Gli ultimi incantesimi Capitolo uno seconda parte Il respiro di - TopicsExpress



          

Gli ultimi incantesimi Capitolo uno seconda parte Il respiro di Inskay si fermò, come se avesse preso un calcio nel ventre: la sensazione era la stessa, anzi era peggio. Il Giullare aveva parlato, lo aveva tradito. Doveva avere venduto quelle poche confidenze che si era guadagnato con la sua falsa amicizia, per salvare alla sua sudicia e inutile pelle ancora un pezzo della sua inutile e sudicia esistenza. Inskay si chiese se gli inferi esistessero e si augurò che il girone dei traditori fosse il più duro. Fece un rapido ripasso di quello che si era lasciato sfuggire: si rese conto che era enorme. «Non ti fare illusioni» sibilò il boia. Ebbe una smorfia di disprezzo. «Il re di Varil non somiglia a un orso: somiglia a un Orco. È un Orco. Io me ne intendo, sai omuncolino? Un mezzo Orco, per la precisione, uno dei figli delle bande che compivano razzie lungo i confini. Sai: villaggi bruciati, uomini massacrati, bambini infilzati sulle picche poi, nove mesi dopo, qualcuna delle donne sopravvissute, quelle troppo cagne per suicidarsi per il disonore, mette al mondo un mezzo Orco, che viene anche lui ad allietare la già lieta comitiva». «Non è vero» annaspò Inskay con quello che restava della sua voce. «Non è vero». «Verissimo» confermò il boia. «Il re di Varil è un mezzo Orco, e come ogni Orco vive di ferocia e rapina. Ha usurpato il comando di Varil al figlio legittimo del principe Ector, ha rapito la figlia del Giudice Amministratore, che sarà anche l’ultima delle carogne, per citare il tuo vivace linguaggio, ma qualunque cosa tu pensi di lui, rapirgli la figlia non è bello». Il boia rise ancora. «Ma certo! Il re di Varil, mezzo Orco e rapitore di fanciulle. Salverà tutti, anche Lylin?» Inskay sentì lo stesso gelo di quando gli armigeri, per ridere un po’, avevano fatto un buco nel ghiaccio che ricopriva l’acqua del fossato e ce lo avevano buttato dentro. Anche allora il fiato non riusciva a passare: lo sentiva stridere nel torace pieno di acqua gelata. Il carnefice rideva di un riso sommesso che non riusciva a interrompersi: il riso di chi ha fatto uno scherzo che trova divertente. «Come sai di mia figlia?» chiese Inskay. Il riso dell’Orco divenne più forte. «Ah, è tua figlia, quindi!» mormorò dolcemente. «Hai pronunciato il suo nome più di una volta nel delirio, e adesso ho scoperto che è tua figlia. Per quello che ne sapevo io poteva essere la tua prima fidanzatina o la tua vecchia nonna morta da tanto tempo. Non siete troppo astuti, voi nanetti. Hai anche detto di dov’era tuo padre. È una notizia piccola, ma nelle mani sbagliate e con gli interrogatori giusti può diventare il primo di una serie di sassolini sotto la luna, che illumineranno il cammino fino a Lylin e poi alla tua tribù. La tribù che fantastica di asce e ribellioni. A un imbocco c’è un lago di acque cristalline su cui si specchia una ninfa di pietra e all’altro c’è una roccia che crea un arco. Questo imbocco è nel punto su cui il sole all’alba proietta l’ombra dell’arco nei giorni dell’equinozio. Una specie di caccia al tesoro. È divertente. Bene, sapremo quale delle tribù di Nani bisogna tenere buona. Bel nome, Lylin. Il diminutivo di cosa, se non sono indiscreto? Le vostre femmine hanno sempre nomi di sassi, piante, fiori, stelle, roba del genere. Liliana?» Doveva essere una scena terribilmente spassosa, perché tutti si stavano sganasciando, anche i due carnefici più piccoli, gli armigeri, la gente del mercato. La miseria e la paura riempivano di fan- go anche le menti, non solo le strade. Inskay aveva tradito la sua stessa figlia. Aveva resistito, interrogatorio dopo interrogatorio, stringendo come poteva i denti che gli erano rimasti e Lylin era ugualmente perduta. La gente rideva. Inskay pensò che il dolore dei piccoli è sempre considerato ridicolo. Era come se, rispetto a uno alto, per lui la tortura facesse meno male e l’idea della morte della figlia fosse meno grave. Anche ora, la sua tragedia era buffa. I Nani non erano forse persone? Non era dolore il loro dolore? Non era sangue il loro sangue? Non era vera morte la loro? Inskay si chiese se esisteva un Dio da qualche parte e, nel caso, lo maledisse. Gli armigeri lo presero di peso e cominciarono a trascinarlo verso il patibolo, gradino dopo gradino. Quando arrivò sulla piattaforma, in alto, l’Orco gli mise una mano sulla spalla, senza acrimonia, proprio come una pacca tra amici. «Molto poco cortese nanetto, sai? A noi non ci hai mai detto niente. Eri innocente come un micio neonato. E poi a quello gli racconti tutto, al Giullare. Quello lì non ha mai fatto un giorno di lavoro vero, non si è mai spaccato la schiena a issarti sulla carrucola, non si è mai scottato a mettere le tenaglie su un braciere. Ci hai fatto fare una figura da peracottai a tutti! Ma noi siamo buoni. Non te ne vogliamo. E poi lo so che il Giullare è in gamba. Una volta me l’ha spiegato come si fa. ‘Prima crei un debito di gratitudine, poi li esasperi con la stupidità fino a spingerli a insultarti, e alla fine ti presenti come martire dell’ingiustizia. Il senso di colpa per gli insulti fa il resto’». Il carnefice imitava la vocina fessa del Giullare e anche lo sconcio ancheggiare. «Anche il tuo fratellino, sai, tale e quale a te. Scortesi di famiglia. A noi non ci dite niente e poi vi sbracate con il Giullare. E il Giudice... sapessi quanto si secca a stare senza il suo Giullare! Sapessi quanto ce lo viene a sputare addosso che siamo degli inetti. Inefficaci dice lui, sai, è uno che parla bene. Se non lo diceva il tuo fratellino di venirti a cercare sulla strada per Varil, mica ti trovavamo mai. Lo ha detto al Giullare, per consolarlo della condanna a morte: ‘Mio fratello sta andando a chiamare il re di Varil, lui ti salva’. Che tenerezza. Avessi sentito quando glielo abbiamo detto. Non ho mai sentito nessuno bestemmiare tanto in punto di morte, ed era pure senza denti». Il carnefice sospirò teatralmente. «E io che tanto vi ho storpiato, per cosa poi avrò lavorato?» aggiunse. Di nuovo tutti risero. Il vocione dell’Orco riempiva la piazza. Si stavano divertendo proprio tutti, non solo gli armigeri, non solo i carnefici, ma tutti, la vecchietta con le mani tremanti, il giovane alto che vendeva il formaggio, i due ragazzetti accucciati nella neve che avevano inventato il gioco con le noci. L’annientamento del condannato, prima spirituale poi fisico, doveva essere, in quella livida giornata d’inverno, l’unico spasso per quella piccola comunità miserabile, feroce e cialtrona. Nella furia di quegli ultimi istanti Inskay cominciò a divincolarsi come un ossesso. Combatteva per il nulla, giacché tutto ormai era perduto. L’unica desolata battaglia che gli restava era complicare più che poteva la vita ai suoi aguzzini: che perlomeno a impiccarlo ci si scassassero la schiena. I due aiutanti dovettero usare tutta la loro forza per cercare di mettergli la mordacchia. Inskay sentì uno dei suoi ultimi denti rompersi contro il pezzo di legno che gli spingevano dentro la bocca. Un dolore acuto gli infiammò il ginocchio destro, colpito da un calcio dato con il puntale in ferro di un calzare. Ma l’ira si stava trasformando in forza. Inskay non sentiva neanche più il dolore: le piaghe, le botte, la grandine di calci e pugni che gli stava piovendo addosso, l’ultimo incisivo che si era spezzato. Tutto si perdeva nell’odio. «La piantate di fare i buffoni?» urlò l’Orco con voce aspra di collera. «Mettete a posto quel pidocchio subito o vengo a spaccarvi le ossa a tutti e due. Siete due cialtroni. Vi fate mettere sotto da quella specie di sorcio...» Il coraggio di Inskay aumentò: perlomeno l’esecrabile porco aveva smesso di divertirsi. I due aiutanti cercavano di immobilizzarlo, tra inutili ingiurie e ancora più inutili minacce. «... non sperarci, cane...» «... adesso te la facciamo pagare...» Come se lui sperasse ancora in qualche cosa. Come se ci fosse qualcosa che ancora non gli avevano fatto. Alla fine sarebbero riusciti a bloccarlo, se a un certo punto non fosse tornata la cicciona, la figlia grassa del carnefice capo. «Padre, perdonate, il mio paiolo!» Si scusò sempre con la sua aria timida, ma con voce talmente chiara che persino in mezzo alla colluttazione Inskay riuscì a sentirla. La odiò, ancora più di quanto odiava tutti gli altri. Non capiva che c’erano cose più importanti, adesso, del suo paiolo? «Levati dai piedi, idiota» riuscì a urlarle il padre tra un’ingiuria e l’altra ai suoi dubbi aiutanti. La ragazzona aveva il dono della testardaggine. «Scusate, Padre, devo riprendere il paiolo. Eccolo qui, il mio bel paiolo di rame, ora me ne posso andare». Sia pure nella furia della sua ultima lotta Inskay riuscì a chiedersi quanto fosse scema. Scema e maldestra, perché Masciak inciampò nella neve e piombò addosso a tutto il gruppo di Inskay e i due carnefici aggrovigliati insieme. Il paiolo colpì in pieno la testa di uno dei due, che restò immobile. Sull’altro rotolò lei, Masciak, atterrandolo e poi bloccandolo con tutto il peso della sua smisurata carne. Inskay si trovò improvvisamente libero. I suoi occhi e quelli della fanciulla grassa si incrociarono. Inskay per un istante ebbe l’impressione che quella rovinosa caduta non fosse stata un incidente, ma gli sembrò un’assurdità e smise di pensarlo. Cercò di rialzarsi, ma anche se ci fosse riuscito non sarebbe andato lontano. Aveva ancora i polsi legati dietro la schiena. «Sudicia idiota, bestione inutile!» urlò il carnefice capo alla figlia. «E voi due, cialtroni irrecuperabili...» riprese rivolto ai suoi aiutanti. Bisognava riconoscere che aveva un linguaggio notevole per un Orco. Inskay pensò che probabilmente il Giullare aveva da- to lezioni anche a lui. Anche Masciak cercava di rialzarsi: mise disgraziatamente un piede sul nefasto paiolo e di nuovo cadde con un lungo gemito, in mezzo alle risa degli astanti, carnefici esclusi. Questa volta fu Inskay a essere investito da tutta la sua carne, che lo travolse e lo trascinò contro la balaustra di ferro che chiudeva il patibolo. La ragazza si aggrappò ai suoi polsi e li sbatté contro il ferro della ringhiera. Inskay sentì un dolore acuto fino al gomito per il contraccolpo, ma la gognetta di legno si spaccò in due pezzi che gli restarono ognuno per conto suo attorno ai polsi come brac- ciali. Inskay era libero. Di nuovo lui e la ragazza per un istante si fissarono. Masciak gli indicò con un gesto rapidissimo della testa il muro con la botola: era aperta. Inskay si chiese che volesse dire. Quale avrebbe dovuto essere il vantaggio, per lui, per gli Dei e per la stramaledetta città, se avesse scambiato l’impiccagione con un volo di centinaia di piedi? Scappare da quella piazza piena di armigeri, in quella città circondata da mura ciclopiche sarebbe stato semplice e gaudioso a patto di essere forniti di ali come una tortora, un falco, o anche solo un pipistrello. Lui aveva solo due gambe corte, storte e parecchio prese a calci, con le quali non sarebbe neanche arrivato ai piedi della scala. Fu un dubbio che durò poco. Masciak cercando di girarsi per reggersi alla balaustra e tirarsi su, lo urtò con un piede, spingendolo verso la botola aperta. Inskay guardò con orrore il nulla che c’era oltre il muro, i fiocchi di neve che vorticavano lievi come angeli, il baratro in fondo al quale lui si sarebbe schiantato come una cimice spiaccicata. Nel cercare di alzarsi in piedi Masciak di nuovo lo scalciò: un movimento lieve, appena sufficiente perché il piccolo corpo di Inskay, con un lungo urlo, scivolasse gentilmente sulla neve appena caduta, superasse attraverso la botola aperta l’invin- cibile cerchia di mura e fluttuasse per una frazione di secondo insieme ai fiocchi di neve, prima di precipitare inesorabilmente verso il basso. Inskay smise di urlare. La sua caduta era durata pochi attimi ed era finita con un tonfo lieve su qualcosa di innevato. Non era morto, e nemmeno ferito. Al suo arrivo decine di corvi si alzarono in volo. Il mondo attorno a Inskay divenne un’alternanza di bianco e di nero. «È finito sull’albero!» urlò sopra di lui la voce dell’Orco. «Hai visto maledetta cos’hai combinato?» Un enorme pino usciva quasi in orizzontale dalla parete della montagna che sosteneva la città, qualche decina di piedi sotto la botola. Esisteva anche quando Inskay era bambino, anche se allo- ra era decisamente più piccolo, e non intralciava come adesso il volo di tutte le spazzature, dai cavoli marci ai condannati. Il pensiero dell’inevitabile punizione per i carnefici, che si erano fatti scappare un condannato in una piazza imbottita di armigeri, passò per la testa di Inskay e gli piacque. Sicuramente gli sarebbe toccato qualcosa di grosso, qualcosa che faceva male. Un barlume di maligna soddisfazione distrasse per un istante Inskay dall’intricata, vasta e complessa selva dei suoi guai, ma poi gli venne in mente che anche Masciak sarebbe stata punita e quella poca allegria svanì. «Gli armigeri! Chiamate gli arcieri!» sentì urlare da sopra. Sotto di lui si apriva uno strapiombo di un centinaio di piedi. Il Rondò della Forca di Alyil si trovava nella parte orientale della città e l’apertura dalla quale era caduto Inskay si affacciava su un dirupo quasi perfettamente verticale e del tutto inaccessibile per chi volesse salire ad Alyil da quel lato. Alla città si arrivava da sud, attraverso una stradina che si arrampicava a chiocciola, così stretta in certi punti che un eventuale esercito invasore avrebbe dovuto avanzare in fila indiana, un soldatino alla volta. Prima di arrivare alla ciclopica porta di Alyil, però, la strada si apriva sulla destra in una specie di terrazza naturale, che si sarebbe potuta anche chiamare belvedere, se ci fosse stato qualcosa di bello da vedere. Invece, c’era solo uno strapiombo di rocce nere e minacciose e, più in là, il precipizio verticale sopra al quale stava sospeso Inskay. Molto più in là, troppo più in là perché il Nano potesse sperare di raggiungere la terrazza e fuggire per la stradina. E da un momento all’altro sarebbero arrivate le prime frecce. Inskay corse sui rami innevati del pino, veloce come poteva solo chi aveva passato una vita sulle viscide passerelle delle miniere. Il dolore al ginocchio destro gli strappò un gemito, ma non diminuì la precisione dei suoi passi. Una nuvola di corvi continuava a volteggiargli attorno, chiaramente perplessi davanti al suo inverosimile e ostinato desiderio di restare vivo. Non ci sarebbero stati occhi da beccare per quel giorno, d’altra parte la famiglia di Inskay per sfamare i corvi di Alyil aveva già dato. Ora che ci pensava, an- che lui aveva fame. Per un piatto di cotiche con i fagioli avrebbe dato l’anima, sempre che ancora gliene fosse rimasta abbastanza. Riuscì a raccogliere tra i rami del pino qualche pigna e un intero torso di cavolo, che si era incastrato nella profondità dell’albero, e ci si riempì le tasche della giubba. Tra le grandi fronde c’era anche quello che restava di un condannato. Anche i carnefici dovevano avere i loro guai a dare sempre la spinta necessaria perché la gente superasse il pino. Il morto era un uomo alto, e quel poco che non era già stato spolpato dai corvi era irrigidito dal gelo più di un pezzo di legno, ma aveva ancora ai piedi calzari di pelo ed era avvolto da una mantella di lana buona. Un condannato ricco, di famiglia talmente facoltosa che doveva aver pagato i carnefici per non spogliarlo. «Perdona, fratello, a te non serve più niente» sussurrò Inskay sfilando i calzari dell’uomo. Erano larghi e gelati, ma anche così erano preziosi. Levare la mantella dal cadavere irrigidito fu diffici- le e alla fine il morto perse il suo precario equilibrio e cadde nello strapiombo. «È lui, è lui!» urlarono dall’alto, entusiasti. «No no, è uno alto, quello è un sorcio!» arrivò subito la delusione. «Non so chi accidenti sei, ma pregherò per te» promise Inskay al morto. Dall’alto voci irate chiesero dove si fosse cacciato lui, sorcio, scarafaggio, sudicio verme. Inskay aveva raggiunto la base dell’albero. Si fermò, per cercare di prendere un po’ di fiato e raccattare qualche idea. La certezza che Masciak avesse fatto apposta a colpirlo, insieme alla constatazione di essere ancora vivo, era una scintilla di conforto. Per il resto, la catastrofe continuava a incombere. La sua gente e la sua stessa figlia erano, per causa sua, in un pericolo mortale e lui, l’unico che poteva avvertirli e, chissà, forse salvarli, era sul tronco di un albero che usciva orizzontale da una parete rocciosa, sospeso nel nulla tra i carnefici e uno strapiombo cui era stato dato il poco amichevole nome di Salto del Diavolo. Dalla base del tronco partivano enormi radici, che non potendo addentrarsi nella roccia restavano in superficie intersecate con quelle di arbusti più piccoli a formare una rete fittissima. Tutta la parete nella sua verticalità ne era ricoperta, da lì fino alla base dello strapiombo. Inskay ricordò che suo nonno gli aveva raccontato come anticamente dall’alto della città, una volta ogni due o tre anni, si buttava pece sulla parete verticale e poi le si dava fuoco con frecce incendiarie, perché nessun arbusto o radice potesse renderla scalabile. Ora la trasandatezza aveva prevalso e una fantasmagorica rete di legno vivo si intrecciava sopra la parete rocciosa. Non avrebbe sostenuto un Uomo, meno che mai con un’armatura. Ma un Nano tutto ossa, croste e bruciature, anche calcolando la mezza libbra di zecche e pidocchi che si portava addosso, pesava quanto un bambino. Inskay cominciò a scendere, radice dopo radice, arbusto dopo arbusto: i suoi occhi di Nano trovavano il punto dove posare il pie- de senza fatica e senza rischiare che il dolore al ginocchio destro gli levasse sicurezza. Cercò di calcolare quanto tempo ci sarebbe voluto perché mandassero qualcuno a cercarlo. Senz’altro meno di quanto sarebbe servito a lui per scappare: la discesa, verticale e coperta di ghiaccio, era tutt’altro che agevole, e sarebbe bastato un piede in fallo per fare il lavoro che avrebbero dovuto compiere i carnefici. In più, Inskay era circondato da una nuvola di corvi, che non avevano ancora del tutto rinunciato all’idea di riempirsi la pancia a sue spese: le loro grida, le loro evoluzioni, le piume nere che si sollevavano dalla nuvola e cadevano sulla neve candida lo distraevano e lo confondevano. Nel frattempo, là in alto non erano stati con le mani in mano, e una pioggia di sassi, frecce infuocate e anche un po’ di pece bollente si riversò giù per il precipizio; ma l’angolazione e l’impossibilità di vederlo, per chi stava lassù, proteggevano Inskay, e il mondo era troppo fradicio per prendere fuoco. Inskay raggiunse il fondo dello strapiombo e alzò gli occhi verso la città: aveva smesso di nevicare e c’era persino una piccola schiarita, un lembo di cielo azzurro scolorito tra il bianco delle nubi. All’improvviso, sulla terrazza sotto la porta comparvero una mezza dozzina di cavalieri. Lui li fissò terrorizzato e cominciò a scappare, ma quando si girò per vedere a che punto erano gli inseguitori un’immagine di meravigliosa consolazione si presentò ai suoi occhi: arrivati sull’orlo del burrone gli armigeri si erano fermati. Sotto di loro il Salto del Diavolo bloccava qualsiasi possibilità d’inseguimento. Qualcuno era sceso da cavallo e guardava in basso, qualcun altro tentò la discesa e per poco non ci lasciò la pelle e abbandonò l’impresa. Inskay se ne andò, inseguito da abbondanti maledizioni e da qualche freccia mal tirata da arcieri intirizziti e non troppo capaci. Uno dei corvi che ostinatamente continuavano a volteggiargli attorno fu colpito e si accasciò nero sulla neve candida, macchiandola con il suo sangue. Inskay lo raccolse. Le imprecazioni degli uomini erano notevoli, ma non facevano male. In breve fu fuori della portata dei loro archi. Alzò gli occhi in alto: la botola era chiusa. Non era più minacciato da nessuno. Ma se il precipizio aveva protetto Inskay, ora bloccava la strada anche a lui: non poteva andare a ovest, dove c’era sua figlia, né a sud, verso Varil, dove risiedeva un re che forse era un bastardo mezzosangue, ma era tutto quello che il mondo libero aveva. Poteva restare dov’era e morire, poteva andare verso gli armigeri ed essere ucciso o poteva scappare nell’unica direzione percorribile: a est, verso la Terra degli Orchi. Un vento gelido si alzò, aprendo le nuvole e facendo brillare le stelle. Una falce di luna apparve all’orizzonte e rischiarò il cammino. I corvi finalmente si alzarono in volo e se ne tornarono al loro pino, delusi. Inskay si allontanò più che poté e quando le gambe smisero definitivamente di reggerlo si rifugiò in un’apertura tra le rocce, una via di mezzo tra una grotta e una tana. Non c’era una singola parte del suo miserabile corpo che non gli facesse male. Il dolore per la stanchezza e quello per le botte si sommavano. I suoi piedi non erano passati dal gelo della neve a quello della morte: non più a contatto con la neve, tornarono vivi e gli fecero malsofferenza ininterrotta. Nessun burrone si frapponeva tra sua figlia e gli armigeri; nessuno strapiombo avrebbe protetto la sua tribù. Alla luce incerta della luna, riflessa e amplificata dalla neve, gli occhi di Nano di Inskay riconobbero il tenue scintillio dei sassi ignei, quelli con cui è possibile fare il fuoco. Se l’aria apparteneva agli Elfi, l’acqua agli Uomini, che osavano solcarla con le loro navi, se il fuoco era degli Orchi, che con la luce degli incendi rischiara- vano le notti che tanto amavano, la terra, la materia, era dei Nani. Loro erano fatti di sassi, metalli e profumo di erba tagliata. Erano bassi perché gli occhi fossero vicini al suolo, vicini a quei sassi che loro sapevano leggere, riconoscendo quale conteneva il ferro, qua- le il rame e quale l’oro. Erano bassi perché così erano più piccole le gallerie necessarie a contenere i loro corpi, che però non avevano meno forza di quelli degli Uomini o degli Orchi, ben più grandi di loro. Loro erano i Nani, i resistenti, il Popolo della Terra. Non vol- teggiavano nelle eteree elucubrazioni degli Elfi: non erano le paro- le che li affascinavano, non erano i sogni che li riempivano. Loro amavano i tronchi degli alberi, il vento sulle colline, che portava l’odore aspro e dolcissimo dell’erba medica e del fieno tagliato. Amavano il color smeraldo delle vigne che si alternava al giallo delle stoppie, la luna che sorgeva sopra i campi di mais. Amavano il verde velato di azzurro dei cavoli, quello velato di giallo dei canneti. Soprattutto amavano le cose cui gli stolti davano gli insulsi nomi di pietre e sassi. I malconsigliati con due unici nomi indicavano il liscio e il ruvido, il colorato e il macchiato, l’opaco e il lucente, il duttile e il malleabile, il fondibile e l’infondibile, il fragile e l’invincibile. Loro, i Nani, sapevano che i componenti del mondo erano le sillabe del linguaggio divino. Loro non volevano essere i Signori della Materia, ma i suoi devoti servi e custodi, perché sapevano che dentro le sue viscere scavate, dentro la sua anima abusata si cela- vano le sole virtù che conducevano a un possibile futuro. Loro, i Nani, sapevano che il legno, l’erba, la terra, i sassi, l’acqua che distrugge i tetti e muove i mulini, e gli scuri figli del ferro, i fulgidi figli del rame, le piriti, le malachiti, le ossidiane, i cristalli, i marmi, i graniti sono il sogno di un Dio, infinitamente più alto, infinitamente più grande di un qualsiasi sogno che la mente di una creatura creata possa sognare. Inskay mise per terra le pigne che aveva raccolto sull’albero che gli aveva salvato la vita, ci aggiunse qualche frammento della paglia del pagliericcio che gli era rimasta attaccata alle vesti e ai capelli, poi cominciò a strofinare i sassi. Dovette strofinare parecchio, perché quelle che aveva trovato non erano vere pietre focaie, ma non si fermò mai e alla fine una scintilla minuscola si formò, volteggiò e si posò sulla paglia, che lentamente, sotto il soffio dolce di Inskay, si incendiò di una bella fiamma color oro. Inskay ruppe contro le rocce i pezzi della gognetta che gli facevano da bracciali e li aggiunse al fuoco. Pensò a quanto gli sarebbe piaciuto avere un infuso di camomilla e papavero per il dolore e un po’ di polvere delle api, una minuta poltiglia dorata che si raccoglieva sul fondo delle arnie, da strofinare sul ginocchio. Inskay trasse dalla tasca il torsolo di cavolo gelato e lo mise sul fuocherello, che illuminò il buio della notte e quello del suo spirito con il pensiero che a volte i miracoli succedo- no. Spennò il corvo e lo cucinò usando la freccia come spiedo. Quando finalmente fu pronto ci affondò dentro i pochi denti sopravvissuti agli interrogatori e lo spolpò, con diligenza e lentezza, fino all’ultima briciola. Il torsolo avrebbe voluto tenerselo per il giorno dopo, ma non ci riuscì e lo finì, morso dopo morso. Inskay guardò la piana che aveva percorso: brillava sotto la luna. Nella furia di scappare non ci aveva pensato, ma laggiù, ad Alyil, sotto la neve macchiata di tanto in tanto da qualche piuma nera, c’erano i cadaveri del suo stesso fratello e di innumerevoli altri disgraziati. Li pensò, quei poveri morti, spolpati dai corvi, gelati dalla neve, con i segni della corda e delle tenaglie. Con un nodo alla gola li salutò, sperando che ci fosse un mondo dove ora potessero stare in pace, lieti, caldi, comodi, con la pancia piena e nell’aria il profumo dell’erba tagliata. Pensò anche al Giullare e al girone dei traditori che si augurava lo attendesse. Ma nessuna sofferenza gli sembrò più terribile della propria: sapeva di aver condannato a morte la sua amata figlia e la sua gente e non era in grado di fare nulla per salvare nessuno. Nulla. Inskay cercò nella sua mente un barlume di speranza, di consolazione, qualcosa cui aggrapparsi. Nulla. Non c’era nulla. Tutto quello che gli venne in mente furono le storie che da sempre le madri del suo popolo raccontavano ai bambini spaventati dai mostri che da sempre vivevano nel buio delle case dove c’erano bambini. Nel momento supremo del pericolo assoluto, il Re degli Elfi sarebbe venuto in soccorso al Re dei Nani. Anzi, nelle loro storie era anche specificato: un re nano che avrebbe curato con le mani, un re taumaturgo. Né messaggeri né messaggi sarebbero stati necessari. Era un patto antico il cui costo era già stato pagato. Bischerate. Erano tutte bischerate. Gli Elfi erano già schiattati tutti e i Nani i re neanche ce li aveva- no. E poi erano gli Elfi i taumaturghi, quelli che curavano con le mani. Anche la taumaturgia non era mai stata il loro forte. Loro curavano con le erbe, i decotti, la materia. Per le scemenze come guarire con l’imposizione delle mani, dalle loro parti, non si esibivano neanche i saltimbanchi. La faccia martoriata di Inskay si stirò per un attimo in un sorriso amaro. Che gli Elfi potessero salvare i Nani e che avrebbero avuto voglia di farlo era una bischerata credibile solo per un marmocchio spaventato dalle ombre sul muro. Gli Elfi erano crepati tutti, ancora prima dei Nani, che qualche anno ancora, forse, sarebbero durati. Non era una consolazione, che fosse chiaro. Neanche dopo due mesi nelle mani dei carnefici del Giudice Amministratore Inskay era diventato carogna al punto di godere che qualcun altro stesse peggio di lui. Era solo una constatazione. Erano tutti morti, e comunque, anche se non fossero stati già defunti, gli Elfi non avevano mai soccorso nessuno. Erano sempre stati un disastro a combattere, per non parlare della faccenda dell’immortalità. Un immortale non avrebbe rischiato le penne per un poveraccio qualsiasi, non solo perché la perdita sarebbe stata inestimabile, ma perché l’altro era inevitabile che gli facesse un po’ schifo. La regola era che si rischiava e ci si aiutava solo tra pari. I poveracci con i poveracci. I minatori con i minatori. Agli altri non si chiedeva nemmeno. Negli ultimi decenni i bambini dei Nani si erano spaventati non solo per i mostri del buio, ma per gli Uomini, gli Orchi, gli armigeri, gli arcieri, i carnefici che li agguantavano se non scendevano nelle miniere o se cercavano di uscirne. I mostri del buio si erano moltiplicati e avevano invaso le penombre e poi la stessa luce. Nessuna storia poteva più consolare nulla. «Bischerate» sussurrò ancora Inskay. La sua voce risuonò nel silenzio della notte innevata. Inskay si tirò su la stoffa lisa dei pantaloni e si guardò i ginocchi confrontandoli: quello destro era orridamente gonfio con una dolorosa e ancora più sinistra marca violacea nel punto in cui era sta- to colpito. Inskay non era del tutto certo che sarebbe riuscito a camminare, l’indomani. Prima che la sua testa crollasse per la stanchezza, Inskay ebbe un ultimo pensiero. Non fu per Lylin, ma per Masciak la Grassa, la figlia del boia. Sperò con tutto il cuore che la punizione per lei non fosse troppo atroce. Si chiese come avesse fatto a vivere in un mondo crudele salvando misericordia e coraggio. Pregò anche perché lo Spirito del Mondo le stesse vicino, che l’aiutasse a sopportare quello che il suo orrendo padre le avrebbe fatto sopportare. «Eccheccacchio» mormorò piano giusto prima di addormentarsi, più che altro per sentire ancora il suono della propria voce, che in quella sera avrebbe dovuto essere già stata definitivamente azzittita e invece mormorava ancora e, come se centinaia di spine li stessero trafiggendo.
Posted on: Sat, 28 Sep 2013 17:24:42 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015