento del regionalismo italiano (ad es. analizzando i problemi che si pongono per ciascuna delle materie che sono oggi elencate in Costituzione e per quelle che residuano alle Regioni) e di non limitarsi all’impostazione generale del riparto di competenze, che rischia di rivelarsi troppo schematico.
Posted on: Fri, 12 Jul 2013 10:18:24 +0000

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