di Walter Veltroni : Quando cerco di scrivere sul mio IPhone la - TopicsExpress



          

di Walter Veltroni : Quando cerco di scrivere sul mio IPhone la parola “sa”, voce del verbo sapere, il correttore automatico me la corregge sempre, in modo perentorio, in “Sto arrivando”, finanche con corredo di un ansiogeno punto esclamativo. Non capisco perché, visto che a unire le due espressioni è solo la lettera esse, perché questo non avvenga con parole come: sesso, sole, solitudine, scienza, speranza. No, l’IPhone considera intollerabile che un utente digiti quelle due lettere, una esse e una a. Probabilmente, come Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio, non vuole che l’umano, considerato forse un minus habens pur essendo il modello inarrivabile che guida la ricerca dei padri di ogni microchip, sappia le cose del mondo. E infatti non sostituisce a quella parolina un concetto analogo o limitrofo ma forse quello all’apparenza più lontano: e così l’ ”arrivare” prende bruscamente il posto del “sapere”. Gli apocalittici, coloro che vivono nel terrore della scienza e nel rimpianto estatico di un passato che in verità è solo la loro gioventù, potranno vedere in questa sostituzione, chissà se sbagliano, il segno dei tempi. Potranno vedere la inarrestabile prevalenza egemone di una attitudine, quella al movimento in orizzontale frettoloso e ansimante, sulla bellezza lenta del sapere che richiede tempo, che non tollera drastici e intimidatori punti esclamativi. Come se l’IPhone, figlio di Mac e nipote di Apple, ci volesse ammonire, quasi paternalisticamente, sul giusto cammino che abbiamo di fronte a noi. La meta, sembra dirci sfrontato, è il movimento, non la destinazione . Per vivere davvero dobbiamo cioè scegliere la inebriante ebbrezza di un volo veloce, radente, sul pelo dell’acqua, sentendo sul viso la freschezza del grande mare e non la noiosa e perigliosa avventura della discesa sotto la superficie azzurra. Non dobbiamo cercare gli spazi profondi e la meraviglia dei fondali, non la barriera corallina, non il mistero inquietante degli abissi. E neanche il movimento spettacolare dei pesci e i mille colori delle loro squame e delle loro mutazioni. Che scorgeremo, banalizzate dalla luce violenta della superficie, solo quando i pesci saranno, esanimi, sui banconi per essere venduti e per alimentare, con la loro morte, la nostra vita e il nostro bisogno di energia. Noi non dobbiamo sapere, dobbiamo arrivare. Questo possono pensare gli apocalittici, che hanno però solo un parte di ragione. Solo una. Perché mai nessuno, mai, ha sempre ragione, su ogni cosa, in ogni momento. E la bellezza della vita è nel fatto che anche il pensiero è una creazione permanente. Il bambino che nasce con dolore non è differente dalla orchidea che spunta a fatica e questa non è diversa da un pensiero originale che si genera perché frutto attivo delle idee, della meditazione, delle parole dei singoli e del loro scambio. Vita pura, infiniti modelli unici prodotti dall’artigianato del pensiero. Gli apocalittici hanno ragione solo in parte. Solo quando ci ricordano che la profondità del mare è una meraviglia e che dobbiamo stare attenti a dimenticarlo, perché senza quei colori, quella profondità e quel mistero tutti saremmo inevitabilmente più poveri e più tapini. Ma in realtà ha ragione anche l’IPhone. Non nel sostituire il sapere con l’arrivare ma a suggerirci, in fondo si limita discretamente a fare solo questo, di non essere mai tanto stupidi da dimenticare la bellezza e la essenzialità del viaggio. Quando noi contemporanei pensiamo all’altrove lo collochiamo oggi fuori dagli spazi conosciuti, da quella terra di cui padroneggiamo con sicurezza i confini, i contorni, i limiti. Quella terra della quale possiamo predire le condizioni metereologiche, che possiamo osservare dall’alto, quella terra che possiamo fare nostra con il click insistito di un mouse che, sulla mappa del pianeta, ingrandisce un luogo e ci porta proprio lì, fino a vederlo e a girare, come vagabondi, al suo interno. Noi, nella nostra casa, possiamo essere viaggiatori. I nostri confini attivi, non quelli televisivi in fondo decisi da terzi, si sono fatti infiniti. Possiamo vedere i saliscendi delle strade di san Francisco e le foreste dell’Amazzonia, il deserto fiorito di Atacama e la casa, proprio quella, dove abita una ragazza che corteggiammo un’estate al mare, tanti anni fa. Un click e quel proclama,” Sto arrivando!”, si può estendere, avverandosi, ad ogni angolo del mondo. Ma arrivano gli occhi, arrivano su uno schermo, e quando si alzano vedono solo il freddo contesto. Cosa è, dove siamo? Nella nostra stanza di casa, con i libri e le carte in disordine? O in ufficio, con un collega che sta raccontando a voce alta, mentre sbirciamo rapiti i fiori tra le pietre della grande distesa cilena, dell’ultimo modello di Suv che vorrebbe comprare? Il contorno di San Francisco allora non è più il fascino della grande baia, quello dell’Amazzonia non contempla la sensazione inebriante del fresco nel verde profondo. Vediamo, ma non sappiamo. Stiamo arrivando, ma non arriviamo. Perché non è solo la conoscenza superficiale delle cose, divorata frettolosamente, che ci rende felici. No, ci può riuscire solo la massima delle esperienze, quella che unisce ragione e emozione, cuore e cervello. Quella che muta la nostra vita, ci plasma diversi. Insomma, per vivere sereni, forse felici, dobbiamo sapere e dobbiamo arrivare. In fondo anche l’orchidea ha usato nel tempo il suo ancestrale sapere, “ho bisogno di luce per vivere”, per muoversi dalla terra e arrampicarsi sugli alberi. Perché anche i fiori e le piante, con la loro intelligenza, ci dicono che sapere e arrivare sono in definitiva la stessa cosa. Non solo l’uno, non solo l’altro. “L’Internazionale”, uno dei più bei giornali che esistano, ha pubblicato tempo fa la storia di Kent Cochrane, un caso clinico di grande interesse, uno di quelli che avrebbe fatto felice Oliver Sacks. Quest’ uomo, a trent’anni, dopo una adolescenza vissuta a metà tra James Dean e Marlon Brando, ebbe prima un incidente antimoderno, una balla di fieno che gli cadde sulla testa e poi uno da perfetto contemporaneo, con una potente motocicletta. Questi eventi alterarono, nel suo cervello, l’ippocampo, la zona che, con l’amigdala, presiede alla sfera dei ricordi. Ma fu una strana lesione, che rimosse in Kent tutta la sfera emotiva del vissuto. Egli rammentava gli eventi che aveva attraversato nella vita ma non le emozioni che essi avevano provocato. La sua esistenza era diventata così nella sua memoria un puro bollettino di notizie. Scrive Sam Kean, autore dell’articolo, “Il poco che K.C. aveva conservato della sua vita prima dell’incidente sembrava averlo letto in un’arida biografia di se stesso. Sapeva che la famiglia aveva dovuto lasciare la casa in cui era cresciuto perché lì vicino era deragliato un treno che aveva sparso sostanze tossiche e sapeva che un suo fratello, a lui molto caro, era morto due anni prima in un incidente, ma quegli eventi non avevano più alcun rilievo emotivo. Erano solo fatti accaduti”. Ricordare significa riportare al cuore. E dunque Kent rammentava ma non ricordava. E, ciò che era più strano, per uno singolare effetto collaterale della lesione egli non aveva più alcun desiderio di futuro, non riusciva a dire cosa progettasse per ora, domani, tra un anno. Come a sottolineare che solo le emozioni vissute sono capaci di farci venire voglia di conoscerne altre. E dunque ricordarle e risentirle costantemente significa innaffiare la vita. Cioè solo una persona che “sa” può dire con entusiasmo “sto arrivando”, perché quel luogo nuovo in cui andrà, deve o vuole andare, alimenterà il suo sapere e la sua voglia di raccontarlo. Forse anche perché il proprietario di quel dito che cerca di digitare quelle due lettere molto probabilmente non sta obbedendo al desiderio di parlare di sé ma sta raccontando di altri. Mi rendo conto che questo è difficile da capire e persino da contemplare, nel tempo della vita Selfie, quando la parola ”io” sovrasta ogni altra ed è tecnologicamente inimmaginabile che qualcuno, come io stavo ingenuamente facendo la prima volta, stia elogiando il sapere di un altro e non stia annunciando qualcosa di sé. Chissà se i correttori automatici del futuro diranno che parole come “tu” o “noi” sono inesistenti. Solo se so posso avere voglia di arrivare e solo se so capisco che non esiste un luogo in cui si arriva, ma solo milioni in cui ci si ferma, in attesa di ripartire. Perché questo, solo questo, dimostra infallibilmente che siamo ancora vivi o che la vita è ancora dentro di noi. Con il suo soffio che ci dice, fino all’ultimo momento, cerca di sapere, cerca di arrivare. Non fermarti, non morire. Mi ha sempre appassionato la storia della geografia, che potrebbe essere la sorprendente sintesi di questo discorso cominciato con il correttore automatico di un telefono cellulare. Quand’è che l’uomo ha preso coscienza che c’era altro al di là dei suoi occhi? Quando ha cominciato a viaggiare. L’uomo preistorico ha detto a se stesso “Sto arrivando” perché voleva sapere o forse, persino più prosaicamente, voleva solo vivere o sopravvivere. Nel suo libro “Al di là di altrove” la professoressa Ilaria Luzzana Caraci racconta che ”Nel corso della ultima glaciazione , quella wurmiana, iniziata 60.000 anni fa e durata 50.000 anni, l’Homo Sapiens effettuò grandi migrazioni, con ondate successive, verso l’Asia e da qui verso altri continenti”. E i grandi viaggiatori, da Alessandro Magno a Colombo, agli esploratori del Settecento non univano forse in una sola dimensione il viaggio, il sapere, il raccontare? I diari di bordo o le descrizioni delle battaglie hanno aiutato a capire, ad esempio, che il “Nuovo Mondo” era nuovo solo per chi non sapeva che esistesse. E che solo la meraviglia dell’incontro fisico, occhi cervello e cuore, ha in definitiva spostato la linea della conoscenza e della filosofia degli umani. In fondo nulla di meglio, per capire tutto questo, del geniale racconto popolare con il quale Pascarella in “ La scoperta dell’America” racconta, con disincanto, questa emozione: - E quelli? – Quelli? Je successe questa: Che mentre, lì, framezzo ar villutello Cusì arto, p’entrà’ ne la foresta Rompeveno li rami cór cortello. Veddero un fregno buffo, co’ la testa Dipinta come fosse un giocarello, Vestito mezzo ignudo, co’ ‘na cresta Tutta formata de penne d’ucello. Se fermorno. Se fecero coraggio… - Ah quell’omo! je fecero, chi sete? - E, fece, chi ho da esse’? So’ ‘n servaggio. E voiantri quaggiù chi ve ce manna? Eh già, chi ce li aveva “mannati”? Forse, vedete, Apple ha avuto come al solito ragione. Forse “sa” e “ Sto arrivando!” sono sinonimi e noi, stupidi, non ce ne eravamo accorti. “ Ognuno, ma proprio ognuno è il centro del mondo”. Lo è tanto più oggi perché ora può arrivare ovunque, perché è interconnesso, perché un movimento del mouse abbatte molte barriere, doganali e conoscitive, linguistiche e fisiche. Eppure… Dico eppure perché anche gli integrati, quelli che stanno nel presente come fosse un luna park e zuzzerelloni sorridono a tutto, non sempre hanno ragione. Perché questa meraviglia, che oggi fa ti conoscere e domani ti farà possedere occhiali che riprendono ciò che vediamo, automobili senza volanti e pedali, stampanti capaci di costruire case o sfornare gianduiotti; questa epifania delle possibilità non è poi sicuro che ci renda più felici. Pensate al nostro rapporto col tempo. La nostra modernità ha conosciuto molte accelerazioni: quella tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore non di cento ma di trent’anni fa ad arrivare a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere senza doverci muovere da casa. Ma anche l’accelerazione sociale: spariscono mestieri sostituiti dall’automazione e istituzioni come la famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite. Così cresce freneticamente il ritmo della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo la maggiore possibilità di risparmio di tempo di ogni generazione vissuta sulla terra, sentiamo che dobbiamo sempre correre, che dobbiamo sempre fare più cose e farle in meno tempo. Se non ci funziona il wifi o la tastiera del telefono è di un secondo più lenta del normale ci sembra che sia una disfunzione intollerabile e trasliamo questa impazienza in ogni comportamento sociale. Il nostro tempo storico è l’immediato. Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa.. Non siamo disposti ad aspettare, non ci si parli più di progetti o di grandi disegni. Ora, qui, subito. Il sociologo Richard Sennett, lo ricorda Nicole Aubert in un bel saggio sul tempo, “ha sottolineato l’impossibilità di vivere valori a lungo termine- fedeltà, impegno, lealtà-in una società che si interessa solo all’immediatezza e nella quale le esigenze di flessibilità generalizzata impediscono di intrattenere rapporti sociali durevoli e di provare un sentimento di continuità di sé.” Un’altra sociologa ha definito il nostro tempo, vissuto col computer sempre interconnesso, come quello del “Soli, insieme”. Ed ecco allora, che “ Sto arrivando!” assume improvvisamente un altro significato, come se lo leggessimo con un’altra intonazione. Non la rassicurazione eccitata ed emozionata, persino divertita, di chi sta per arrivare con il cuore aperto in un porto nuovo ma la irata e ansiosa confessione di non farcela e la preghiera al destinatario di aspettare, ciò che forse è umanamente meraviglioso ma oggi socialmente inattuale. Non una possibilità, ma una inadeguatezza. Non l’anticipazione, ma il ritardo. Il mio IPhone, e io con lui, siamo legati alla memoria. Se un giorno lui perdesse le informazioni che ho inserito ci smarriremmo insieme. Io ho trasferito là dentro, con assoluta fiducia, un sapere esclusivo, i numeri del telefono che non ho più bisogno di ricordare, gli appunti, la posta, la memoria delle parole che ho scambiato con le persone care. Lui mi tiene in pugno. Se improvvisamente fosse colpito da una forma di Alzheimer tecnologico sarei perduto. Ma non è il nostro problema più generale? Non siamo una generazione di umani il cui cervello viene ogni giorno affollato da migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli di chiunque altro nella storia ma allo stesso tempo ci sottraggono il tempo necessario per razionalizzare, sistematizzare, relativizzare? In Fondo per sapere. “Stiamo sempre arrivando” ma il rischio è quello di smettere di sapere, perché il nostro ippocampo si stanca di tanto cibo e comincia a coltivare progressivamente una specie di anoressia, come un cassetto troppo pieno che comincia a espellere fogli, spesso a caso. Qualcuno ha enumerato i tre sintomi dell’invecchiamento: 1) Non rammentare i nomi 2) Dimenticare di abbottonare la patta dei pantaloni Il terzo non me la ricordo. La memoria è il sapere, individuale e collettivo. Quello che fa sì che, se hai conosciuto Auschwitz, non potrai ma accettare che qualcuno, nella vita e nella storia, si consideri per definizione e identità superiore ad altri. Kent non aveva memoria e per questo non aveva voglia di futuro. Sono il sapere e il viaggiare, il ricordare e lo sperare, l’amare e lo scambiare che fanno la vita meritevole di essere vissuta. Mio nonno era sloveno e fu portato dai nazisti a Via Tasso e torturato insieme a mia nonna, non parlarono. Mio padre morì a 38 anni, dopo aver raccontato agli italiani di Coppi e Bartali, di Valentino Mazzola e dell’alluvione del Polesine. Io non li ho conosciuti, nessuno dei due. La loro vita ha segnato la mia, l’ha fatta, così come è. Io ho memoria di loro, anche se non ho neanche una foto insieme. Io “so” anche se nessuno di loro mi ha mai potuto dire “ Sto arrivando”. E mi dispiace davvero molto che non sia avvenuto. Avrei voluto vivere la meraviglia dell’attesa e l’emozione di andare insieme in qualche luogo. E’ dunque vero che “ognuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo”. Ad una sola condizione, però. Sapere che anche tuo fratello, il tuo vicino, il tuo avversario è il centro del mondo. E cercarli è il solo modo di sapere, viaggiare, arrivare. festivaldelleletterature.it/sapere-e-arrivare-profondita-e-movimento/
Posted on: Mon, 30 Jun 2014 16:29:28 +0000

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