Riflessioni per un fine settimana Uno, nessuno, centomila. - TopicsExpress



          

Riflessioni per un fine settimana Uno, nessuno, centomila. Poliedrico e plurale. Unico e multiplo. È il professor Massimo Cacciari, anzi i professori Cacciari. Il tre volte sindaco della Serenissima ha tante (forse troppe) identità, funzio...ni, mestieri. Da qui una certa confusione nei suoi antichi elettori e simpatizzanti. Certo, l’autore di Metropolis, Krisis e Dallo Steinhof o di Geofilosofia dell’Europa — opere dense, importanti — è non un solo uno studioso di filosofia prestato alla politica. È molto e tanto (forse troppo) di più. Insomma, non un uomo ma un torpedone di personalità e ambizioni. Questo è il verdetto (o la diagnosi?) che Raffaele Liucci, impertinente storico veneziano, ha vergato nel suo corrosivo pamphlet dedicato a “Il politico della domenica” (Stampa Alternativa, ppgg.47, 1 euro) , ovvero al “Cacciarissimo”. Con perfidia mista a levità — Venezia è ancora la città di Goldoni e Gozzi —, Liucci massacra l’antico doge. Senza sconti ma (va detto) senza malignità inutili. Non ha caso l’autore premette: «Escluderemmo senz’altro che Cacciari possa essere stato un politico corrotto. Per una persona talmente innamorata di sé da credersi una divinità greca il denaro è un bene troppo vile e plebeo…». Ma dopo la carezza (o il benevolo scapellotto) seguono pagine al cianuro. Per esempio: «spiace dirlo ma ormai Cacciari è diventato un tuttologo sfibrante, una sorta di Sgarbi del post-berlusconismo, senza per altro possedere le virtù istrioniche del critico d’arte. L’Espresso dedica un’inchiesta alla crisi della democrazia? Ecco il democratico Cacciari che fa il punto sull’argomento. C’è un congresso sulle trasformazioni della famiglia? Ecco il sociologo Cacciari (scapolo e senza figliolanza, a suo merito) chiamato a tenervi una prolusione. V’è da celebrare il quarantennale del Sessantotto? Ecco il reduce Cacciari che non rinuncia a dire la sua (forse memore di quando si alzava all’alba, insieme a Toni Negri, per recarsi in fabbrica a spiegare agli operai le pagine del Capitale). C’è da rivitalizzare il Premio Campiello? Ecco il critico letterario Cacciari… C’è da confezionare un servizio televisivo sulla prima tappa del Giro d’Italia? Ecco il cicloamatore Cacciari che si fa strada fra i cameramen per un’intervista esclusiva…». Un elenco puntuale e crudele a cui seguono note altrettanto crudeli sul Cacciari storico (“il nuovo Erodoto”), il Cacciari rubacuori (ricordate la signora Veronica Lario?) e sul Cacciari ateo ma amico e sodale del defunto Don Verzè (pace all’anima sua). Il meglio della polemica Liucci la riserva però alla triplice esperienza dogale del nostro plurimo personaggio. «La prima elezione a sindaco di Cacciari, nel lontano 1993 – ammette Liucci – suscitò in città enormi speranze. Ma il bilancio della sua discesa in campo è stato assai deludente. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: Venezia non è più una città in declino, ma una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo, simboleggiato dalle gigantesche navi da crociera che solcano il delicatissimo canale e la Giudecca e proseguono il loro viaggio costeggiando Piazza San Marco e rilasciando nell’aria l’equivalente di 14.000 veicoli al giorno». Se si dovesse scegliere un luogo-simbolo del disastro perpetrato dal Cacciari amministratore, bisognerebbe indicare il Lido: «Se Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia, potesse un giorno non remoto risorgere e far ritorno al Lido, si sparerebbe un colpo di pistola alla tempia. Annichilito non da un efebico biondino polacco, ma dal paesaggio sanguinante». Perché «per reperire i fondi necessari alla costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, il Comune – allora retto da Cacciari e con l’attivo coinvolgimento dell’assessore al Patrimonio, Mara Rumiz – ha ceduto agli immobiliaristi spiagge, parchi, forti, antichi edifici: tutti beni, sulla carta, super tutelati». Un disastro, ma l’unico. Ecco l’incredibile vicenda del Ponte di Calatrava, sul Canal Grande: che «secondo Cacciari, avrebbe dovuto “far concorrenza a Trinità dei Monti”, e invece s’è rivelato un ponte maledetto, di debolissima “costituzione“. Realizzato talmente male (problemi di statica, un’ovovia mai partita, scivolosissimi gradini di vetro all’origine di numerosi infortuni, per i quali sono già state aperte una quarantina di cause per danni) che persino l’architetto spagnolo ne ha poi preso le distanze (lo stesso era accaduto con i progettisti del Palazzo del Cinema, che non avevano mai pianificato la distruzione di una bellissima pineta, per la cui salvezza s’erano invano mobilitati anche gli attori di Hollywood). Non basta. Il “quarto ponte sul Canal Grande” ha registrato pure un vertiginoso lievitare dei costi, pare dell’ottanta per cento. Tanto che, è notizia di questi ultimi mesi, sono stati citati in giudizio per danno erariale (quasi 4 milioni di euro), lo stesso Santiago Calatrava e tre ingegneri, responsabili del procedimento o direttori dei lavori. Ma il procuratore regionale della Corte dei Conti, Carmine Scarano, ha criticato pesantemente anche l’ex sindaco Cacciari, che avrebbe cercato di “nascondere [...] una serie incredibile di errori gravi commessi dalla stessa amministrazione a partire dalla fase progettuale”». E ancora, Liucci non perdona al suo antico idolo la supponenza e ripesca nella chiusa una vecchia intervista in cui il filosofo- sindaco (o il sindaco-filosofo, chissà?) descrive il suo rapporto con gli amministrati: «La cosiddetta società civile ti invade ogni giorno l’ufficio perché ha la prostituta nel viale, o il casino nel bar sotto casa, o il mendicante o la strada dissestata… Un esercito di infanti incapaci di arrangiarsi… E io rispondevo: va bene, ti faccio l’ordinanza, così smetti di rompermi le palle». Ma il “politico della domenica” non è soltanto un acuminato pamphelt sulle vicende e le insufficienze di un protagonista — controverso e discutibile ma d’indubbio spessore — della scena culturale e politica italiana. È anche l’occasione per gli orfani del PCI e dintorni per regolare i conti con l’effervescente e mai sopportato professore. Insomma, una questione di famiglia… Come annotava callidamente Sergio Luzzato sul domenicale de “Il Sole 24 ore” del 28 luglio, «Cacciari interessa a Liucci quale prototipo di una piccola corte di intellettuali (i Toni Negri, gli Asor Rosa, i Tronti) salpati assieme come “operaisti” e variamente naufragati, ciascuno per proprio conto, sugli scogli delle loro pseudo rivoluzioni fallite. A Liucci interessa la “forma mentis” volubile e capricciosa di tali “banderuole esposte ai quattro venti” che hanno trovato nella politica una valvola di sfogo ideale per il loro ego ipertrofico». Un’accusa in parte fondata ma in cui ritroviamo — conoscendo i lavori di Luzzato e i suoi percorsi — sapori velenosi, atmosfere subdole. Utilizzando i vecchi arnesi del togliattismo, sul quotidiano di Confindustria Luzzato trasforma una saporita “baruffa chiozzotta” — la diatriaba Liucci-Cacciari — in una micro scomunica, in una condanna senza appello verso il “deviazionista” di ieri e il narciso di oggi. Ma, al di là dei piccoli rancori interni trasversali ai resti della sinistra italiana, vi è però altro. Ben più importante e drammatico. Venezia e il suo destino. La parabola dell’ex sindaco è significativa, paradigmatica non soltanto del declino di una città complessa — e meravigliosamente inattuale — ma del suicidio di un frammento di civiltà. Le navi da crociera — veri e propri mostri naviganti — che minacciano ogni giorno i fragilissimi equilibri della laguna, la massa orripilante di turisti ciabattanti che invadono le calli e sconciano San Marco, gli sfortunati che si fanno rapinare negli orridi baretti che hanno occupato ogni spazio utile nel circuito turistico, sono solo la conseguenza ultima di un lungo e penoso processo d’autodistruzione — si leggano a proposito gli studi di Alvise Zorzi, il grande storico della Serenissima — avviato e voluto dagli stessi veneziani dall’indomani stesso — il 12 maggio 1797 — dell’autoliquidazione sociale e politica del gruppo patrizio che travolse e cancellò la Repubblica marciana. Con buona pace del simpatico Liucci, le “follie” e i limiti di Cacciari poco contano davanti all’evaporazione delle classi dirigenti veneziane, alla loro inconsistenza. A parte l’eccezione di Volpi e Cini e, più tardi, Ligabue — altri tempi, altre culture, altri uomini —, il ceto imprenditoriale lagunare ha preferito migrare sulla terra ferma e abbandonare Venezia alle speculazioni dei piccoli e grandi signori del turismo: albergatori e gondolieri, baristi e immobiliaristi, affittacamere e ambulanti, abusivi ed extracomunitari, delinquenti locali e croupier. Lo stesso carnevale si è trasformato in un carceriere severo che, dagli anni Ottanta in poi, imprigiona la città nell’ingombrante cadavere di questa festa triste. Una festa tenuta in vita con il polmone artificiale, per le frotte di foresti” che calano puntuali su città, paghi dell’”autentica” venezianità che li circonda e del travestitismo indotto o scrutato, in mezzo alla musica assordante. Le calli e i campi si riempiono e i veneziani lungi dall’unirsi alla “contaminatio” festaiola ad uso esterno 8ogni anno affidata ad apprendisti stregoni diversi), ogni anno fuggono nel tentativo di evitare la marea montante. Fatica vana, perché la città — la cosiddetta “società civile” locale disprezzata (con qualche ragione, ammettiamolo…) da Cacciari — si ciba comunque delle spoglie di questo turismo di passo, fino a sopportarne l’invadenza, salvo poi a lamentarsene a posteriori. A bombardare Venezia non vi sono più i cannoni austriaci, ma l’avidità e la superficialità di molti (troppi) veneziani. Oggi più che mai suona attuale, vera la poesia di Arnaldo Fusinato, “illustre martire, tu sei perduta… sul ponte sventola bandiera bianca”. ( By Marco VALLLE ) .
Posted on: Sat, 31 Aug 2013 08:00:11 +0000

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