L A M P I La luce bianca attraverso un ombrellino per - TopicsExpress



          

L A M P I La luce bianca attraverso un ombrellino per carrozzina, i fiorellini dai colori pacati fitti fitti ma ordinati su quel parasole. Le macerie del Palazzo di Giustizia, macerie di marmo bianco. Il tetto del Teatro Massimo ed il pavè sconnesso del corso Alberto Amedeo. Qualcuno diceva che correva il 1950, il signor Ippolito mi teneva per mano ed io camminavo coi piedini vicini agli occhi. Una piccola “pomelia” grondava bianco latte ogni volta che la incidevo con le unghia. Quel balcone sempre alla luce, quel balcone sempre vicino al cielo e Giulietta al di la dell’inferriata dell’altro balcone. Quel grosso pane “mafalda” ed il “gianduiotto” nocciola e cioccolato che serbavo per ultimo. La febbre mi assaliva bruciante e fissavo la carta da parati dove le rose chiare su fondo scuro si mettevano a ballare e diventavano forme, volti uccelli, innumerevoli dimensioni. Il profumo della refezione per i bimbi che restavano a scuola ed io che dovevo andare via perché non ero povero: profumo di pasta e fagioli che non ho mai assaggiato. Il gatto Ciccio che metteva paura e il lucernario dove la pioggia e i lampi impaurivano la mamma. E la famiglia De Lisi giù al piano di sotto, una casa piena di meraviglie: bastoni strani con il manico di testa di cane, di gatto, di cavallo e do scudiscio “punizione” del signor Franco. Ernesto e Filippo che saltavano come scimmie. La radio accesa all’ora di cena: “Verde Luna” e “Boero e Tresoldi”, mi addormentavo sul piatto tra bucce di arance e mandarini. Le feste di Natale col “buccellato” e le noci e lo zio Alfonso che faceva incazzare papà. Quanti eravamo in quella piccola casa ! Per strada odore di sterco di cavalli, di muli e asini. Se ne vedevano tantissimi a trainare carretti, carrozzelle da nolo e “strascini”. Giù alla taverna, Don Peppino e Don Pasquale e i “mussi”, la “frittola” , la “quarume”. C’era “Chiddu dù pani bello” e, in agosto, la “vara” dell’Assunta. Profumo intenso di gelsomini intrecciati attorno a pezzi di canna. E poi odore d’incenso nella casa di zio Ernesto, al primo piano, con le zie zitelle vestite di nero. Un altarino, le candele, immagini di santi dappertutto e corone del Rosario. Padre Rivilli ed il “cieco che vedeva”. Ombre che mi destavano e la mamma: “prega e vedrai che t’addormenti”. Un groppo alla gola se toccavo le bianche gambe della zia. Il signor Petrollo pieno di peli che aveva male agli “zigomi delle ginocchia”. E la tortura abbacinante della sabbia e del mare, denso del profumo di alghe, a Romagnolo. Tornavo a casa, in braccio a papà, distrutto. Sentivo il buon odore del suo corpo sudato mentre il filobus menava le sue scosse ondulatorie e sussultorie. E le mosche e odore di DDT mentre quella bianca luce restava fuori appena si socchiudevano le persiane. Poi l’odore della morte: cominciò con la zia Sasà, poi lo zio Ernesto, la zia Fifetta, la zia Titì. Papà e mamma uccisero la morte: andammo via ad abitare in un altro quartiere! Via Terrasanta numero 39. Si sentiva, respirando, l’odore della calce e dell’umidità. Ma tutto era nuovo e poderoso nella sua novità. Il campo delle pecore di fronte a casa. La chiesa dei francescani, i nuovi vicini “polentoni” e le feste, le feste sempre più vicine e inusuali, le feste degli anni cinquanta ! I cugini alti e belli, le cugine con le grosse tette e che ti abbracciavano perché eri fanciullo e tu fanciullo sentivi uno strano languore e ci stavi, incantato. Le scuole medie inferiori con l’enorme pesantezza della scuola di quegli anni. Ogni lunedì era un “impreparato” e l’impotenza ad essere efficiente e produttivo mi azzannava i primi anni dell’adolescenza ! Augusto, il mio caro amico Augusto, con le tasche piene di palline, francobolli, pedine di dama, fischietti , biglie di vetro colorato, figurine di calciatori. Papà era sempre bello con la divisa da ufficiale e i suoi uomini attorno. Era bello essere protetti, era bello essere figli di mio papà. Era bello anche essere figli di mia mamma, così sicura, così dura, così perfetta. Essere figli era un bene, un bene da me tutto succhiato e goduto in modo assai intenso ed infinito come se sapessi che doveva finire ! Poi le cameriere che, anche coi peli lunghi sulle gambe, destavano in me quel groppo alla gola che attizzava il centro dell’inguine. Fra cugine dalle tette grosse e terrori scolastici, si avvicinava il momento della resa dei conti. “Eugenio studia ! Sei un fannullone ! Che disperazione !” Ma io avrei adorato giocare a pallone, giù al campetto della chiesa, non sapevo giocare e venivo scartato sempre. Così m’inventai il giornalino dell’oratorio : “Il Babbeo”, giornalino tutto mio, dalla testata agli articoli, ai disegni e persino alle fotografie incollate sul foglio. Fu un successo ed io venni accolto come uno del gruppo anche se non sapevo giocare a pallone. Non c’era tempo per dedicare la minima energia a quella stupida e odiosa attività che era lo studio ! C’era da sognare, da vedersela con il mistero di vivere, bisognava vincere qualche battaglia per sapersi regolare su tutto. Che c’entrava studiare ? E poi c’erano le ragazze, le donne, le femmine in genere ! Perché mi attraevano così tanto ? Persino più dei film Western. Ava Gardner fu il mio primo amore e poi Jean Russell, mi facevano impazzire. Poi scoprii, disorientato e un po avvilito, che il latte non usciva solo dalle mammelle delle mucche ma potevo produrlo anch’io ed in modo così piacevole. Tutto cominciava ad assumere forma e dimensione. Persino il mio corpo diventava sempre più allungato e sottile. Ero il più alto tra i miei coetanei ma anche il più magro. Ma correvo e saltavo leggerissimo e non mi stancavo mai. Ma c’era la scuola a torturarmi. Finiva l’anno scolastico e giù a fare finta di studiare perché ero sempre rimandato in latino e matematica. Tutte le estati dietro a materie con un inizio e una fine, con le costruzioni e i sistemi, le disuguaglianze regolarmente uguali. Io che provavo l’ebbrezza dell’infinito, dell’irrazionale, del fantastico fino all’estremo ! La gioia di piangere, la fatica di ridere, la meraviglia, la sofferenza di vivere. i miei Lo zio Nino mi portò per la prima volta allo stadio. Salire quegli scalini che portavano alla gradinata, lo stupore del campo verde e la Favorita piena zeppa di gente, come coriandoli variopinti attaccati l’uno all’altro. Poi le maglie rosa e nere ed il netto contrasto con quelle rosse vermiglio dalla Triestina, tutto sullo sfondo verde e la cornice della folla. Era un capolavoro e fu amore a prima vista. Denso profumo di erba e di caramelle. Vernazza e Gomez furono presto i miei eroi con la pancetta. Ma che numeri ragazzi ! Quando tirava Vernazza era un dardo di Giove, i portieri tremavano e Vernazza diventava la mia arma, la clava della mia espressione, la penna dei miei temi ed il pennello dei miei quadri. Vernazza ! Non so, da allora, per quanti anni non ho mai mancato di andare allo stadio a vedere il Palermo, pioggia o vento, caldo e scirocco. Anzi, non andavo a vedere la mia squadra, andavo a lottare con essa vivendo e soffrendo le partite di quei campionati ora di serie A ora di B, ma sempre grandi partite dove Vernazza, Gomez, Sandri, Marchetto, Benedetti, Arce erano i miei compagni di squadra e di vita. Entusiasmo, sofferenza, gioia, lacrime: tutto per il calcio e per una palla che entrava in rete. Grazie calcio ! Se io sono così come sono è anche colpa o merito del calcio. Si può vivere di un sogno e sognare vivendo anche per una partita di pallone. Continuò così per qualche anno, tra stupori, scoperte, angosce, desideri, impulsi, misteri ed impennate di qualunque tipo. Sino a quando cominciai ad avere qualche certezza, a riconoscere in me qualcosa di esclusivo, a possedere le prime consapevolezze di ciò che potevo o non potevo fare. Cominciavo a sapere come attutire un dispiacere, per esempio, o camuffare una mia debolezza, ad esaltare qualche pregio. Iniziavo a giocare a poker con la vita ed il poker è abilità, resistenza, fortuna e bluff. I miei lampi di ricordi voglio che finiscano a questo punto. Che finiscano all’inizio della mia vita, dal 1945 al 1961. Il resto è ricordo di cose si lontane ma molto più nette, nitide, più o meno razionali o colpevoli, fantasiose o noiose. Non voglio parlare dell’amore perché questo è un altro capitolo che appartiene alla mia gioventù e non a quei primi, confusi, indimenticabili anni. A quel groviglio di sensazioni, piaceri, dolori, profumi, avvilimenti che hanno caratterizzato l’infanzia e la prima adolescenza. Una cosa è certa: io sono così come sono perché quei primi sedici anni mi hanno così fatto. Il resto è solo una conseguente evoluzione. ---------------------------------------------------
Posted on: Sun, 04 Aug 2013 10:20:28 +0000

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