Argentina squilibri nei fondamentali macro e politiche di - TopicsExpress



          

Argentina squilibri nei fondamentali macro e politiche di stabilizzazione L’Argentina costituisce un importante case-study che dà conto di come le dotazioni istituzionali e l’evoluzione politica di un paese ne condizionino profondamente la performance economica. Nel caso dell’Argentina squilibri nei fondamentali macro e politiche di stabilizzazione hanno avuto sullo sfondo ideologia, dittature, colpi di Stato, corruzione, clientelismo. E l’attuale ripresa è veramente tale? Obiettivo del presente studio è analizzare il profondo intreccio verificatosi negli ultimi decenni fra politica ed economia, ed esaminare le caratteristiche dell’attuale ripresa anche alla luce del benchmark teorico rappresentato dal Real Business ycle. Argentina è, con il Cile, il paese più europeo dell’America del Sud. Ricca di risorse minerarie ed agricole e con una popolazione dotata di un buon livello di istruzione, costituisce sul piano economico un paradosso da cui non è ancora riuscita a liberarsi. Ha conosciuto cicli di crescita e di crisi maggiori e più rapidi di qualsiasi altro Stato. Dopo il secondo conflitto mondiale, registrava un reddito pro capite in dollari correnti analogo a quello della Francia. Cinquant’anni dopo non ne raggiungeva un decimo. Allora costituiva il paese-guida dell’America Latina – Messico incluso - e sembrava destinata a condizionarne il futuro. Durante la fase iniziale della guerra fredda, veniva considerata il centro dell’“Occidente di riserva”: ne avrebbe preso il testimone e salvaguardato civiltà e valori, qualora l’Europa e gli Stati Uniti fossero stati distrutti da una guerra nucleare. Oggi il baricentro e il polo di attrazione del continente è divenuto il Brasile. L’Argentina è emarginata dalle grandi trasformazioni geopolitiche e geoeconomiche in atto nell’America del Sud. In primo luogo, a causa dello slittamento del potere dal “popolo delle navi” - cioè dalle popolazioni europee delle coste - a quelle meticce “delle montagne”, in seguito alla valorizzazione delle risorse interne mediante le nuove infrastrutture. Poi, perché la ricchezza si sta progressivamente trasferendo dalle zone temperate del “Cono Sur” a quelle tropicali. Infine, perché il Brasile di Lula da Silva ha assunto una posizione più moderata e collaborativa nei riguardi degli USA rispetto a quella dell’Argentina di Nestor Kirchner. Quest’ultimo - influenzato dal populismo peronista - è portato ad allinearsi con i fautori della cosiddetta “rivoluzione bolivariana”, rappresentati dai presidenti venezuelano Chavez e boliviano Morales. Solo grazie all’aiuto del primo riesce a collocare i propri bonds dopo il default del 2001. In cambio, Kirchner coopera a gran parte dei progetti chauvisti: Telesur, Petrosur, Banco del Sur, ecc., volti soprattutto a contrastare l’attuazione del Project for Americas del Presidente Bush e la creazione di una Zona di Libero Scambio delle Americhe (FTAA), per estensione del NAFTA, che già unisce USA, Messico e Canada e a cui sono associati Cile, Perù e Uraguay. Di conseguenza, oltre che condannarsi all’isolamento, l’Argentina non attira il flusso di IDE che sarebbero necessari per la sua crescita. La scarsa attratività del sistema-paese contribuisce al suo senso di frustrazione nei confronti del Brasile – accusato tra l’altro di non aver sostenuto l’Argentina in occasione della crisi finanziaria. Esso acuisce le tradizionali tensioni esistenti fra i due paesi sin dal secolo XIX, bloccando il decollo del Mercosur, concepito alla sua nascita (1991) come una sorta di Unione Europea, in cui l’intesa argentino-brasiliana avrebbe dovuto giocare un ruolo simile a quello dell’“asse franco-tedesco”, cioè di polo di aggregazione dell’intero continente. Ne avrebbe favorito la modernizzazione, con una politica economica più liberale, e la competitività esterna; infine, l’avrebbe messo in condizioni di trattare in modo più paritario con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea – ed oggi anche con la Cina. Invece, il populismo, il nazionalismo, il protezionismo, gli enormi divari socio-economici, nonché i contrasti con gli Stati Uniti e con le IFI hanno mantenuto frammentato - ed in parte isolato - il continente. L’Argentina ne è stata particolarmente danneggiata. L’Occidente non è privo di responsabilità al riguardo. Ha prevalso la disattenzione, attenuatasi - almeno in parte – solo oggi per la preoccupazione che la crescente presenza cinese in America del Sud suscita a Washington. Gli USA stanno puntando sul Brasile. Ciò accentua l’isolamento dell’Argentina e le sue tendenze al protezionismo e al populismo nelle politiche economiche e sociali, e all’antiamericanismo in quella estera. L’Argentina sta trasformandosi in un paese chiuso in un continente sempre più aperto e da paese europeo in uno con le caratteristiche di “Occidente incompiuto e di Terzo Mondo imperfetto”. Anche la crescita economica - registrata a partire dalla seconda metà del 2002 - non è solida come il governo del presidente Kirchner si sforza di dimostrare. La rendono instabile talune fragilità di base. Oltre al persistere delle disparità socio-economiche (più del 30% della popolazione vive sotto la linea della povertà), gioca la dispersione della popolazione nell’immensità del paese (la superficie terrestre è di 2.736.691 km2 con meno di 40 milioni di abitanti), senza la concentrazione di immigrati europei che ha, ad esempio, conosciuto la regione di San Paolo in Brasile e che è all’origine della sua industrializzazione. Infine, pesano l’immensa agglomerazione di Buenos Aires - nella quale si concentra quasi un terzo della popolazione argentina - e l’abbandono del progetto, elaborato negli anni settanta ed approvato nel 1983 dal Presidente Raul Alfonsin, di trasferire la capitale a Vieta, verso il centro del paese, come aveva fatto il Brasile venti anni prima. Le prospettive economiche dell’Argentina non possono essere esaminate se non nel contesto delle realtà sociali e politiche; quindi, senza un esame preliminare della storia del paese e delle sue istituzioni. Solo in tal modo è possibile individuare i motivi che fanno definire “paradossale” la sua situazione economica, che sembra caratterizzata da un “male oscuro” che ha depauperato un paese dotato di tutte le potenzialità per il proprio benessere. Dalla prosperità all’impoverimento L’Argentina moderna si è formata fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con ondate massicce di immigranti (soprattutto italiani e spagnoli). Tra il 1860 e il 1930, essi ammontavano a 6 milioni di persone, più del doppio della popolazione esistente. Sebbene spopolato, il suo territorio era già diviso fra poche migliaia di estancieros o terratenientes, che praticavano un capitalismo agro-esportatore, avvalendosi anche della circostanza che le 23 province godevano di una larga autonomia ed erano dominate da tali latifondisti, per il tramite della “Società Rurale”. Quest’ultima era legata all’esercito e al clero ed esercitava una grande influenza politica, facendo leva su un vero e proprio potere di ricatto nei confronti del governo. L’Argentina accumulò capitali propri attraverso lo sfruttamento estensivo delle pampas ed attrasse investimenti stranieri – soprattutto britannici – arricchendosi durante le due guerre mondiali, quando divenne un’importante fornitrice di grano e carne dell’Europa. Tale ricchezza venne distrutta dal populismo del generale Domingo Peron – presidente dal 1946 al 1955 e poi ancora nel 1973-74. Forte dell’ampio consenso, che si estendeva dai sindacati ai proprietari terrieri e alle forze armate, egli promosse la politica del “giustizialismo”, basata sulla redistribuzione alle popolazioni urbane povere di parte dei profitti accumulati nel corso del secondo conflitto mondiale. Tale politica si tradusse in un incremento dei costi di produzione, nel mancato rinnovamento delle dotazioni infrastrutturali, in una carenza di investimenti nell’industria, nonché in un deflusso di capitali nazionali e stranieri. A ciò si sommava la forte contrazione delle importazioni agricole europee, per effetto della ripresa agricola nel continente e dell’introduzione della PAC. Benché Peron fosse stato estromesso da un colpo di Stato militare, il peronismo ed il “giustizialismo” - che ne costituiva la “formula” e il programma politico e che aveva un grande potere d’attrazione e di mobilitazione della masse diseredare delle grandi città - rimasero l’ideologia politica fondante, nelle tendenze sia di sinistra che di destra, sia dei guerriglieri filo-castristi - chiamati montaneros - che delle giunte militari, rimaste al potere dal 1976 al 1983, cioè dopo il disastro delle Falkand/Malvine. Durante la dittatura militare l’Argentina conobbe una grave recessione, nonostante che l’URSS – colpita dall’embargo cerealicolo americano a seguito dell’invasione dell’Afghanistan – fosse divenuta un importante importatore di grano argentino. Anche i governi civili che segurono la dittatura militare – a partire da quella del presidente Alfonsin del 1983 – non furono in grado di contrastare la crisi, sintetizzabile in pochi dati: dal 1965 al 1990 il tasso di crescita del reddito pro capite fu costantemente negativo; il debito pubblico passò dai 2 miliardi di dollari del 1960 ai 50 miliardi nel 1990; negli anni ottanta – denominati il “decennio perduto” – il tasso annuo di inflazione si attestò quasi sempre oltre il 200%, per raggiungere un picco di quasi 5.000% nel 1989; il tasso di disoccupazione più che raddoppiò, salendo dal 3,1% del 1983 al 7,0% nel 1989; l’emorragia di capitali verso gli USA e l’Europa, ma soprattutto verso i paradisi fiscali, fece il resto. Si preparavano così tutte le premesse per la disastrosa crisi del pesos e per il default dello Stato. L’apparente risanamento dell’amministraione Menem-Cavallo Il “decennio d’oro” di Carlos Saul Menem (che rimase al potere quasi dodici anni, dal 1989 al 2001, succedendo al governo di Alfonsin) fu economicamente caratterizzato da fasi alterne del ciclo. In una tendenza generale – ancorché molto contenuta - di crescita, si registrarono due gravi episodi di crisi. L’iperinflazione e la disoccupazione esasperarono la popolazione ed il sottoproletariato, ridotti alla fame, spingendoli al saccheggio di mercati e negozi (in un paese in grado di alimentare una popolazione 12-15 volte superiore a quella esistente!) La situazione socio-economica e politica ereditata da Menem era già disastrosa. Nei sei anni della presidenza Alfonsin il paese si era de-industrializzato, il PIL cresciuto ad un misero tasso annuo dello 0,3% (rispetto ad un aumento annuo della popolazione pari all’1,5%, con una inevitabile riduzione del reddito pro capite). Menem si presentò alle elezioni con un programma peronista. Promise alle masse di trasformare il paese in una “economia popolare di mercato”, mediante un’alquanto misteriosa “rivoluzione produttiva” basata sulla trasformazione delle imprese pubbliche in imprese “sociali”, sul divieto dei licenziamenti e sull’indicizzazione dei salari, che sarebbero stati agganciati ad un paniere di prodotti alimentari. Di fatto, Menem si era accordato con i “poteri forti” per introdurre surrettiziamente politiche neoliberiste (riforme market-oriented, deregolamentazione, liberalizzazioni, privatizzazioni). Nazionalista – come tutti i protezionisti - intendeva inoltre ridurre il disavanzo estero, per aumentare i gradi di libertà d’azione dell’Argentina in campo internazionale. Si voleva avvalere al riguardo della possibilità di rinegoziare il debito estero, offertagli dal piano Brady così chiamato dal nome del Segretario del Tesoro americano che lo aveva proposto). I suoi primi provvedimenti – privatizzazioni, aumento delle tariffe delle public utilities, apertura del mercato attraverso la diminuzione delle tariffe doganali e l’abolizione di privilegi concessi alle industrie nazionali con il compre argentino, simile al Buy American Act degli Stati Uniti - ebbero ricadute drammaticamente negative su molte imprese argentine, premature per affrontare la concorrenza internazionale e, quindi, sul mercato del lavoro. Menem proseguì imperterrito sulla sua strada, governando con decreti presidenziali e frenando con la sua efficacissima retorica populista lo scontento delle masse popolari. Tentò anche di aumentare la fiducia verso il sistema-paese con un primo programma di consolidamento del debito e politiche monetarie e fiscali restrittive. Il loro fallimento, insieme al nuovo episodio di iperinflazione del 1990 (1.343% il tasso annuo), lo indusse a sostituire il Ministro dell’Economia Gonzales – uno dei suoi seguaci più fedeli - con Domingo Felipe Cavallo, personalità più indipendente e tecnico di valore, che divenne rapidamente la figura centrale del governo, appannando il prestigio di Menem. Il suo programma di stabilizzazione si basò, in primo luogo, sul Piano di Convertibilità del 1991, che agganciava per legge la moneta nazionale al dollaro USA in un rapporto 1.1 (il currency board,abbandonato solo alla fine del 2001). Pur precludendo la leva monetaria e quella valutaria come strumenti della politica economica, senza dubbio la politica della doccia fredda ed un tasso di cambio fortemente simbolico soddisfacevano gli obiettivi prioritari di ridurre l’iperinflazione ed il rischio di una crisi del tasso di cambio e, con esse, il recupero di fiducia dei mercati – con il conseguente rientro dei capitali. Inoltre, il tasso d’interesse passò in un solo mese dal 12 all’1,5% e quello di inflazione si ridusse al 5%. Il PIL balzava da un tasso annuo di crescita nullo nel 1990 a quasi il 9% sia nel 1991 che nel 1992. Le IFI concessero all’Argentina nuovi prestiti ed una rinegoziazione del debito estero a condizioni molto favorevoli. Dominava l’euforia, alimentata dall’efficace propaganda di Menem, che tuttavia non riusciva a sfamare una popolazione i cui i tassi di disoccupazione crescevano rapidamente: dal 6,5% del 1991 al 7% nel ‘92, fino ad arrivare al 9,6% l’anno successivo (un valore mai toccato prima). Inoltre il “male oscuro” continuava la sua metastasi: la corruzione e il clientelismo avevano contaminato il governo e il partito giustizialista, a livello sia centrale che delle ventitrè Province, dotate di larga autonomia finanziaria. La crescita rallentò – pur rimanendo positiva – nel biennio successivo, e divenne di segno inverso nel 1995 (il tasso di disoccupazione intanto triplicava in un solo triennio, raggiungendo quell’anno il 18,5%), soprattutto per gli effetti di contagio della crisi finanziaria messicana (tequila crisis) del dicembre 2004, che ridusse drasticamente l’entità degli IDE anche verso l’Argentina. Veniva così vanificato il principale obiettivo che aveva indotto Cavallo ad adottare il Piano di Convertibilità. Fu anche chiaro che esso lasciava margini di flessibilità troppo ridotti per l’adozione di misure anti-cicliche, mentre il rafforzamento del dollaro diminuiva la competitività dei prodotti argentini sui mercati internazionali, con ovvie ricadute sul Prodotto e sull’occupazione. Molti risparmiatori convertirono i loro pesos in dollari, provocando una crisi di liquidità nel sistema bancario. Si verificò una fuga di capitali, a cui Cavallo fece fronte con nuovi prestiti concessi dal FMI, accompagnati da condizionalità molto pesanti, soprattutto sul versante dei tagli alla spesa pubblica. La situazione si aggravò ulteriormente per il fatto che il Brasile – primo importatore di prodotti argentini – reagì alla crisi con una politica opposta a quella di Menem-Cavallo. Svalutò il real sostituendo le importazioni con un aumento dell’offerta interna. Le politiche valutarie brasiliane – che danneggiarono grandemente l’industria argentina - non furono concordate preventivamente con essa, benché proprio nel 1995 fosse stato istituito il Mercosur (a cui aderirono subito anche l’Uraguay e il Paraguay, entrambi strettamente legati economicamente ai due “giganti” sudamericani). Esso nacque quindi sotto una cattiva stella, pur proponendosi obiettivi molto ambiziosi, di trasformarsi in una specie di UE del Sud America. La situazione interna si complicò anche sul piano politico per i contrasti sorti fra Menem e Cavallo. Il primo – che aspirava ad esser rieletto presidente - sospettava che il secondo volesse competere con lui nelle elezioni. Cercò di screditarlo e di limitarne i poteri attribuitigli come ministro dell’economia. Cavallo reagì malamente, ricorrendo all’alta Corte di Giustizia. La bagarre si concluse con il “dimissionamento” nel 1996 del Ministro dell’economia, che godeva di ampi consensi interni e di credibilità internazionale. Da allora si indebolì anche la posizione di Menem, che dovette assumere in prima persona la responsabilità dei provvedimenti resisi necessari per l’uscita dalla crisi. Non godeva del prestigio di Cavallo, né della fiducia dei risparmiatori e degli imprenditori. Inoltre, crescevano le accuse nei suoi confronti, di corruzione, clientelismo, riciclaggio di denaro sporco ed esportazione illegale di armi. Tutte le ambiguità della personalità e della politica di Menem vennero alla luce. Eletto con un programma giustizialista, aveva adottato provvedimenti liberisti, graditi ai “poteri forti” argentini e alle IFI. Messo alle strette dalla crisi economica, non seppe far altro che accendere debiti e creare moneta. Con l’uscita di Menem dalla Casa Rosada terminò anche il periodo della “grande illusione” e dell’euforia che fosse possibile curare il “male oscuro” dell’Argentina, riportandola alla posizione di guida che nel passato aveva esercitato sul Sud America (anche perché il suo concorrente diretto, cioè il Brasile, era handicappato dalla diversità della lingua rispetto agli altri paesi, tutti facenti parte dell’Impero Spagnolo). La restaurazione antiperonista e il crollo Alla fine del 2000, sullo sfondo della grave crisi politica ed economica, le Agenzie di rating cominciarono ad assegnare al paese valutazioni progressivamente sfavorevoli, addirittura ad di sotto di altri Stati in bancarotta quali in Ghana e il Nicaragua. L’eredità del nuovo governo fu un disastroso debito pubblico, dovuto – sul lato delle uscite - anche al fatto che le spese delle Province erano andate completamente fuori controllo. Inoltre, allo scopo di fronteggiare il calo delle esportazioni nette verso il Brasile - oltre che per ragioni elettorali - il governo Menem aveva cercato di rilanciare i consumi interni, riducendo la tassazione. A succedere a Menem furono eletti esponenti del Partito Radicale – de la Rua e Alvares -, con un programma di risanamento finanziario, lotta alla corruzione e limitazione delle misure più liberista adottate da Cavallo e che, secondo i suoi critici, avrebbero compromesso la “sacra” sovranità argentina. Il rimedio di de la Rua fu un consistente inasprimento fiscale. Esso produsse pesanti ricadute, bloccando gli incipienti segni di ripresa, e una consistente fuga di capitali. Provocò anche proteste e disordini. Anziché agire con cautela, il governo, per fronteggiare il deterioramento delle condizioni economiche, introdusse misure per rendere più flessibile il mercato del lavoro, prevedendo un periodo di prova di sei mesi prima dell’assunzione di un lavoratore e che la contrattazione sindacale avvenisse a livello aziendale, anziché nazionale. Ciò provocò forti proteste dei sindacati, che mobilitarono la piazza. Si verificarono duri scontri con la polizia. Il presidente de la Rua decise di usare le maniere forti. Presentò nuove riforme liberiste, che prevedevano, fra l’altro, l’aumento dell’età pensionabile per le donne da 60 a 65 anni, la riduzione della tassazione per le imprese e la deregolamentazione del sistema sanitario. Gli incidenti si intensificarono. Furono proclamati scioperi generali, a cui de la Rua reagì minacciando limitazioni al diritto di sciopero e al finanziamento dei sindacati. Le violenze continuarono. Il governo aveva le mani legate dai vincoli posti dalla convertibilità con il dollaro e dall’enorme aumento dello spread tra i buoni del tesoro argentini e quelli americani, con conseguenti ulteriori difficoltà di bilancio. Messo con “le spalle al muro”, il governo richiamò il ministro dell’economia Cavallo per far uscire il paese dal baratro in cui stava precipitando. Egli, dopo aver ricevuto amplissimi poteri discrezionali, negoziò con la comunità internazionale e gli altri investitori immediatamente un maxi-prestito di 37,5 miliardi di dollari. Non riuscì però a tagliare la spesa pubblica né dello Stato né delle Province. La fiducia degli investitori si dissolse rapidamente: il ritiro di capitali e di depositi bancari, sia stranieri che nazionali, fu accelerato dall’effetto panico e dall’herd behaviour. Venne a prodursi una specie di “bomba finanziaria”. A novembre 2001 fu ritirato dalle banche oltre un miliardo di dollari. Le riserve si esaurivano e le prime rate del prestito internazionale non riuscivano a fronteggiare il crollo. In altri termini, i “cavalli di battaglia” di cui si era avvalso nel suo primo mandato si erano “azzoppati”: la parità col dollaro non era più sostenibile, in quanto stava strozzando l’economia del paese, gli IDE si erano esauriti, il collocamento del debito sul mercato dava segni di saturazione e lo stesso Fondo non era disponibile ad ulteriori prestiti. Le disperate e vane proposte - quali il taglio di stipendi e pensioni, blocco dei conti bancari (di piccoli e medi risparmiatori, il cd. corallito, cioè piccolo recinto per il bestiame) o divieti di trasferimenti di capitali all’estero - sollevarono gravi manifestazioni di piazza e la proclamazione dello stato d’assedio il 15 dicembre 2001. La polizia intervenne duramente, provocando una trentina di morti fra i dimostranti. Sembra che i vertici dell’esercito si rifiutassero di far intervenire le truppe. Il Presidente de la Rua fuggì in elicottero dalla Casa Rosada. Quello del Senato, che costituzionalmente avrebbe dovuto sostituirlo, si rifiutò di farlo. La situazione divenne sempre più confusa, anche politicamente. Il Congresso, alla fine, elesse un rappresentante del Partito Giustizialista – Adolfo Rodriguez Saà – il quale affrontò la situazione con la tipica demagogia e bizzarra retorica peronista, pensando probabilmente di riuscire a calmare gli animi. Promise un milione di nuovi posti di lavoro e propose di introdurre a fianco del peso e del dollaro una terza moneta, denominata patriotticamente “argentino”. Dichiarò un default unilaterale del debito pubblico contratto con gli investitori privati, escludendo quello con le IFI. Dopo poche settimane e parecchie bizzarie, dovette lasciare il suo incarico ad un alto esponente del Partito Giustizialista - Edoardo Duhalde – giunto secondo alle elezioni presidenziali che avevano visto la vittoria di de la Rua. Egli decretò la fine della parità cambiaria con il dollaro, lasciando fluttuare liberamente il peso: in pratica, decise la bancarotta dello Stato e del suo sistema finanziario, nonché l’espropriazione dei cittadini e degli investitori internazionali di circa tre quarti dei loro depositi. Il peso passò dalla parità ad un rapporto di circa quattro pesos per dollaro. Nel 2001, dunque, la crisi economica divenne anche una crisi finanziaria e valutaria. La presidenza Duhalde durò con alterne vicende fino al maggio 2003, quando si tennero le nuove elezioni presidenziali, che videro la vittoria di Nestor Kirchner. Ministro dell’economia fu in quel periodo uno stimato economista – Roberto Lavagna – che rimase in carica fino al 2005. Egli, dopo aver invano cercato di riguadagnare la fiducia del FMI, riuscì a mettere sotto controllo le spese delle Province e, con l’abolizione del corrallito, migliorò l’affidabilità del governo nei confronti della classe media e dei piccoli risparmiatori ed imprenditori. Dopo 36 mesi di caotica crisi, l’economia dette segni di ripresa. La situazione socio-economica rimaneva spaventosa: perdita di ogni fiducia nella classe politica e nelle istituzioni; riduzione dell’entità e pauperizzazione della classe media; criminalità diffusa. Il nuovo presidente dovette affrontare tale situazione. Lo fece con decisione e durezza. Nei primi suoi anni al potere, sembrò anche che l’Argentina potesse uscire dai guai che si era auto-procurata con il populismo che era entrato a far parte, specie con Peron, del suo DNA politico. La politica economica del presidente Kirchner Il Presidente Kirchner, sostenuto dal ministro Lavagna, confermato nel suo incarico, difese con determinazione, al limite della durezza, il principio che l’Argentina non avrebbe accettato nessun piano di rimborso o di ristrutturazione del debito accumulato dai precedenti governi, che non salvaguardasse lo sviluppo sostenibile del paese. Si trattava di un’operazione di dimensioni mai avvenute precedentemente. La loro determinatezza era aiutata dal fatto che nel frattempo – a partire dall’inizio del 2003 – l’economia argentina registrava una crescita soddisfacente. Il tasso di cambio fra peso e dollaro migliorava di oltre il 20%, passando da 4 a 3 pesos per dollaro. L’inflazione scendeva al di sotto del 10%. Diminuiva anche il tasso di disoccupazione. Il nuovo governo scelse quale priorità il contrasto alla corruzione e al clientelismo, temi molto sensibili fra le masse. Tentò così di rafforzare il prestigio delle istituzioni e quello personale del Presidente, evitando però di adottare misure strutturali di risanamento economico e sociale. Esse sono sempre impopolari, poiché i costi sono a breve termine, mentre i benefici vengono avvertiti solo nel più lungo periodo. Nel caso della realtà argentina esse avrebbero poi toccato interessi corporativi ben radicati, rischiando di innescare nuove rivolte e violenze, e trovavano ostacoli nella stessa cultura etico-politica del paese, in cui continuava a dominare il populismo e quindi l’attesa di miracoli che mettessero le cose a posto. Beninteso, il presidente Kirchner non poteva forse fare altrimenti, data la dilagante sfiducia popolare nei confronti della classe dirigente. Riteneva necessario rafforzare il suo livello di popolarità, come pilastro della ricostituzione delle istituzioni pubbliche. Per questo riaprì i processi contro i componenti della giunta militare e seguì in politica estera una politica “bolivariana”, allineandosi costantemente con l’anti-americanismo del presidente venezuelano Hugo Chavez. Dall’intesa con il Venezuela derivarono all’Argentina taluni vantaggi materiali, quali forniture energetiche a prezzi molto convenienti e l’acquisto da parte del governo di Caracas di qualche miliardo di dollari di nuovi bonds argentini. Tra l’altro, gli aiuti venezuelani hanno permesso a Buenos Aires di compensare ampiamente l’aumento del prezzo del gas, deciso dal presidente boliviano Ivo Morales. La collaborazione con Chavez ha avuto un prezzo, che potrà pesare negativamente sul futuro dell’Argentina. Ha accresciuto le incomprensioni e la contrapposizione nelle istituzioni regionali e continentali con il Brasile. In particolare ha congelato il Mercosur, il cui rafforzamento avrebbe messo la ripresa argentina su più solide basi, allontanando i “demoni” del passato populista e protezionista e valorizzando le potenzialità culturali e tecnologiche rimaste. Invece, il sostegno argentino all’entrata del Venezuela nel Mercosur ha bloccato di fatto ogni progresso dell’organizzazione, dato che Chavez si propone di utilizzarlo soprattutto per contrastare la presenza americana in America del Sud e la diffusione del liberalismo economico e politico, considerati “cavalli di Troia” degli USA, per controllare l’intero continente e sfruttarne le ricchezze. L’intransigenza del presidente Kirchner nel trattare i problemi del debito non era completamente condivisa dal ministro Lavagna, preoccupato dalle ricadute negative che si sarebbero prodotte sugli investimenti esteri e sulla fiducia dei risparmiatori, e persuaso che la ripresa dell’economica argentina fosse condizionata e potesse essere consolidata solo con una maggiore apertura internazionale. Il ministro fu pertanto costretto a lasciare il suo incarico nel dicembre 2005 e fu sostituito da un peronista di stretta osservanza. Il risultato è stato un aumento dell’inflazione, mentre la lotta contro la corruzione non aveva successo, dato che l’Argentina ha perso numerose posizioni nel “Corruption Perception Index” elaborato da Transparancy International. Nonostante l’alta popolarità di cui continua a godere Kirchner in Argentina, sempre più diffuse sono le perplessità sulla sua correttezza e sulla sua politica economica, oltre che, beninteso, sulle sue scelte di politica estera. Valutazioni sulla ripresa Anche nella ripresa economica avvenuta dal 2003 – nonostante gli interrogativi prima espressi sulla sua sostenibilità e capacità di durata, soprattutto perché trainata dall’andamento dell’economia internazionale e non sostenuta da riforme strutturali – l’Argentina non cessa di sorprendere gli esperti. La crescita verificatasi negli ultimi anni è infatti largamente superiore a quella che ci si sarebbe potuti attendere dal semplice rimbalzo dopo tutte le fasi negative del ciclo. Come prima accennato, la risposta sta nell’impatto del contesto internazionale. La fase positiva dell’economia globale ha sostenuto la ripresa. Hanno giocato poi gli aumenti dei prezzi delle materie prime che esporta l’Argentina, gli investimenti cinesi e venezuelani. Ha infine influito positivamente il fatto che il peso è sottovalutato. Ciò non solo conferisce un vantaggio competitivo alle esportazioni argentine, ma anche un effetto di sostituzione delle importazioni con le produzioni locali. Di conseguenza, il saldo della bilancia commerciale è stata attiva, le riserve valutarie sono aumentate, si sono potuti onorare i debiti al FMI e si sono stimolate le produzioni industriali e agricole. Permangono però gravi problemi, conseguenti al permanere degli squilibri strutturali, che decenni di “male oscuro” hanno provocato nel paese. La brillante e dinamica classe media è stata notevolmente indebolita. La disuguaglianza sociale rimane a livelli esplosivi ed è stata aggravata – come sempre avviene – dalla depauperizzazione della popolazione. Permangono inoltre endemici corruzione e clientelismo, mentre le radici populiste e nazionaliste delle forze politiche prevalenti ostacolano la modernizzazione del paese e il suo pieno inserimento nell’economia regionale, continentale e globale. Gli investimenti sono molto ridotti, mentre le infrastrutture di base – dall’elettricità, all’acqua, al gas – sono ormai obsolete e inadeguate al sostegno di un’economia moderna. Ma soprattutto, l’Argentina e la sua economia stanno perdendo l’occasione storica di crescita a causa degli ostacoli che hanno pregiudicato un pieno successo del Mercosur. Forse correre dietro al “canto delle sirene” dei sostenitori della “rivoluzione bolivariana” alla Chavez, in cambio di vantaggi limitati e di breve durata, costituisce l’errore principale commesso dal presidente Kirchner. Verosimilmente, l’integrazione regionale - accettando la realtà della prevalenza del Brasile – costituisce l’unica via possibile per far guarire l’Argentina dal suo “male oscuro”. Not all that glitters is gold: l’analisi della crescita economica argentina tra il 2002 e il 2006 in chiave Real Business Cycle Si è osservato come negli ultimi anni – dal 2002 al 2006 - l’economia argentina abbia intrapreso un sentiero di alta crescita, gettando una luce complessivamente ottimistica sul recovery dalla crisi e sul futuro economico del paese. Tuttavia, come spesso accade nella teoria economica, questo stesso scenario può essere interpretato in un’ottica differente, portando l’analista a conclusioni in questo caso tutt’altro che ottimistiche. Infatti, leggendo i dati sulla crescita economica dell’Argentina dal 2002 in chiave Real Business Cycle (RBC), alcuni autori sono portati a definire questa dinamica non un prodigioso boom economico, ma piuttosto un modesto effetto di ritorno dalla recessione culminata con la crisi. Appare, in questa sede, opportuno innanzitutto introdurre brevemente la corrente teorica alla quale si è accennato – il Real Business Cycle – al fine di comprendere in modo migliore la loro posizione circa la domanda oggetto di questo paragrafo: la crescita di circa il 30% del PIL argentino negli anni 2002-2006 può essere attribuito ad una reale ripresa duratura dell’economia o è solo un modesto tentativo del sistema di ritornare ai valori preesistenti? L’approccio RBC è stato introdotto dai premi Nobel Kydland e Prescott nel 1986 con la pubblicazione del paper “Time To Build and Aggregate Fluctuations”. Fino a quel momento le teorie della crescita economia erano inevitabilmente legate ad ottiche di lungo periodo e il punto di riferimento del mainstream era la teoria della crescita neoclassica formulata da Robert Solow nel 1956. Le fluttazioni di breve periodo – il ciclo - erano invece per lo più spiegate in relazione alla dinamica della domanda, secondo un’ottica di tipo keynesiano. Kydland e Prescott hanno dimostrato come fosse possibile studiare i fenomeni di lungo e di breve periodo, quindi sia il ciclo che il trend, all’interno di un unico impianto analitico, adattando il modello di Solow anche per spiegare le fluttuazioni cicliche dell’economia intorno al path di crescita di lungo periodo. Per spiegare l’approccio RBC in maniera intuitiva e senza introdurre tecnicismi, si può ricorrere alla semplificazione operata da Zarazaga (2006), distinguendo tre blocchi principali della teoria in questione: 1) La spiegazione delle dinamiche di lungo periodo è affidata alla nota teoria della crescita neoclassica di Solow secondo la quale l’economia viaggia su un sentiero di crescita di equilibrio assicurato da un tasso di risparmio esogenamente determinato; in particolare, si sostiene ogni economia converga a questo sentiero di crescita indipendentemente dalle condizioni iniziali e da qualsiasi shock possa occorrere alle variabili economiche rilevanti. 2) Il modello di crescita è microfondato ipotizzando l’esistenza di consumatori ed imprese razionali e perfettamente informate che massimizzano le proprie funzioni di utilità e di profitto in maniera forward-looking, laddove il tasso di risparmio esogeno di Solow è sostituito da un rapporto risparmio su investimento stocastico al quale gli agenti adeguano il proprio comportamento nell’ottica di massimizzazione. 3) La novità principale del RBC, nonché il suo tratto caratterizzante, è costituito dall’ipotesi che la funzione di produzione sia soggetta a shock casuali legati alla dinamica casuale della tecnologia in essa incorporata e rappresentata dalla produttività totale dei fattori. Nel modello di Solow, per produttività totale dei fattori (Total Factor Productivity, TFP o residuo di Solow) si intende quella parte di crescita del Pil che non è spiegata dalla crescita degli input impiegati e che quindi è identificata con la tecnologia di produzione. Secondo l’approccio RBC, sono questi shock tecnologici che generano il ciclo, ossia che determinano la fluttuazione del PIL intorno al suo livello di lungo periodo (determinato à la Solow). Ritornando al caso dell’Argentina, Zarazaga (2006a, 2006b) sostiene che la performance economica degli ultimi anni può essere spiegata in ottica RBC come il risultato di un effetto “rubber ball”. Così come una palla di gomma più forte è tirata in terra e più in alto rimbalza, più profonda è la recessione economica, più veloce ed impressionante è la crescita che ad essa segue. A sostegno della sua tesi, l’autore analizza in prima istanza ai dati economici argentini e costruisce poi un semplice modello di matrice RBC in grado di spiegarli. La variabile di riferimento non è il più comunemente usato PIL pro capite, ma il PIL per persona in età lavorativa, calcolato come trasformazione logaritmica del risultato di una formula che dà conto della crescita della TFP e della crescita della popolazione[1]. (Allegato 2) Grazie alla scala logaritmica, riportata sull’asse delle ordinate, la differenza tra due punti può essere interpretata come differenza percentuale. Ne risulta che il PIL (calcolato come descritto) del 2005 è di 7 punti percentuali inferiore a quello pre-crisi de 1998 ed è pari al livello di 25 anni prima nel 1980. Dal grafico appare altrettanto chiaro come nell’arco temporale preso in considerazione ogni periodo di rapida crescita sia stato preceduto da un notevole declino del PIL. In particolare, il 23% di aumento del PIL osservato tra il 2002 e il 2005 è preceduto da un rovinoso declino del 24% occorso tra il 1998 e il 2002. Ciò porta l’autore a pensare che la storia recente dell’Argentina vada letta come una lenta ripresa da una recessione gravissima piuttosto che come un periodo di crescita spettacolare e destinata a durare; una ripresa che sembra - al contrario della percezione comune - essere stata scarsa se paragonata al declino al quale è seguita. Il modello RBC costruito da Zarazaga (2006a), una volta calibrato[2], conferma quanto risulta dall’osservazione dei dati. Il recovery del PIL per persona in età lavorativa previsto dal modello negli anni 2002-2005, infatti, è del 35%, di 12 punti percentuali superiore a quello effettivamente osservato. Garcia-Cicco, Pancrazi, Uribe (2006), d’altra parte, sono molto scettici sulla capacità di un modello RBC di spiegare l’economia argentina. Questi autori stimano i parametri di un modello RBC standard usando i dati aggregati dell’Argentina degli ultimi cento anni e trovano che il modello ha evidenti difficoltà a spiegare il ciclo economico argentino. Come anticipato in apertura del paragrafo, in questo caso appare particolarmente evidente come la realtà economica si presti ad essere osservata da diversi punti di vista e sia suscettibile di interpretazioni anche di segno opposto. Non a caso, lo scopo di questa breve incursione nel mondo Real Business Cycle - a prescindere dal credito intellettuale (e politico) che ciascuno possa dare a tale corrente di pensiero - si prefiggeva principalmente lo scopo di proporre un esempio di prospettiva problematizzante dei fenomeni economici che è necessaria ai fini della comprensione della realtà che ci circonda. Mariateresa Fiocca Dipartimento di Scienze Economiche S.S.E.F. Claudia Maurini Dottorato in Economia Università di Roma “La Sapienza”
Posted on: Thu, 19 Sep 2013 20:48:32 +0000

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