LUOGO È NEL PROFONDO INFERNO DETTO MALAPALMA Inferno, decimo - TopicsExpress



          

LUOGO È NEL PROFONDO INFERNO DETTO MALAPALMA Inferno, decimo cerchio, canto XXXV Comincia il canto trigesimoquinto dello ‘Nferno, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze, nel quale l’autore mostra al viaggiatore poeta Francesco Bellanti li suoi compaesani politicanti palmesi condannati da Dio ne lo nuovo cerchio decimo a tutte le pene per li loro terribili peccata. Luogo è nel profondo inferno detto Malapalma che il suo nome dal siculo paese piglia, dove tutta la malacarne si raduna che a una terra di santi ha gettato lordura. Dopo la Giudecca e la Caina di cantar credea il regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. Ma Dante lo mio duca mi disse “Aspetta, convien restare anca fra puttane e lupanari, fra latrine, nel bordello”. Subitamente vidi da lontano moltitudini sterminate avanzare, una lunga tratta di gente che mai avrei creduto che morte ne avesse tanta disfatta. Quando furono presso a noi, io, che avevo la testa d’errore cinta, dissi: “Maestro, che è quel che io vedo? Chi è questa gente che urla e bestemmia?” Ed elli a me: “Sono popoli del tempo della fine. Sono tuoi compaesani, il mal seme di Palma di Montechiaro. Questi sciagurati furono le sette dei cattivi, bande di ladri, corporazioni di assassini, cosche mafiose, massoni, consorterie, avventurieri, congreghe di malavitosi, comitati di speculatori e di pubbliche rapine, affaristi e tangentari di circoli e di associazioni trasversali. Lasciarono un paese devastato e vile”. Ed io, che vi ebbi alcun riconosciuto, m’accostai confuso a la mia guida e dissi: “Maestro, io veggo medici e speziali, ingegner di chiara fama, e professor di gran lustro e nome, studenti, non delinquenti, e contadini e genti basse e buone”. “Merde!”, disse irato la mia guida, “Furon merde! Tu vedevi fantasmi, maschere che celavan il cattivo seme d’Adamo. Furon consiglieri fraudolenti, studenti ignavi e qualunquisti, accidiosi, aspiranti attrici ipocrite che declamavan versi di sinistra e razzolavano a destra, candidati a mille a mille di zucconi vuoti che dimandavano voti per creare confusione, lussuriosi e golosi e rapaci, che sol riempivano il paese durante le elezioni di visi belli, lisciati e sorridenti, di vestiti dai sgargianti colori, di cravatte colorate, ma dietro c’era il vuoto, il fumo, niente. Profittatori della cosa pubblica, sanza cultura e sanza idee, se non quella del latrocinio e del pubblico meretricio. Quelli che vedi non erano gli uomini nuovi che cercavi, ma pecorai ignoranti, viddani, ladri e puttane”. “Minchia”, diss’io allora, “e straminchia!”. Son essi allora li peggiora peccatora!”. “Jawohl!”, disse lo mio maestro strano che Adolfo parea tedesco dittatore. “Son elli li peggiora politicanti peccatora de la res publica, avara, violenti contro Dio, ignavi suicidi scialacquatora, lussuriosi e quelli del vizio de la ira e de la gola, accidiosi eretici e sodomiti bestemmiatora, e zurari maghi indovini e ladroni de le cose terrena e spirituala, e l’infinito popol dei barattieri e dei falsari, dei consiglieri di fraude, e i ruffiani e i seduttori, li schifosi adulatori, e gli assassini e di discordie seminatora, e infin la sterminata genìa dei traditora”. “Ahi, tiempo de povertà!, tiempo de nada”, diss’io a lo mio duca, “tiempo de niente che niun riconobbe, tiempo che rapido correva verso la fine. Gigantesco tiempo della tragica dissoluzione del mondo, tempo straordinario turpe che con cataclismi immani ed esistenze indegne maciullavan la Terra come si fa con le gregne! Tiempo di dolore e di morte, tiempo de smisurata miseria quotidiana che profeti in delirio cantarono in sogni ma nessun riconobbe! Che si doveva fare, o maestro, per evitare tanto obbrobrio e tanto male?”. “Figliol mio”, disse il duca cortese, “la Palma antica rimpiango dove casta era la femina e pudica, non aveva catenelle e non corone, e li padri non rubavan per fornir dote migliore. Nostalgia d’un tiempo in cui le fazion un nome avevan e una storia e le person pel comun interesse lottavan e non per lo proprio amore. Oh, tiempo greve e vile, privo de lo slancio vitale e del valore! Non quello de le speranze e dei sogni de la giovinezza, quando tu sospiravi amore e gloria e pace e fortuna, e nella buia stanza vigilavi aspettando il mattin. “Che dovean fare per salvarsi l’arma ormai perduta, questi infelici?”, a lo poeta dimandai. “Poco”, crucciato mi rispuose lo mio poeta. “Aborre la baratteria e lo peculato, la simonia e ‘l tristo nepotismo. Promuover lo decoro urbano e li beni culturali de li palazzi e de le chiese e l’arte e li prodotti de lo umano ingegno per far giugne costì le straniere genti, sparagnar ne le pubbliche attività, aiutar li villani operosi e le campagne ubertose, e le case per lo popolo tutto, e la bellezza del mare e de le piagge, e la musica e le comedìe, e la pecunia iusta da dare al buon esercizio de la res publica. Con questo poco si potevan salvare esti coglioni”. “Or dove vanno in sì veloci passi queste moltitudini dolenti?”, chiesi ancor a lo mio duca, “forse che una singular pena?”. “Dicerolti brieve”, rispuose. “Le loro peccata furono così gravia e nefanda che tutte le pene de lo profondo inferno hanno. Cento diavoli li squartano dal ciuffetto all’ano, sicché la corata pare e il tristo sacco che merda fa dello schifo che si trangugia. Così vanno a un demonio che col vascel li trasborda in lo sozzo fiume di là che il cerchio circonda e di fango ripugna, infin la corrente in un lago di merda li conduce e lì vi si sguazza la gente che sempre qua s’accalca. Stanno a fare lo bagno in un mare di merda perché hanno lasciato un paese nella merda. Ma non finisce qua la sozzura che in un sabbion giugnon dove faville dal cielo cadono e arrostono la pelle, indi passan in buche ghiacciate dove si manducan l’un l’altro i cirivielli. Vespe poi li mordon nei coglioni e ne lo culo, e ne la pece e nel sangue bollente sono immersi, uncinati poi dai diavoli e a terra crocifissi, sbranati indi da cagne fameliche a le palle, bruciati ancor su pire di foco e arrifrescati ancora nel ghiaccio, poi messi a testa in giù con le fiamme ai pedi lordi, e nella bufera infernale sbattuti, infin tagliati ancora vanno da cento diavoli con scimitarre e spade dal mento all’ano che caga puzzolenta merda nel fetore bestiale infernale. E così sempre si ricomincia per l’eternità”. “Minchia!”, diss’io pien di terrore, “e straminchia! Tutta questa pena hanno i miei compaesani?”. “Sono i peggiora peccatora”,disse il mio poeta, “perché in una picciol citate ricolti sono tutti li mala peccata del mondo, cupidigia, superbia, lussuria, violenza, fraude, tradimenta. Lo Massimo Fattor sdegnato ne lo profondo inferno un loco ha creato solo per loro, sconvolgendo l’ordine del cosmo”. “Maestro”, dimandai più tristo, “com’è che tutte quelle bandiere, quelle insegne portano mentre corre tanta tratta di gente?” “Sono il segno de lo degrado dell’uomo di Palma”, lo mio poeta disse, “che dietro il vuoto si nasconde, perché este bande sono le liste civiche, liste sanza memoria e sanza storia, simboleggiano il vento che lascia dietro solo fumo, vuoto movimento, niente”. “O Siculo, che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio a la qual mai io fui molesto”. Subitamente questo suono uscìo d’una moltitudine offesa; però m’accostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? Vedi là lo maggior priore s’avvicina: dai capei a le piante tutto ’l vedrai”. Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno a gran dispitto. E l’animose man del duca e pronte mi pinser oltre la merda a lui, dicendo: “Le parole tue sien conte”. Com’io al piè de la la folla avanti a lui fue, el guardommi un poco, e poi, quasi sorridendo, mi apostrofò: “Oh, magister poeta che gaudio! Cognosco te, cognosco li maggior tui. Deco Bellanti fu la tua radice, omo passionale e grande, sempre fidele a la sua parte e a la sua gente, che mai tradì e morì gridando ‘sono socialista’. Di tali omini dovria esser fatto il nostro paese”. “Le tue parole mi commuovon assai, anima dolente”, diss’io, “al ricordo de la mia pianta antica, più che la mia picciola vita, ma sappi che anche la mia lontana stirpe fu di tal partito, e forse hodie esto è errore grave. Ma dimmi chi fosti veramente perché io possa addurre nel mondo di sopra ricordo della tua buona fama se non il perdono di Dio”. Diss’ei: “Io fui in lo paese lo maggior priore, lo sinnaco che le folle trascinò ed ebbe passione, io ebbi sangue nelle vene e sogni e furore”. “Lo tuo dicere me conforta assai, io mai ebbi disdegno de te se non amore, ma esta città non ha più linfa vitale, sdimentica di poesia, lotte contadine, santità e nuova morale. Lo paese è fatiscente e desperado, povero di sogni e di vida, de coraggio, pieno di giovani perduti e di avventurieri, di solitudine e di tristezza, di sordido torpore. Un sentimento di morte ogni cosa pervade, anche la potente gioia de la vida che dovria aver la gioventù, se non che anche li giovani sono più vecchi dei vecchi. Coltivano solo il loro orticello, il loro miserabile spazio, il lumicino che la piccola ombra rischiara. Oh lo sfacelo del tiempo, senza rabbia, senza passione! E ‘n la tua politica lo maggior peccato fue, oltre il non aver cambiato l’uomo, non aver cresciuto li politici nuovi de la sinistra, non aver lasciato eredi”. “Io non potei lottar contro le forze potenti de la historia”, disse’ei, “la bestial perniciosa brama e lo deserto spiritual volgare che si inabissa e maffia e incoltura adduce. Sì, fui solitario. Ma se tu riedi a tanta luce mai, dichi il vero, e cioè che la maffia lottai, e il devastante vuoto”. “Le tue parole mi turbano le cervella, ma dimmi tu perché sei costì a sguazzar ne lo fango e ne la merda”. “Sono qui”, rispuose incontinente l’anima nuda, “perché lo perdono di Dio non comprende la onesta vida se non nella sua grazia si distende, per questo la mia anima qui è dipartita”. A tal parole lo duca mio mi sospinse e mi disse “Vien di qua, lasciam la merda de lo tempo sporco e vecchio, e saliam ne lo secondo regno, dove l’aere è più pulita”. Francesco Bellanti
Posted on: Fri, 07 Jun 2013 17:40:09 +0000

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