PENSIERI Dal greco Demostene al romano Giulio Cesare - TopicsExpress



          

PENSIERI Dal greco Demostene al romano Giulio Cesare nellantichità, passando per il cardinale Richelieu nella Francia della prima metà del XVII secolo, Sir Robert Walpole che regnò oltremanica un secolo più tardi e il suo contemporaneo Federico II di Prussia, dalla famiglia de Medici in Toscana a Napoleone, fino ad arrivare a personaggi contemporanei del calibro di Mitterrand o dei nostrani Andreotti e Berlusconi: le grandi figure del mondo occidentale sono anche uomini-simbolo della corruzione. Tra tutti, spicca la figura leggendaria di Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, alias labate di Périgord, che nel corso di una carriera durata più di quarantanni costruì la sua fortuna e dal 1803 visse, con stile di vita principesco, nel suo castello di Valençay. Dopo la sua morte bisognerà attendere quasi un secolo perché venga riabilitato. È al povero e ambizioso Vautrin de Il padre Goriot, che poi si scoprirà essere un forzato evaso, che Honoré de Balzac affida un giudizio su Talleyrand che ci offre la giusta immagine dei corrotti: Quello che ha impedito la spartizione della Francia al Congresso di Vienna .Meriterebbe incoronarlo, invece lo si copre di fango”, esclama. Eroi della corruzione, re di fango, a dimostrazione del legame empirico tra virtù e corruzione: come spiegare che la corruzione figura accanto a tanti meriti? È una semplice coincidenza o esiste una relazione? ... In un’economia capitalistica ‘a norma’, sarebbero i manager e gli incaricati d’affari dei consolati ad occuparsi delle vendite e degli acquisti, con costi convenienti per i paesi che intrattengono relazioni commerciali. Quando, invece, le cose si complicano e, a causa delle sfide della globalizzazione e delle responsabilità maggiori che i governi sentono nei riguardi delle società civili penalizzate dall’apertura delle frontiere, subentrano strategie non più di mercati ma di stati e di governi. Subentra, allora, il bisogno di raffinati diplomatici in grado di tessere collegamenti di confine tra gli istituti di ricerca come le università, le banche,le imprese, i ministeri. Per questo occorre una comune koinè culturale e, soprattutto, una lingua comune: gli atenei si collegano alle imprese, queste ai ministeri e alle fondazioni bancarie in un travaso sempre più fitto di competenze, di gusti, di stili di vita. Nemo dat quod non habet; la verità è adaequatio mentis et rei; e soprattutto l’assioma scolastico, ripreso poi da Locke, per cui “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu” (niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi). Il bambino che nasce, per continuare col latino, è tabula rasa. Il mondo è quello che ha sotto gli occhi, cioè il caldo torrido per il negretto dell’Africa equatoriale e il freddo assassino per il piccolo inuit. Il modo naturale di esprimersi e comunicare è la lingua che si sente parlare intorno a sé. Le idee, gli usi e i costumi “giusti” sono quelli della maggioranza del gruppo. Dopodiché, il fatto che sia stata sospesa per l’incapacità dei partiti che non riescono aggregare uno straccio di maggioranza su alcuni (sia pure minimali) obiettivi politici o non si assumono la responsabilità di farlo, per l’alzata d’ingegno del presidente della repubblica che ha deciso di comportarsi come un monarca o per entrambi i motivi insieme è senz’altro un discorso da approfondire. L’evidenza, tuttavia, rimane: oggi in Italia la democrazia non funziona. Non opera. In estrema sintesi, non c’è più. La classe politica della Seconda Repubblica ha perso la capacità e la voglia di cambiare alcunchè, forse anche perchè la maggior parte delle leggi vigenti sono state fatte da loro, e quindi sono restii a rinnovarle. I grillini magari hanno voglia di cambiare tutto, di far rivoluzioni, ma quanto a capacità reali mi permetto di dubitare di loro, visto che si sono messi in una posizione da cui è difficile realizzare qualcosa, e le idee sono “poche ma confuse”. Napolitano non si capisce dove sta andando a parare, forse vuole solo tergiversare per arrivare a fine mandato e passare la patata bollente al suo successore. Forse invece ci crede davvero di poter trovare un compromesso che sblocchi la situazione, ma se siamo arrivati ai saggi Violante e Quagliariello credo che anche le sue cartucce si siano esaurite. Il problema è che se si torna a votare con questa legge, con l’Italia che è ormai tripolare, lo stallo al Senato è praticamente garantito. Ma per fare la legge elettorale devi mettere d’accordo almeno 2 gruppi, e PD e PDL in un anno non hanno combinato nulla, mentre il M5S sa solo che vuole preferenze e limiti di candidabilità ma non appena parli di maggioritario, proporzionale, collegi, liste ecc. non riescono più a seguire il discorso. Il futuro non è mai stato così nebuloso.E il fatto che non ci sia più non perché qualcuno abbia soppresso con la forza il parlamento eletto dai cittadini, ma nonostante, malgrado, o per meglio dire con il benestare (più o meno turbato da qualche miagolio qua e là) di quel parlamento non è affatto un’attenuante, ma al contrario rappresenta una gravissima aggravante che getta sulla situazione una luce sinistra. Già Erodoto notava come i nubiani (salvo errori) avessero delle divinità di pelle nera, perché di pelle nera erano loro stessi. Notizia che avrebbe fatto felice Ludwig Feuerbach:, colui che diceva che l’uomo crea Dio a sua immagine e somiglianza. La «caduta delle ideologie» si accompagna al venir meno della ragione. Eppure le une e laltra, cum grano salis, appaiono di gran lunga più affidabili e meno dannose dellirrazionalismo puro, del velleitarismo insensato che accompagna le poche e misere azioni concrete di chi ci governa. Un paese che ha rinunciato alla cultura ed alla razionalità per gettarsi nel sogno, nella ricerca del colpevole delle sue colpe, nella promessa più seducente anche se ovviamente irrealizzabile rischia davvero un amaro risveglio. La concordia e la pace non sono beni che si ottengono gratis: si paga il prezzo della tolleranza e della sopportazione, all’occasione si sacrificano perfino le proprie idee e i propri interessi. Ciò avviene già nella vita matrimoniale: una coppia felice non è quella in cui marito e moglie sono sempre entusiasticamente d’accordo su tutto, cosa impossibile; è quella in cui i due sono a tal punto disposti a cedere che si verifica più spesso la gara della generosità che quella dell’egoismo. la crisi irreparabile della comunità politica – fino a ieri lo ‘stato nazionale’ forse un domani, chissà, una qualche forma di stato federale europeo – toglie il terreno sotto i piedi delle istituzioni e svuota dall’interno ogni forma di governo, da quelle che ci piacciono di più – come la democrazia liberale – a quelle che ci piacciono di meno – come il socialismo collettivista o il corporativismo nazionalista. Filo conduttore di tutto è la Favola delle api di Bernard Mandeville, che racconta di un alveare opulento e industrioso in cui le api si comportano come gli uomini, ambiziosi e truffatori. Ebbene, se le api diventassero oneste, lalveare andrebbe in rovina, perché mentre la corruzione provoca circolazione di beni e status, una società onesta è stagnante. E’ un esame dei pensatori che nella storia si sono occupati dei temi morali legati alla pratica della corruzione, arrivando a scomodare Naom Chomsky, sul quale sostiene, esercitando una mal celata arte della provocazione, che “non corre il rischio di sporcarsi le mani, dal momento che non le ha mai staccate dalla tastiera del computer. Il catalogo dei nemici della corruzione non contiene solo intellettuali, ma anche giudici, del calibro di Eva Joly, uno dei più famosi in Francia, simbolo della Mani Pulite transalpina. Sono questi “folli”a credere che “vivere nellagio senza i grandi vizi” sia possibile, “uninutile utopia”, tra laltro non affatto invitante:un potere non corrotto sarebbe un potere vuoto, formale, senza efficacia, privo di qualsiasi reale presa sul mondo. Ma non basta, perché dopo avervi raccontato che il problema dell’Italia sono i pochi che tolgono ai molti, quando la tattica del rinvio produrrà i suoi frutti avvelenati e si dimostrerà un’inutile perdita di tempo, si proverà a scaricare tutte le colpe sull’Europa, in questo modo spingendo prima alla rabbia e alla rivalsa sociale, poi al rigetto dell’Unione e allo spreco di vagonate di soldi bruciati sull’altare dell’equilibrio di bilancio.Come fanno a non vedere qual è il salatissimo prezzo delle non decisioni? Sarebbe mille volte meno doloroso chiarire subito cosa si deve pagare. Sarebbe un milione di volte meglio raccontare senza birignao cosa si deve tagliare. La previsione (con date e misure) di un fisco meno satanico porterebbe a far scemare il nostro guaio più grosso: la paura. Mentre i rinvii la alimentano, scavandoci la fossa. ECONOMIA Di paolo cardenà da vinvitori e vinti-Nel 1992, come noto, Giuliano Amato, in piena notte, fece già una rapina dello 0.6% sui conti correnti degli italiani. Con quella sciagurata azione degna di uno stato ladro, si colpirono anche chi, sul proprio conto corrente, in quei giorni, per loro sfortuna, ebbero accreditato un mutuo, contratto magari per lacquisto di un immobile o per qualsiasi necessità. Di fatto, vennero prelevati dei soldi anche sui debiti degli italiani. A mio parere fu una grande rapina, ma quantomeno fu una tandum, e quindi non strutturale. Oggi la questione è assai differente, e anche più inquietante. Perché, se è vero come è vero che quella di Amato fu unimposta patrimoniale una tandum, oggi, invece, la quasi totalità dei risparmi sono colpiti con limposta di bollo dello 0.15% (0.20% dal 2014), in modo strutturale. Cioè, un terzo dellimposta patrimoniale di Amato, che si ripete tutti gli anni. Salvo ulteriori inasprimenti. Oltre a questa imposta che colpisce la consistenza dei risparmi e quindi il patrimonio, gli investimenti finanziari scontano ulteriori imposte sia sui capital gain, sui dividendi e sulle cedole, tuttaltro che leggere. Quindi, in Italia il risparmio è già ampiamente ( e pericolosamente) tassato e chi crede che sia possibile ulteriori imposte patrimoniali, lo fa perché perfetto analfabeta economico e, cosa peggiore, perché si vuole colpire quei piccoli risparmiatori che hanno accumulato qualche risparmio in virtù di redditi prodotti in età lavorativa, peraltro già tassati a livelli siderali. Infatti, quando si accorgeranno che il gettito derivante da unimposizione patrimoniale straordinaria sarà ben poca cosa rispetto a quanto da loro ipotizzato, finiranno per abbassare lasticella di imposizione, andando a colpire proprio quei piccoli risparmiatori che, magari, durante la loro attività lavorativa, avranno messo da parte qualche risparmio per far fronte agli imprevisti o alle necessità della vecchiaia, viste le pensioni da fame che lo Stato paga., obbligandoli però, in età lavorativa, a dover rinunciare a parte del proprio reddito, per garantire il pagamento delle pensioni attuali, talvolta faraoniche, senza che i percettori abbiano fatto la stessa cosa erano in età lavorativa. E questultimo fatto lo abbiamo dimostrato proprio in una serie di articoli che vi ripropongo e vi invito alla lettura, tenuto conto che si tratta di argomenti di fondamentale importanza che meritano di essere letti, approfonditi, compresi e diffusi. Non hanno nulla di complesso, ed è sufficiente leggerli con un po di attenzione per comprendere in che modo potremmo essere colpiti da unimposta patrimoniale, traendone le dovute considerazioni. ASPETTANDO LA PATRIMONIALE Quando vi recate in banca per chiedere un finanziamento o un mutuo per lacquisto della vostra abitazione, la banca, in genere, in condizioni di normale operatività, pone due condizioni essenziali a garanzia delle somme che vi verranno erogate: lipoteca sulla casa che voi acquistate, e un reddito ritenuto adeguato per poter pagare le rate di finanziamento che, dallerogazione in avanti, vi verranno addebitate fino alla completa estinzione del debito. In pratica, il valore della casa, bene reale per eccellenza, costituisce la garanzia (per la banca) che voi onorerete il debito attraverso il pagamento delle rate, reso possibile da un flusso finanziario di lungo periodo: il reddito da voi prodotto. Se si interrompe questultimo compromettendo la vostra capacita di rimborso del mutuo, la banca, per recuperare il proprio credito, potrà invocare la garanzia (lipoteca) e vendere il vostro immobile per recuperare il proprio credito, che per voi è un debito. Discorso analogo vale anche per il debito pubblico, anche se con qualche peculiarità differente. Siccome la macchina statale, per poter funzionare, ha bisogno di credito, quando i nostri governanti si recano per le varie cancellerie mondiali o nei vari road show e affermano che lItalia ha uneconomia solida, altro non fanno che rassicurare gli investitori (che finanziano lo Stato) confermando che loro possono investire tranquillamente sullItalia poiché il loro credito (debito dello stato) potrà essere ripagato, stante la ricchezza degli italiani. Quindi, in un certo qual modo, il patrimonio degli italiani, seppur in mancanza di un atto formale idoneo a costituire ipoteca o pegno, viene posto a garanzia dei prestiti che gli investitori concedono allo stato. Ciò è possibile grazie allautorità che lo stato può esercitare nei confronti della popolazione. Mentre il reddito prodotto degli italiani costituisce il flusso di ricchezza che permette il pagamento degli interessi agli investitori. Quindi, lo Stato, forte della sua autorità che gli consente -attraverso limposizione fiscale- di considerare il patrimonio dei singoli cittadini a garanzia degli investitori, trasforma la ricchezza nazionale in una garanzia per gli investitori pronta ad essere escussa grazie allautorità di cui lo stato stesso dispone e che si sostanzia proprio nel prelievo fiscale, sia ordinario che straordinario in caso di imposte patrimoniali straordinarie. Accade che il debito dello stato, contrariamente al debito dei privati, verosimilmente, non viene mai (?) rimborsato, ma semplicemente rinnovato; almeno fino a quando gli investitori non decidano di staccare la spina, ottenendo il rimborso del proprio credito. Ciò significa un cosa molto semplice, ossia che gli investitori, siccome hanno delle masse di liquidità che devono essere pur investite e sempre a caccia di un buon rendimento e di un porto sicuro, alla scadenza del proprio credito, altro non fanno che concedere alla Stato unulteriore dilazione, rinnovando il proprio investimento a condizioni modificate, sia in termini di durata e di rendimento. Quindi, fino a quando gli investitore non pretendono indietro i loro soldi, nulla da temere. Ma le cose cambiano nel momento in cui gli investitori invertono la rotta e poiché lo Stato non dispone delle risorse per ripagare il debito, si verifica la bancarotta. Ecco quindi che lo Stato, con la sua azione fiscale, altro non fa che pagare la pretesa dei finanziatori, alle banche, ai fondi di investimento e ai fondi pensione che hanno investito sui titoli italiani. In parole ancora più semplici, il patrimonio degli italiani è la garanzia della solvibilità dello Stato. Pochi giorni fa, la Banca dItalia, ha reso noto il consueto rapporto sulla ricchezza delle famiglie italiane, che potete trovare QUI nella forma pubblicata. Omettendo di entrare nei meandri della metodologia adottata da Bankitalia per quantificare la ricchezza delle famiglie, dal rapporto emerge che, alla fine del 2011, la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a circa 8.619 miliardi di euro, corrispondenti a poco più di 140 mila euro pro capite e 350 mila euro in media per famiglia. Più precisamente, secondo quanto riportato dal rapporto, alla fine del 2011 le attività reali (5.978 rappresentavano il 62,8 per cento della ricchezza lorda, le attività finanziarie (3.541 miliardi di euro) il 37,2 per cento e le passività finanziarie (900 miliardi di euro) il 9,5 per cento. ATTIVITA REALI A fine 2011 le attività reali detenute dalle famiglie italiane ammontavano a 5.978 miliardi di euro. Le abitazioni rappresentavano l’84 per cento del totale delle attività reali e i fabbricati non residenziali quasi il 6 per cento. Impianti, macchinari, attrezzature, scorte e avviamento incidevano per il 4 per cento, mentre i terreni e gli oggetti di valore ammontavano rispettivamente a poco più del 4 e del 2 per cento. ATTIVITA FINANZIARIE Alla fine del 2011 le attività finanziarie ammontavano a oltre 3.500 miliardi di euro, in contrazione a prezzi correnti rispetto a fine 2010 (-3,4 per cento). Quasi il 42 per cento era detenuto in obbligazioni private, titoli esteri, prestiti alle cooperative, azioni e altre partecipazioni e quote di fondi comuni di investimento. Il contante, i depositi bancari e il risparmio postale rappresentavano quasi il 31 per cento del complesso delle attività finanziarie; la quota investita direttamente dalle famiglie in titoli pubblici italiani era pari al 5,2 per cento. Le riserve tecniche di assicurazione, che rappresentano le somme accantonate dalle assicurazioni e dai fondi pensione per future prestazioni in favore delle famiglie, ammontavano al 19,2 per cento del totale delle attività finanziarie. È continuata nel 2011 la ricomposizione dei portafogli delle famiglie verso forme di investimento più liquide, quali il contante e il risparmio postale e i conti correnti bancari, le cui quote di ricchezza finanziaria sono ulteriormente cresciute rispetto al 2010 (rispettivamente di 0,3, 0,4 e 0,5 punti percentuali). Rispetto al 2010, la quota di ricchezza detenuta in titoli pubblici italiani è cresciuta di un punto percentuale, pari a oltre 30 miliardi di euro, tornando sui livelli del 2009. La quota di ricchezza finanziaria in titoli pubblici posseduta dalle famiglie italiane è comunque decisamente inferiore a quella della seconda metà degli anni 90, quando ammontava in media al 14 per cento. Quella detenuta in azioni e partecipazioni (circa 500 miliardi di euro, pari al 14 per cento) si è ridotta dalla fine del 2010 di 3 punti percentuali, esclusivamente a causa della riduzione della quota di titoli italiani; nel 2000 ammontava a circa un quarto delle attività finanziarie totali. Secondo le statistiche disponibili, le attività finanziarie detenute sull’estero dalle famiglie italiane erano di oltre 300 miliardi di euro a fine 2011, in diminuzione di circa il 5 per cento rispetto alla fine del 2010. PASSIVITA FINANZIARIE A fine 2011 le passività finanziarie delle famiglie italiane, pari a 900 miliardi di euro erano costituite per circa il 42 per cento da mutui per l’acquisto dell’abitazione; la quota di indebitamento per esigenze di consumo ammontava a circa il 13,6 per cento, le rimanenti forme di prestiti al 20 per cento così come i debiti commerciali e gli altri conti passivi Dallo spaccato sopra evidenziato se ne deduce che la ricchezza netta (ATTIVITA REALI+ATTIVITA FINANZIARIE-PASSIVITA FINANZIARIE) è di euro 8619 miliardi di euro, ossia oltre 4 volte il volume del debito pubblico. Questa, in altre parole, è la ricchezza posta a garanzia del debito. COLPITI DA UNA PATRIMONIALE Quindi, in base ai dati resi noti da Bankitalia, siamo giunti alla conclusione che il patrimonio degli italiani è costituito da: Attività reali per 5977.80 miliardi di euro-Attività finanziarie per 3541 miliardi di euro-Passività finanziarie per circa 900 miliardi di euro. Queste due macro classi di attività, dedotte dalle passività, costituiscono la ricchezza netta degli italiani che quindi viene quantificata in euro 8619,3 miliardi di euro. Il dato, essendo multiplo di oltre quattro volte lo stock di debito pubblico, fa un po impressione e suscita linteresse di chi vorrebbe che, almeno parte di questa enorme ricchezza, possa essere utilizzata per abbattere il debito pubblico confinandolo entro volumi di maggio sostenibilità. Cè chi evoca addirittura la necessità di portare il rapporto debito/pil sotto il 100% (oggi al 127%). Non solo, ma anche buona parte dei burocrati europei auspicano, per lItalia, una soluzione di questo tipo al fine di consentire di porre il debito pubblico italiano in un sentiero di maggior sostenibilità, abbattendo anche il costo per interessi che, ogni anno, costa al contribuente italiano circa 80 miliardi di euro, con previsioni di crescita fino a raggiungere oltre i 100 miliardi nel 2015. Addirittura, qualche settimana fa , linvito è stato rilanciato anche dal capo economista della Commerzbank, Jörg Krämer, che ha auspicato lapplicazione di unimposta patrimoniale del 15% sulle attività finanziarie in possesso ai risparmiatori italiani (titoli di stato, obbligazioni conti correnti ecc ecc), in modo da ridurre il debito pubblico entro il 100% in ragione del Pil, e abbattere considerevolmente anche gli oneri al servizio del debito. Alla luce di quanto sopra, cerchiamo di capire in che modo potrebbero essere tassate queste ricchezze e le difficoltà che potrebbero riscontrarsi nellapplicazione di una imposta patrimoniale (ordinaria o straordinaria) da parte dello stato. Per fare ciò, occorre procedere alla scomposizione della ricchezza. Abbiamo detto che le attività reali costituiscono circa 6000 miliardi di euro, e queste sono costituite da La parte prevalente della ricchezza è costituita da abitazioni, già ampiamente tassata con lIMU o con altre imposte minori (ma non marginali). Gli oggetti di valore, essendo per lo più costituiti da beni non registrati (preziosi, oggetti di antiquariato, darte e da collezione) sfuggono dalla possibilità di poter essere tassati per il semplice fatto che, il fisco, non potrà mai tassare ciò di cui non ne conosce la collocazione e quindi la proprietà. I fabbricati non residenziali e i terreni, sono anchessi già tassati. Mentre gli impianti e i macchinari, attrezzature e avviamenti, rientrando prevalentemente nelle disponibilità delle imprese per lesercizio delle proprie attività, non potrebbero essere tassati, poiché ciò graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile, con picchi del 70/75% o forse più. Quindi, la parte di ricchezza effettivamente tassabile e che desta lattenzione da parte del fisco è costituita dai 5 miliardi delle abitazioni. Va precisato che tale ricchezza, essendo astratta e non liquida, mal si presta ad essere tassata con unimposizione patrimoniale straordinaria per il semplice fatto che, per il contribuente, possedere un patrimonio immobiliare (anche rilevante) non significa possedere di liquidità a sufficienza per poter pagare uneventuale imposizione patrimoniale di carattere straordinario. Senza poi trascurare il fatto che una tassazione di questo genere, magari di qualche punto percentuale, farebbe precipitare anche il valore degli immobili e non è affatto detto possa esistere un mercato capace di assorbire lofferta di immobili che potrebbero essere posti in vendita. Anzi, stando lattuale crisi economica, sembrerebbe proprio il contrario. Tuttavia, il rischio è quello che lo Stato possa intervenire su questa tipologia di ricchezza inasprendo il prelievo fiscale già esistente, magari rivalutando le rendite catastali o, molto più semplicemente, aumentando la percentuale di prelievo ai fini IMU, rendendo il prelievo strutturale, ossia ripetuto negli anni. Ma è evidente che questo avrebbe delle controindicazioni poiché rischierebbe di produrre effetti fortemente recessivi, stante la diminuzione del reddito disponibile delle famiglie per effetto della crisi. Quindi, per tali asset di ricchezza, appare del tutto limitata la possibilità, da parte dello stato, di ottenere un gettito superiore a quello ad oggi prodotto. Anche se, a parer di chi scrive, si ravvisa lopportunità di riformare le caratteristiche del prelievo IMU, riducendo o azzerando il prelievo sulle prime abitazioni, offrendo maggior progressività allimposizione in ragione del valore del patrimonio immobiliare del contribuente, e scorporando dai valori imponibili le eventuali passività gravanti sulle proprietà immobiliari (mutui). Tuttavia, rilevata limpossibilità di poter ottenere un gettito straordinario dalla ricchezza immobiliare, giova ricordare la bizzarra e fantasiosa imposta patrimoniale ipotizzata nell’estate del 2011 dall’ex Ragioniere Generale dello Stato Andrea Monorchio. Secondo quest’ultimo, in Italia, sarebbe auspicabile introdurre un imposta patrimoniale che consenta di garantire con beni reali il debito pubblico Italia. In altre parole e semplificando, si tratterebbe di introdurre un ipoteca forzosa sul patrimonio immobiliare insistente in Italia, e garantire le emissioni di particolari titoli di stato, con dei beni reali e quindi facilmente escutibili in caso di insolvenza da parte dello Stato. Da segnalare che, secondo l’idea di Monorchio, questi titoli sarebbero dovuti essere sottoscritti dalla BCE, in contrasto con tutti i trattati europei che vietano la monetizzazione del debito da parte della banca centrale. Niente male come idea, se non fosse che neanche un Paese bolscevico sarebbe capace di arrivare a tanto. Veniamo, ora, alla ricchezza finanziaria quantificata in 3541 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe essere interessata da uneventuale imposizione patrimoniale. Molta materia imponibile da colpire con unimposta patrimoniale feroce, si direbbe! Ma le cose non stanno esattamente in in questi termini, vediamo perché. Prima di tutto occorre scomputare il denaro contante: tassare il contante, fino a quando questo rimane tale, è un esercizio impossibile da praticare. Non deve sorprendere, infatti, che buona parte del mondo politico, sarebbe favorevole ad una progressiva abolizione del denaro contante. Ciò perché, per obbligo normativo, questo, verrebbe depositato in banca e quindi diverrebbe individuabile da parte del fisco, facendo emergere materia imponibile da colpire, più o meno ferocemente. Ma di questo abbiamo reiteratamente parlato in questo sito e ulteriori dettagli potete trovarli QUI, QUI E QUI. Esistono inoltre altre categorie di attività che, sebbene parzialmente note al fisco, tassarle con unimposizione patrimoniale, risulterebbe abbastanza difficile e soprattutto rischierebbe di fare più danni che altro. E il caso, ad esempio, dei crediti commerciali. Tassare un credito vantato da unazienda, benché tecnicamente possibile -obbligando ogni impresa a rendere noti al fisco i rispettivi crediti commerciali attraverso apposita comunicazione- appare non ortodosso, oltreché distruttivo. E poi, è evidente che al credito di unazienda, corrisponda un debito di unaltra azienda. Siccome sarebbe ragionevole attendersi che il credito possa essere scomputato dal debito, alla fine, la base imponibile sarebbe comunque limitata e uneventuale imposizione patrimoniale, anche in questo caso, graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile, con picchi del 70/75% o forse più. Discorso del tutto simile può essere osservato per le riserve assicurative. Anche queste potrebbero essere tassate, ma non senza difficoltà, contraddizioni, e non senza arrecare più danni che guadagni. L’applicazione di una imposta patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto indifferente di risparmiatori hanno riposto le speranze per ottenere l’integrazione pensionistica, al fine di integrare (o sostituire) la pensione erogata dai vari enti previdenziali. Sotto questo punto di vista, le scelte del governo volte all’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di welfare e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10/15 anni, o forse più. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative, capaci di integrare i flussi finanziari del risparmiatore in età pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle prestazioni garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da poco, direi Anche la ricchezza riconducibile alle partecipazioni in società di capitali non quotate (circa 420 miliardi di euro) o alle partecipazioni in società o quasi società (circa 205 miliardi di euro) è di difficile imposizione poiché, essendo questa una ricchezza riconducibile essenzialmente a partecipazioni in piccole società che non hanno una valutazione di mercato giornaliera (come invece avviene per le società quotate), oltre ad essere del tutto astratta, occorrerebbe definire un criterio attendibile di valutazione della partecipazione. Benché sia possibile effettuarlo per via amministrativa, il rischio è proprio quello di subire una valorizzazione arbitraria da parte dello Stato attraverso delle procedure che possano valorizzare determinati asset non in maniera pertinente. In sostanza, è un po’ come oggi avviene con gli studi di settore per la quantificazione dei redditi di impresa. E in anche in questo caso l’esperienza ci conferma quanto possano risultare arbitrarie e non pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste comporterebbero anche unulteriore abbattimento della competitività della imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione di redditività patita con l’imposta applicata, attraverso un aumento di prezzi che le renderebbero ancor meno competitive, e aggravando una situazione già di per se critica. Per il ragionamento sopra esposto, quindi, escludendo le componenti sopra descritte, la ricchezza che rimarrebbe rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma liquida, sarebbe circa 2000 miliardi così desunti: A rigor di logica, da questo stock di ricchezza finanziaria così determinata, dovrebbero essere scomputate le passività che ammontano a circa 900 miliardi di euro, restituendo un imponibile tassabile di appena 1100 miliardi di euro. Riducendo la base imponibile da colpire, il pericolo è proprio quello che lazione dello Stato, a parità di gettito atteso, possa concentrarsi su patrimoni molto più piccoli e quindi colpire in maniera indiscriminata anche una platea diffusa di piccoli risparmiatori. Infatti, tenuto conto che i depositi bancari e postali si avvicinano, già di loro, alla soglia dei 1000 miliardi, ciò significa che questi sono distribuiti su tutto luniverso dei risparmiatori italiani, piccoli compresi. Anzi, soprattutto piccoli; poiché è ragionevole attendersi che i grandi patrimoni (anche liquidi), con ogni probabilità, siano stati già collocati in sicurezza fuori dal perimetro nazionale. Senza considerare poi che, in Italia , vige (forse) un sistema di garanzia dei depositi di conto corrente fino a 100 mila euro, che dovrebbe quantomeno escludere prelievi straordinari fino a tali somme, riducendo ulteriormente la base imponibile da colpire. Ma su questo, personalmente, nutro qualche dubbio e comunque, dipende dagli obbiettivi di gettito prefissati dallo stato, e soprattutto dallo stato di bisogno. Pensare che con unimposizione patrimoniale straordinaria possa ottenersi un gettito di 400/500 miliardi di euro come quanto auspicato da autorevoli commentatori, appare del tutto irrealistico, oltreché destabilizzante per uno stato di diritto, ove la proprietà privata e la tutela del risparmio è anche garantita costituzionalmente. Ma ciò non toglie che questo patrimonio possa essere comunque esposto al rischio di qualche forma di imposizione patrimoniale o, peggio, confisca. Gli investimenti finanziari (ossia in titoli di stato, fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano ad essere colpiti con maggiore attitudine rispetto ad altre tipologie di asset. Ma anche in questo caso, l’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad esempio, ad un pacchetto di azioni detenute da un risparmiatore, supponiamo per 100.000 euro, e che vengano colpite da un imposta straordinaria di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non dovesse disporre di liquidità sufficiente per provvedere al pagamento dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare parte del proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo, se effettuato su scala rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato. Si pensi, ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su un titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato poiché, oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento del proprio portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli. Questo appare tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre, ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi esenti da imposta), che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti azionari a buon mercato per effetto della depressione dei prezzi causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente. le conseguenze nefaste non si esaurirebbero con le casistiche appena descritte, ma andrebbe ben oltre. Discorso analogo potrebbe essere effettuato per le obbligazioni societarie (soprattutto bancarie) o con i titoli distato . Ma, in quest’ultimo caso, occorre effettuare qualche ulteriore ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di stato, essendo un debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio attraverso l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di Stato nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo caso, laddove non si dispongano di risorse necessarie per poter corrispondere l’imposizione tributaria, lo Stato potrebbe effettuare una compensazione tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il proprio debito (titolo di stato), diminuendone o azzerandone gli interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da una patrimoniale. Concludendo, le classi di attività che si prestano ad essere colpite con maggior attitudine, anche con imposizioni feroci, sono proprio quelle liquide (ad esempio depositi bancari, di conto corrente, o postali), poiché aggredire tali patrimoni costituisce, per lo stato, garanzia sulla celerità e sul buon esito della pretesa tributaria. In tal senso, anche quelle attività in cui lo stato risulta essere debitore (titoli di stato) si prestano con particolare attitudine a soddisfare le proprie esigenze, in quanto, lo stato, potrebbe agevolmente compensare la sua posizione debitoria con il credito emerso per effetto dellimposizione fiscale. Analogo discorso può essere osservato per le obbligazioni bancarie, le quali, anche per via normativa, potrebbero essere sottoposte ad un haircut al fine di obbligare il risparmiatore (investitore) a contribuire al salvataggio di qualche banca di medie grandi dimensioni che potrebbe trovarsi in stato di difficoltà. Cipro insegna. ESTERI FOGLIO di Carlo Panella dal titolo Cosa vuole davvero lIran. Dal CORRIERE della SERA, di Ian Bremmer Un accordo sul nucleare in Iran preoccupa i sauditi più che Israele . Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. Su questo punto, come si è detto, i tedeschi dei Sudeti avevano ragione, perché i cechi e gli slovacchi li trattavano come cittadini di seconda categoria e il loro irredentismo pangermanico era giustificato. Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare. Se così fosse, nulla quaestio, si tratta soltanto di discutere dei risultati – in questo ristretto ambito – che avrà la futura road map.Un passo indispensabile Così non è. La posta in gioco, la sfida che la Repubblica islamica d’Iran lancia al mondo non è soltanto il riconoscimento del suo ruolo geopolitico quale potenza regionale e del suo diritto al nucleare civile. Questo indubbio obiettivo è infatti per la leadership iraniana – pasdaran in primis – un passo indispensabile per perseguire la strategia che è propria di ogni verbo rivoluzionario: esportare la rivoluzione sciita in tutta la umma musulmana, eliminare l’entità sionista e porre fine all’usurpazione della custodia dei luoghi santi dell’islam da parte della dinastia saudita (da qui, l’inedito asse tra Gerusalemme e Riad contro gli Stati Uniti guidati da Barack Obama). Questo è l’immenso “non detto” che unisce a Teheran riformisti e oltranzisti che i 5+1 ignorano e che invece Israele coglie con disperata convinzione A Ginevra è in gioco molto altro rispetto al futuro del nucleare civile iraniano, così come a Monaco era in gioco il contrasto a una strategia hitleriana, che ben poco aveva a che fare con il destino dei Sudeti. Questo “altro” era – ed è – semplicemente la vocazione apocalittica e utopistica, militarmente aggressiva, allora di Hitler, oggi, in termini assolutamente differenti, ma non meno pericolosi, della leadership iraniana. L’uno e l’altro uniti peraltro – tra le immense diversità storiche e ideologiche – da un inquietante tratto comune: un feroce antisemitismo. Questo antisemitismo è premessa della “costruzione dell’uomo nuovo”, centro dell’aspirazione utopica e apocalittica del nazismo, così come lo è oggi – ripetiamo, con ben altre componenti, radici e caratteristiche – degli ayatollah e dei pasdaran khomeinisti. Il parallelo tra il 1938 e oggi è dunque legittimo, perché allora come oggi si cerca, e si trova, un accordo su un nodo geopolitico, senza rendersi conto che gli interlocutori lo collocano invece all’interno di una loro strategia che deborda, che va oltre, che è apocalittica, oltranzista, eversiva e aggressiva. Su questo terreno, sulla vocazione apocalittica, sull’utopia, ovviamente non si può trovare una mediazione. Si può però commettere un errore disastroso: avere gli occhi chiusi, non saper interpretare il progetto storico apocalittico ed eversivo dell’avversario (Shoah inclusa, i cui termini furono peraltro sempre incompresi e quindi ignorati dagli angloamericani sino al 1945) e pensare che esso si fermi, si arresti, nella cornice definita dall’accordo geopolitico. Questo fu l’errore di Chamberlain, condiviso da un’ampia e composita platea di leader e opinioni pubbliche mondiali di cui facevano parte Joseph Kennedy, padre di JFK, allora ambasciatore americano a Londra, e quell’establishment inglese ben incarnato da lord Darlington, nella perfetta ricostruzione storica del film “Quel che resta del giorno”. Quell’errore si proiettò ben oltre il 1938 e fu la causa della drôle de guerre 1939-’40, come del patto Molotov- Ribbentrop. Dopo il 3 giugno 1939, dichiarata guerra alla Germania dopo l’invasione nazista della Polonia, i governi e gli stati maggiori di Inghilterra e Francia si attestarono a inerme difesa della linea Maginot, senza combattere, senza attaccare le truppe naziste, lasciando che Hitler occupasse anche la Norvegia, perché ritenevano di dover permettere che il Führer aumentasse il ruolo di potenza regionale della Germania. Stalin stesso agiva in una logica “à la Monaco” e pensava infatti che la spartizione della Polonia avrebbe contribuito a definire un nuovo, complesso gioco di equilibri tra le potenze europee. Una nuova Vestfalia, appunto. Non fu così. Tra il disonore e la guerra Allora, nei giorni di Monaco, Winston Churchill – e lui soltanto – aveva compreso il progetto apocalittico di Hitler e lo aveva enucleato da par suo in poche parole: “Francia e Inghilterra potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. E avranno la guerra”. Così sarà con l’Iran nucleare, con solo il vantaggio – solo a favore dell’Iran, sollevato dalle sanzioni in una hudna, tregua temporanea, che persegue con intelligenza – dell’intervallo di qualche anno e non di qualche mese da qui alla bomba di cui potranno disporre i pasdaran nella loro nuova strategia che mira a utilizzare la deterrenza nucleare per esportare la rivoluzione sciita. Già in Siria, con Bashar el Assad alleato dell’Iran, il presidente americano Barack Obama, l’Europa e le Nazioni Unite hanno appena scelto il disonore. E hanno la guerra. CORRIERE della SERA - Ian Bremmer : Un accordo sul nucleare in Iran preoccupa i sauditi più che Israele Ogni volta che l’Iran e il suo programma nucleare fanno notizia, emerge di nuovo la questione della vulnerabilità di Israele. Gli israeliani hanno molto di cui preoccuparsi in questi giorni. L’accordo ad interim sull’Iran lascia intravedere la possibilità di un trattato finale, che potrà alleggerire le sanzioni e far arrivare a Teheran un po’ più di soldi da spendere per gli aiuti ad Hamas e agli Hezbollah. Oggi la Siria ospita sia militanti islamici ben equipaggiati sia un regime rabbioso, che ha cominciato a riaffermare il suo controllo in zone chiave del Paese. Negli ultimi anni la Turchia si è allontanata da Israele e l’Egitto, ovviamente, è diventato molto più imprevedibile. Siamo comunque sinceri: se potesse essere raggiunto nei prossimi mesi, un accordo definitivo sul programma nucleare iraniano rappresenterebbe un passo molto importante per il Medio Oriente e per il mondo intero. Solleverebbe dal popolo iraniano il carico opprimente delle sanzioni. Permetterebbe a un nuovo presidente dell’Iran di provare a delineare un percorso nuovo. Toglierebbe forza a quella minaccia che molti funzionari israeliani continuano a definire «esistenziale». Ridurrebbe drasticamente il rischio di una proliferazione del nucleare nella regione più esplosiva del mondo. Fornirebbe all’amministrazione Obama e ai leader europei una vittoria in politica estera di cui hanno estremamente bisogno e servirebbe ad allontanare il rischio dell’ennesima guerra che nessuno può permettersi. Eppure, malgrado le possibilità offerte da una notizia così positiva, alcuni vicini dell’Iran temono che la riduzione delle sanzioni non farà altro che lasciarlo libero di creare ancora più problemi, ancora più difficili da combattere. E il Paese più preoccupato non è Israele ma l’Arabia Saudita. Dopotutto, Israele ha già sia un proprio sistema di difesa anti-nucleare, sia le migliori armi convenzionali e il miglior addestramento militare di tutti i Paesi del Medio Oriente. Così come nel caso di Israele, la sicurezza dell’Arabia Saudita dipende dal sostegno statunitense, ma Israele può contare su un rapporto più affidabile con la superpotenza militare rispetto ai sauditi. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita non condividono dei valori politici come fanno gli americani e gli israeliani. In Israele, la democrazia pluralista è uno stile di vita. Per i sauditi, che hanno sotto gli occhi da una parte l’Egitto e dall’altra l’Iraq, la democrazia pluralista è l’incubo più grande. Gli americani e i sauditi, invece, condividono gli stessi interessi. Prima di tutto, quello, comune ai due governi, di contenere l’Iran. Una posizione che è ora al centro dei dibattiti di Riad, dove Washington viene visto come un alleato tutt’altro che affidabile, dopo il voltafaccia dell’amministrazione Obama sulla Siria e sulle armi chimiche del regime di Assad, e dove le azioni per portare in una nuova direzione i rapporti di Europa e Stati Uniti con l’Iran hanno gettato i principi sauditi nel panico. In secondo luogo, le relazioni tra Usa e Arabia Saudita sono legate — e lo sono da molti decenni — al settore petrolifero. Ma, come sanno bene i sauditi, negli ultimi anni la crescita della produzione di energia negli Usa, grazie alle riserve nazionali di gas e petrolio rese accessibili dalle nuove tecniche di perforazione orizzontale e di fracking , ha reso l’America molto meno dipendente dal petrolio che non viene dall’emisfero occidentale. E se Washington non ha più tanto bisogno del petrolio saudita e vuole instaurare legami più saldi con Teheran, allora è facile che diventi un partner molto meno prevedibile per il regno saudita, che deve già affrontare molti problemi interni che non si risolveranno a breve. Gli Usa compreranno ancora il petrolio dei sauditi nei prossimi anni, e Washington venderà ancora le sue armi all’Arabia Saudita. Ma le Primavere Arabe e gli eventi a cui hanno dato vita hanno dimostrato ai reali sauditi che fanno bene a chiedersi cosa succederà se in futuro un presidente americano sarà costretto a scegliere tra i vecchi amici di Riad e un possibile movimento democratico saudita. Se un giorno i disordini toccheranno l’Arabia Saudita, come è già successo in Tunisia, in Egitto e in Libia, i reali potranno contare sull’appoggio di Washington? Anche dopo che la Casa Bianca ha difeso in Egitto le elezioni che hanno dato vita a un governo dei Fratelli Musulmani e che ha condannato le azioni dell’esercito egiziano — che da tempo riceve il sostegno economico degli Usa — per rimuovere Mohammad Morsi? Per i sauditi questa non rappresenta soltanto un’ipotesi lontana. Basti ricordare che il Bahrein ha già affrontato molte ondate di proteste. Il Bahrein è una monarchia sunnita sostenuta dai sauditi, che governa una maggioranza sciita insofferente, e che è separata dal territorio dell’Arabia Saudita dal ponte «Re Fahd», lungo solo 25 chilometri. Durante le manifestazioni più violente della Primavera Araba in Bahrein, ad attraversare il viadotto per riportare l’ordine sono state proprio le truppe saudite. E ogni volta che gli sciiti creano disordini in Bahrein, i sauditi sospettano che dietro ci sia lo zampino dell’Iran. È l’Arabia Saudita che si sta davvero contendendo con l’Iran l’influenza in Medio Oriente. Questo spiega perché i sauditi sono quelli che rischiano di perdere di più da un qualsiasi alleggerimento delle sanzioni in Iran, da una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente o da una qualsiasi svolta sul nucleare che dia all’Iran la garanzia di una sicurezza definitiva. I sauditi hanno beneficiato di un Iran economicamente debole, e non sono disposti a perdere quel vantaggio. ** Ian Bremmer: analista americano di politica estera AFORISMIASSIOMI La Democrazia esiste laddove non cè nessuno così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi. (Jean-Jacques Rousseau)
Posted on: Tue, 03 Dec 2013 18:45:58 +0000

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