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L PARTITO CONFEDERALE, UN OSSIMORO. (Considerazioni a margine del comunicato 106 di Fausto Anderlini) di Antonio Napoletano (ha collaborato Lucia Delgrosso) “La differenza, infine, è tra pensare a un partito-coalizione come contenitore, o immaginare un partito soggetto come architetto di una coalizione più larga. Dove le alleanze, in sé necessarie, siano il compimento di una selezione successiva di mosse e non la geometria preventiva di una scacchiera.” Gianni Cuperlo. “…senza una battaglia culturale esplicita e non reticente è impossibile dare forma a un nuovo modello di partito.” Michele Prospero Sento parlare Fausto Anderlini del suo modello di partito confederale da almeno una trentina d’anni. Se non ricordo male, iniziò a parlarne qualche tempo dopo la sua professione di fede ‘migliorista’. Si trattava allora, principalmente ma non solo, di mettere al sicuro e ‘legittimare’ in modo definitivo, se così posso esprimermi, i ‘potentati’ che innervavano il blocco sociale raccolto e prodotto dal PCI. Le “cinghie di trasmissione”- le organizzazioni di massa nelle loro varie articolazioni e massimamente quelle a carattere economico-produttivo - erano, infatti, il ‘luogo’ dove erano cresciuti i protagonisti di ricorrenti segni d’insofferenza a una gestione centralistica del partito. Segni volti ad attenuarne e ridefinirne i ‘territori’ di competenza e le forme ‘unilaterali’ di comando, che neppure la ‘valorizzazione’ della regionalizzazione, operata di conserva all’attuazione del dettato costituzionale (fuori tempo massimo per tenace disegno politico della DC), aveva ridefinito, ma solo mitigato. Il contenzioso latente, nonostante il riconoscimento, non solo formale, di larghe ‘autonomie’ operative e gestionali, ebbe avuto, per così dire, lasciato emergere una dialettica interna ai gruppi dirigenti di quelle organizzazioni, che riprendeva, sia pure in altro contesto e forme, i termini dei contrasti di linea all’interno del gruppo dirigente nazionale del partito. Anche perché, con la crescita della loro presenza nel mercato e nella società, nel frattempo, si era andata trasformando la ‘governace’ di queste conglomerate sui generis, attraverso una relativa marginalizzazione dei ‘soci’ e del loro potere d’indirizzo e controllo, con l’immissione accentuata di competenze tecniche e imprenditoriali di area, in un delicato equilibrio con la componente più marcatamente politica dei ‘costruttori’, attraverso la quale passava e si articolavano le diverse reti di appartenenza politica. Così, da un lato, i settori forti della organizzazione di massa, tendevano ad approfondire il proprio distacco dai limiti imposti, alla loro ‘sovranità’, dall’altro, il contrasto s’incapsulava, per così dire, massimamente nella ri-definizione, principalmente, dei rapporti politici col PSI di Craxi, fissati in sede nazionale e di partito e, più in dettaglio, si svolgeva la lotta sorda alla svolta di linea impressa da Berlinguer con la proposta del ‘compromesso storico’. La traduzione di quella linea, nel concreto di quelle ‘autonomie,’ era giudicata, da questi gruppi dirigenti di settore, sempre più spesso confliggente con la tessitura ‘unitaria’ faticosamente mantenuta in essere. In realtà, dietro queste motivazioni e preoccupazioni ‘unitarie’ c’erano- e corposi- motivi di contrasto politico sulla linea politica. Ma anche più profondi e non sempre occultati motivi e istanze di revisione ideologica e programmatica e una diversa e alternativa visione sia del processi politici e sociali sia sull’atteggiamento da tenere sulla ‘Grande riforma’ socialista e la sua enfasi sulla ‘modernizzazione’ del Paese e la modalità politiche adeguate a sostenerla. (Se questo appena richiamato, sia pure in modo del tutto sbrigativo, è il contesto originario in cui si affaccia per la prima volta una discussione ancora, per così dire, laterale sulla necessità di una forma partito di tipo ‘confederale’, la riproposizione oggi di quella possibile via d’uscita cade in una situazione di livello infinitamente più basso. Essa, insomma, non ha come ambiente in cui verificarsi, né gli sbocchi possibili da approntare per e in un conflitto unicamente interno a un partito che mantiene ancora forti fattori di coesione interna e l’insieme di una cultura e di una storia ancora fortemente condivise. La proposta oggi si calerebbe, dopo lo sfarinamento e la dissoluzione della componente ex comunista e il suo “incontro” con le altre espressioni del riformismo politico, in un contesto, degradato da una deriva notabilare, dallo sperimentalismo spericolato e senza principi delle forme entro le quali il PD si organizza e organizza la ricerca del consenso e la sua presenza politica ridotta alla mera dimensione elettorale e dall’abbandono di ogni autonomia e capacità di elaborazione collettiva. La sua ‘confederalizzazione’ non sarebbe altro che la riorganizzazione pattizia e su altre basi del veltronismo endemico che attraversa in tutto il suo attuale e sgangherato assetto direzionale il PD, spingendo e/o convergendo, nell’intento di semplificare la geografia interna per aeree, oggi aggregate attorno a singole personalità, verso raggruppamenti più vasti e omogenei. E sarebbe, comunque, l’ambiente più consono alla stabilizzazione di forme di leadership comunicazionali alla Renzi, che non a caso anticipa questo risultato mettendo d’accordo sul suo ‘carro’ tutta o quasi la nomenclatura notabilare del PD.) ‘2. Confederare significa letteralmente alleare, allearsi tra diversi, che hanno alcuni interessi convergenti. Essi, infatti, realizzano, in virtù di un accordo, la produzione di limitate attività comuni, rivolte essenzialmente all’esterno e oltre le capacità proprie dei contraenti l’alleanza stessa. Per questo il governo comune di un’alleanza tra forze confederate esprime un governo per definizione a ‘sovranità limitata’, la cui funzionalità e autonomia nell’esercizio del potere d’indirizzo e comando essendo diretta emanazione di un accordo permanente tra i contraenti confederati a tutela, prima ancora della propria presenza nel governo cui concorrono, delle proprie rispettive diversità. Nella determinazione delle quote di potere delegate, dette parti contraenti l’alleanza confederata è motivata da circoscritti interessi e/o da necessità limitate e convergenti e valutate essere oltre aia propria distinta capacità d’azione. E’ con queste motivazioni che esse realizzano il mero convergere in uno “spazio politico” comune, sede di un potere centrale o soggetto, che si vede fissato dall’esterno, come limite alla propria capacità decisionale, che essa sia unicamente determinata dalla regola dell’unanimità. Oltre a questo limite c’è, infatti, la disgregazione. Pertanto, ogni accordo ‘confederale’ è geneticamente coatto a forme oligarchiche e spartitorie di direzione e per ciò stesso strutturalmente inibito a qualsiasi progettazione del futuro, essendo la riproduzione dell’esistente, la sua unica missione e cura, la cifra per giudicare la possibilità o meno per ogni avanzamento. Si pensi, in proposito, cosa abbia comportato per l’unità sindacale questa vera e propria ossessione all’autotutela d’organizzazione. Come tutto questo abbia finito per avvelenare i rapporti tra le confederazioni, spezzandone la capacità di proposta e di riforma, rendendo sempre più accessoria e marginale la verifica democratica, dapprima dell’azione sindacale unitaria, poi delle singole Confederazioni nelle aziende e fino alle spericolate fratture e susseguenti concessioni di credito al più recente e insidioso tentativo di distruzione della rappresentanza sindacale portato avanti dalla FIAT di Elkan-Marchionne. Se queste sono i caratteri essenziali della tipologia riferita all’azione del confederare, un partito confederale, dunque, è una sorta di ossimoro. Almeno rispetto alla concezione prevalente nell’esperienza storica del movimento operaio e socialista e massimamente nell’esperienza dei partiti comunisti. Anche se la simbologia di riferimento rimaneva la stessa (la falce e il martello) - almeno fino a quando non si ruppero i legami e fu necessario differenziarsi anche simbolicamente nella fase più acuta dell’estremismo staliniano - all’alleanza d’origine, all’inizio comune. Essa delineava, comunque, il “Noi”, il soggetto plurale e interessi di parti distinte, non solo convergenti, ma ricomposte a unità nel partito, che le eleggeva a portatrici storiche di un destino, un sentire, un programma comune Alleanza, per così dire, superata (e/o superabile) attraverso lo strumento ideologico e organizzativo comune -il partito - che ne realizzava l’unità prefigurandola e, appunto, sperimentandola nella sua prassi, essendo in divenire lo strumento di una volontà comune che si realizzava progressivamente, attraverso la combinazione di lotte comuni e la realizzazione d’identità condivisa, agenti e reagenti tra loro. Unitarietà d’intenti e di lotte per il medesimo progetto comune di società a venire, incardinato a regole e disciplina e realizzazioni parziali, ma condivise e fondate sulla piena cittadinanza di ciascuno nella vita di partito, quale anticipazione di ciò per cui ci si batteva e affermazione nel suo svolgersi della forza risultante dalla subordinazione della volontà sia del singolo sia delle sue parti componenti a quella del Noi collettivo e di chi questo ‘Noi’ rappresentava. Il che ha significato che il potere personale d’influenza, il proprio prestigio, la cultura e l’istruzione di ciascuno si sottomettevano, comunque, all’esito della volontà che sapevano raccogliere e persuadere. Non ad altro. Si metteva in valore, insomma, un principio di eguaglianza, che trovava la sua massima realizzazione nel principio di maggioranza a tutti i livelli e in tutte le circostanze. Il militante- com’è stato detto – prefigurava e costruiva il cittadino, la cittadinanza consapevole di sé, la integrava e insieme la distingueva e rilanciava dal partito allo spazio pubblico per modificarlo. Questa era la regola, rintracciabile, almeno a parole, anche nella versione leninista, quale versione particolare (che sbrigativamente potremo definire politico-militare) e di rottura all’interno di quella comune origine e tradizione di partito. Una comunità, un Collettivo, un’Identità, una Cultura, una disciplina che introiettate forgiava il militante, il dirigente, dava valore alla sua appartenenza e conferivano, pressoché in automatico una Moralità che lo distingueva. E, infatti, non necessitavano appelli all‘Etica, inutili e continue geremiadi sulla necessità di comportamenti adeguati. L’insieme di questo complesso di fattori, al contrario di quanto tanta parte della pubblicistica e cultura liberalborghese ha demonizzato per decenni come lugubre fabbrica di conformismo, ha fatto così di braccianti, mezzadri contadini poveri, operai, tecnici, intellettuali, professionisti e borghesi, dei dirigenti politici a tutto tondo, in una delle più colossali e misconosciute opere di vera e propria trasfigurazione, emancipazione sociale, culturale e politica mai avvenute anche in questo Paese. Per questo, quando ci si chiede, a oltre ventanni di distanza, come faccia a ricomporsi nel voto, sia pure segnato dalla diaspora e dalla sua mutata morfologia che lo corrode, quel ’popolo’ in esilio da sé nella incerta sinistra superstite, occorre tenere a mente la fertilità nel tempo delle radici di un pensiero critico potente e di un’esperienza organizzata e di massa vitale e profondamente innestata nella storia di questo Paese. Non dimenticando però che, quell’esperienza di massa e il suo stesso ricordo sono destinati, per inevitabile legge biologica, a esaurirsi. Che, appunto per questo, il tempo per la ripresa possibile di quella ‘vigna’ non è infinito. E la frattura e il salto di più generazioni, se andasse dispersa quella possibilità residua con ciò che oggi ancora e sbiaditamente la testimonia come insieme di biografie personali, ne oscurerebbero definitivamente la memoria di ciò che è stato, così che diverrebbe incolmabile per molti anni a venire, non solo il riannodarsi a quella storia, ma la stessa possibilità di ripensarla per superarla. 3. Si è detto e scritto ripetutamente, come una sorta di consolante giaculatoria, come sia da imputare alle trasformazioni che hanno condotto al superamento (comunque non generalizzato, come sempre), della fabbrica e dell’organizzazione fordista a decretare la scomparsa di quella forma partito nella quale s’incardinava la sinistra. Che la dominanza della produzione a rete e la dispersione territoriale conseguente, lo spostamento a est della parte pesante della produzione a intensità di lavoro, l’immaterialità dei nuovi lavori e della loro condizione deregolamentata, ma anche della particolare parabola con relativo epilogo giudiziario e giustizialista assunta nel Paese dal ’governo di partito’, per non dire della particolare accezione con la quale la dominanza del paradigma neoliberista ha tradotto in Italia la subordinazione dell’economia ‘reale’ ai colossali traffici finanziari globali deregolamentati avrebbero fatto il resto. E il resto è quello che stiamo attraversando: una crisi d’intensità e durata sconosciute senza lo strumento per farvi fronte. Personalmente, sebbene condivida quasi tutto di quella fenomenologia qui appena accennata, non ne sono persuaso. Non è mai solo un cambio strutturale, sia pure di dimensioni colossali e planetarie, che opera un diluvio simile. E’ condizione necessaria ma non sufficiente, Per sprigionare tutti i suoi effetti e in forme così virulente esso deve conquistare le menti. Deve produrre un accecamento che renda possibile accettare quello che altrimenti avrebbe, quantomeno, comportato resistenza, ostacoli, la sconfitta magari come ultima istanza prima della necessaria e imprescindibile ripresa di nuova teoria e nuove forme d’organizzazione.La sconfitta politica e le trasformazioni radicali dell’ambiente sociale e tecnologico devono incrociarsi, insomma, con il venir meno della soggettività, della volontà e capacità di far fronte, avendo la capacità di leggere i segni del mutamento incombente, di capirne fino in fondo la portata distruttiva, i fattori di penetrazione e manipolazione nella coscienza collettiva, le forme nuove di attrazione e ridislocazione dell’immaginario collettivo e come tutto questo comporti, in via preventiva, che si rinunci a fare della propria continuità simbolica, quale sintesi vivente e comunicabile della propria necessità storica, un bene non negoziabile a tutela della propria identità e vocazione alla trasformazione sociale. E’ questo il varco soggettivo attraverso il quale sono filtrate tutte le illusioni che stiamo attraversando, dalla personalizzazione alla liquidità e fino alla ‘scorciatoia’ carismatica, tutte con l’accettazione dell’idea suicida e riguardante i processi d’individualizzazione con loro seguito di mobilitazioni, più o meno cognitive, sicché potesse sostituirsi alla fatica di ripensare ex novo la propria missione, la propria visione del futuro e della trasformazione sociale. Così, si è giunti alla catastrofe dell’89, fiaccati e confusi, incerti sulle vie da seguire, incapaci a fronteggiare in modo adeguato la scomparsa, anzi lo scompaginamento della fabbrica quale terreno elettivo del proprio radicamento e laboratorio della propria visione del presente e del futuro. Complice, la lunga stagione del terrorismo, ci si è caricato di un’ipertrofica ‘responsabilità’, in nome della quale si giustificava il proprio immobilismo, lo allentarsi prima, e poi lo sganciamento della sintonia con gli umori e i bisogni, le modificazioni che intanto procedevano. Il lavoro mutava in ogni senso e progressivamente invece d’interrogarlo e comprenderne le nuove forme se ne assumeva come propria l’esigenza di scomporlo ‘modernamente’ anche dal punto di vista giuridico e normativo. Una colossale opera di svalorizzazione del lavoro, del suo peso politico e sociale avveniva, dunque, con l’illusione di una scomparsa del conflitto e la conseguente necessità di assicurare unicamente regole nuove. Regole peraltro mai organicamente realizzate e pensate e realizzate invece dentro un processo istituzionale e politico sempre più ipertrofico, sconnesso, irrilevante. Sì, quello che rimaneva del partito era sempre più dentro lo sviluppo così come altri decidevano e sempre meno contro gli scopi e le forme attraverso le quali lo sviluppo sì e gli assegnava. 4. C’è una parola, decisiva e semplice, che ha il potere, se assecondata di riannodare i fili spezzati, che Cuperlo ha messo a bandiera del suo tentativo di conquistare la segreteria del PD per rifondarlo. Questa parola è: uguaglianza. Essa, non solo riafferma la continuità con una storia, ma delimita gli interessi attorno ai quali un moderno partito di sinistra può e deve ri-pensare come ri-costruire, con la propria presenza organizzata, il rapporto con il lavoro cambiato, come e con quali programmi e obiettivi rappresentarlo, ricomporlo, farne la fonte della propria autonomia. Riprendere il discorso dall’uguaglianza contiene anche la proposta di una rilettura degli esiti di una storia secolare e rileggerla nella fertilità del suo inizio. Certo, questo riandare all’origine, sembra ancora incerto sul pensiero potente e critico che ne ha costituito, attraverso un’opera immane di sterilizzazione di tutte le infinite influenze che lo animavano, il fattore di precipitazione di quella storia e di quell’identità, che si fece divisa, portando a esiti diversi, ma parimenti aggravati dallo sbocco catastrofico di una sua parte. Ma questa cautela non è né reticenza, ,né ingenuità. Quanto, piuttosto, il bisogno di rinvenire e saggiare quel pensiero, passo passo, a partire, appunto, da una parola-chiave. dalla parola-chiave. Essa comporta, intanto, un’idea forte della cittadinanza e dello stesso pluralismo e, cosa capitale, il rifiuto di quel disincarnamento dei bisogni e della politica di partito, che ha condotto all’abiura del conflitto sociale, alla convinzione cioè: Se questo è l’orizzonte è evidente che non siamo di fronte a un mero tentativo di riposizionamento, a una delicata ma sempre possibile operazione di marketing, intesa a ridare smalto a un brand che è andato verso la propria obsolescenza. No, si tratta di una sfida lanciata a dare finalmente un’ossatura a un’idea di partito, bloccata dall’origine dalla babele notabilare indisponibile a qualsiasi generosità, che non contenesse la certezza della propria riproduzione. In questo, consiste la radicalità della proposta di Cuperlo. Essa, infatti, è talmente avvertita che, la chiacchiera sulle ‘identità’ da salvaguardare si dimostra per quello che è con l’arrembaggio di tutta o quasi la nomenclatura sul carro renziano, destinato a battere le solite rassicuranti strade. E questa sfida, scopre anche le incertezze tecnocratiche che stanno al fondo della proposta, per molti versi di rottura, contenuta nella proposta Barca, il quale, e non caso, alla fine della sua ‘traversata’ confluisce coerentemente ad appoggiare chi sostiene con più coerenza l’afflato ‘compassionevole’ verso la ‘sofferenza sociale’, vale a dire quella versione radical liberale tutta incentrata sui processi d’individualizzazione e di conseguente semplificazione referendaria della partecipazione politica. Gianni Cuperlo, dunque, a quello che definisce il compito essenziale del partito immaginato d’impegnarsi per soddisfare, “il bisogno di riforme”, dà un principio ordinatore: la ripresa e lo sviluppo di un’azione di lotta e di governo per l’uguaglianza. Principio che ridefinisce e rimette coi piedi per terra, togliendolo dall’espropriazione, supinamente accettata, per opera della destra neoliberista, della Riforma, divenuta sinonimo di svuotamento e riduzione a simulacro della democrazia e delle forme più avanzate e inclusive di cittadinanza. Essa riacquista il sapore della sua incidenza nel tessuto vivente della società e dei suoi rapporti di potere consolidati e, facendolo, propone un terreno di ricomposizione della riflessione dispersa di questi anni. E questo, se volete, è il primo passo decisivo per quel partito necessario a ricomporre la sinistra, le sinistre. Perché, parafrasando uno che se ne intendeva, non c’è partito riformista senza una teoria della riforma. 5. Chiudo questo lungo peana riportando quasi per intero l’Appendice B del documento sulla crisi che Gabriele Pastrello ha pubblicato sulla nostra Pagina in Fb, giacché ritengo che in essa sia racchiuso il non detto di Gianni Cuperlo, quello che l’ha motivato in profondo alla riflessione colla quale egli si è presentato a noi per raccogliere il nostro consenso. Scrive Gabriele Pastrello:
Posted on: Tue, 03 Dec 2013 15:47:05 +0000

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