«Vent’anni dopo... ecco la mia verità Il mio Hellas Verona fu - TopicsExpress



          

«Vent’anni dopo... ecco la mia verità Il mio Hellas Verona fu fatto fallire» Parla l’ex presidente del Verona nella stagione 1990/91 che ora vive in Thailandia. Emil Mirzakhanian: «Non vi dico le pressioni che ho subito Il calcio è sporco. E il Verona fu fatto fallire». Emil Mirzakhanian vive in Thailandia dal 2004: «Mi occupo di pellami: borse, scarpe, accessori di alta qualità, realizzati con la lavorazione del coccodrillo. Ho lasciato l’Italia perché nel mio settore, il mercato del lusso, i margini si erano fatti sempre più ristretti, dopo che avevo servito famiglie storiche come i Romiti, gli Agnelli, i De’ Longhi. Sono sposato, risiedo a Bangkok e ho due gemellini di sette anni, che, se glielo racconto, non credono che io sia stato il presidente di una squadra di calcio». Presidente, già. L’ultimo dell’Hellas Verona prima del crac del 1991, Mirzakhanian. Origini armene, educazione americana. La voce, al telefono, è morbida, flautata, ma i giudizi su quel che avvenne all’epoca suonano taglienti. Il quadro che emerge disegna i tratti di un periodo controverso e drammatico della storia gialloblù. Signor Mirzakhanian, come entrò nel Verona? «Fu tramite mio cugino Norik Amirkhanian, che era mio socio. Per delle questioni private, relative a una compravendita di automobili, si era rivolto a un legale, l’avvocato Angelo Di Palermo. Il quale, un giorno, ci fece una proposta: mettere del danaro in un club di calcio. Trecento milioni a testa». Accettaste subito? «Contestualizziamo: stavamo uscendo dagli anni ’80, c’era stato il craxismo, e poi la Milano da bere, gli yuppies, e tutti che pensavano di diventare ricchi. I soldi scoppiavano fuori dalle tasche, la crisi non era neanche una parola sul vocabolario. E io, in più, ero appassionato di calcio. Di Palermo ci mise in contatto con Paolo Roberto Uzzo, l’uomo d’affari che gestiva la cosa e ci accordammo». Uzzo che impressione le fece? «Un guascone, persona divertente, ma inaffidabile, e con la fedina penale non linda, e il mio è un eufemismo. Quando entrai nel Verona non la smetteva di chiedermi quattrini. Mi svegliavo la mattina emi chiamava, domandandomi milioni di lire per questo o quell’indecifrabile motivo. Io non gli davo nulla, chiaramente: avevo fiutato l’aria». Uzzo era il referente della Invest, la finanziaria che rilevò l’Hellas nell’estate del 1990. Come andarono le cose? «Ferdinando Chiampan, un gentiluomo d’altri tempi, mentre lo stesso non posso dire del suo vice, Eraldo Polato, che non mi piacque, aveva contratto grossi debiti con la Invest e con altre realtà controllate da Uzzo. Ad un certo punto si è trovato impossibilitato a rientrare e ha ceduto il Verona». Con lei nella stanza dei bottoni… «In principio il presidente lo fece Di Palermo, che poi mollò per ragioni lavorative. Uzzo non poteva assumere la carica, visti i precedenti che gravavano su di lui. Luciano Nizzola, che era a capo della Lega Calcio, con cui avevo instaurato un buon rapporto e che mi era stato presentato da Francesco Colucci, presidente della Confcommercio di Milano, chiese a me di prendere quell’impegno. Diedi il mio assenso, ma con la garanzia di non avere responsabilità dirette». E intanto la squadra giocava… «Avevo seguito per intero il ritiro in Trentino, il campionato andava bene. Eugenio Fascetti, che uomo incredibile! Con lui si sceglievano gli alberghi in base alla cucina. In pochi mesi ho preso cinque chili per le mangiate che facevamo. E i ragazzi della squadra? Meravigliosi». Dettagli, prego... «Sotomayor per il raduno arrivò direttamente dall’Argentina, dov’era inverno, e così, con 40˚ che c’erano a Verona, si presentò con un maglione di lana collo alto. Prytz era un bravissimo golfista. Pellegrini un rubacuori. Pusceddu? Un matto completo, come Gregori, ma di terzini sinistri come lui ce ne sono pochi in circolazione anche adesso. Lunini, che veniva dai dilettanti del Darfo Boario e che aveva sempre vissuto nelle valli bresciane, parlava un italiano dialettale e faticavo a capirlo. E le prime volte in aeroporto andava a sbattere contro le porte scorrevoli, il cui funzionamento, per lui, era evidentemente un mistero. Quanto alle partite, al Bentegodi andavo a vederle in Curva Sud: era meglio stare distanti da chi stava seduto in tribuna vip. Quella decisiva fu in trasferta sul neutro col Perugia, contro la Salernitana: sotto per 2-0, pareggiammo 2-2». Un gruppo vincente... «Le riservo uno scoop: lo sa che Andrea Mandorlini poteva venire a giocare in quel Verona? L’avevo conosciuto, lui come altri calciatori dell’Inter, da Riccardo Ferri ad Andy Brehme, attraverso un amico di Como. Guardavamo le partite in tv insieme. Andrea è sempre stato un ragazzo d’oro, in campo dava l’anima. Soffriva perché, in quell’Inter, c’erano tantissimi campioni, lui non aveva la loro classe e la stampa lo bastonava: non ce la faceva a digerire le critiche. Sono felice che da allenatore abbia fatto grandi risultati a Verona. Cercai di portarlo all’Hellas, ma non c’erano soldi». Gli stessi soldi finirono proprio a inizio 1991… «Le tentai tutte per salvare la società. Volevo recuperare l’investimento mio e di mio cugino. Ma non ci fu verso. Subii delle pressioni dai poteri cittadini: dalla politica, dalla grande imprenditoria locale. E dei "suggerimenti" mi furono recapitati anche da qualche ministro, per farmi intendere che non dovevo impicciarmi oltre. Come pure dalle forze dell’ordine mi furono trasmessi messaggi precisi. Cominciarono frequenti ispezioni della Guardia di Finanza anche sulla mia attività principale, il negozio di tappeti orientali che avevo in via Bagutta, a Milano». E lei cosa fece? «Non c’era la volontà di evitare il fallimento: il Verona doveva andare nelle mani giuste. Ogni mio tentativo di dare spazio a nuovi soci fu bocciato. O per la diffidenza di chi interpellavo, o perché lo stesso Uzzo rilanciava sistematicamente: chiedeva cinquecento milioni, gli prospettavo una possibilità vantaggiosa e lui ne voleva settecento. E se trovavo chi gliene avrebbe potuto dare settecento, domandava un miliardo». Ma i vertici del calcio italiano come si comportarono in quella situazione? «Di Nizzola ho detto, e gli sono sempre stato grato per la premura che ha avuto nei miei riguardi. La Figc, invece, era comandata da Antonio Matarrese, che aveva atteggiamenti minatori. Ma non tanto con il Verona, quanto con tutti i club. Una volta, durante un’udienza plenaria, disse di aver saputo che in molti parlavano male di lui, e che sarebbe stato costretto a comportarsi come un padre con i figli che disobbidiscono, dando loro degli schiaffi. Ero seduto al fianco di Mario Cecchi Gori, appena divenuto presidente della Fiorentina: ci guardammo allibiti e ci ripromettemmo di non mettere più piede in quelle riunioni». Ma il gioco non era pulito? «In quei mesi ho sentito dirigenti - non mi riferisco al Verona - che si accordavano per combinare risultati, che parlavano di 0-0 che non facevano male a nessuno, di partite da far andare in una certa maniera, secondo un copione prestabilito. O altri che facevano girare centinaia di milioni di lire in nero. Qualcuno comparve anche nella nostra sede e quel che mi stupisce è che possa essere ancora nel giro che conta». Lei come ne uscì? «Ero a Los Angeles quando seppi delle indagini in corso sul fallimento del Verona, quando fra gli altri furono arrestati Chiampan e Uzzo, nel 1992. Presi l’aereo e tornai in Italia per andare in procura a rilasciare dichiarazioni spontanee alla magistratura. Parlai con Guido Papalia, titolare dell’inchiesta, accompagnato da Domenico Pulitanò, il mio avvocato. Non ci fu bisogno di molte parole per chiarire la mia posizione, che era limpida. E tutto si chiuse così». LUCA BARBATO REBLOGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGGG
Posted on: Wed, 14 Aug 2013 18:43:11 +0000

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