GOGOL A ROMA: LA SBRONZA ED I MOSTRI. Lo scrittore russo - TopicsExpress



          

GOGOL A ROMA: LA SBRONZA ED I MOSTRI. Lo scrittore russo Nikolaj Vasil’evic Gogol ha soggiornato per lunghi anni a Roma abitando tra Sant’Isidoro, ora via degli Artisti, e via Felice, ora via Sistina. Che egli amasse a fondo la cità è ben noto e documentato e basta leggere il romanzo breve intitolato “Roma” per rendersene ampiamente conto. Il racconto non è certo tra le sue opere migliori ma è pieno di lodi ed ammirazioni per la città eterna. Durante i suoi soggiorni ha modo di conoscere a fondo la città, i suoi abitanti e le loro abitudini. Dal suo epitolario sappiamo che pranzava sovente alla trattoria “Antico Falcone” o “Al lepre” in via Condotti e si ritrovava con i colleghi della colonia russa al “Caffè Greco”. Proprio qui, al Caffè Greco la sera del 16 giugno 1844 partecipò ad un banchetto in onore dell’amico e pittore Aleksandr Andreevic Ivanov che festeggiava in suo compleanno. L’allegria, gli amici, l’occasione gaudente, tutto contribui’ a finire la serata a taralluci e vino, nel vero senso letterale della frase! Perché di vino, e non solo, ne corse evidentemente tanto quella sera al Caffè Greco; ma il vino che dà gioia, piacere ed ebbrezza nelle giuste quantità, a dosi elevate invece stordisce e cambia il mondo intorno: l’orientamento della città si confonde, le strade si mescolano e dalle fontane escono mostri. Ma gli effetti della storica sbronza lo stesso Gogol li descrive in una lettera inviata all’amico Vasilij Andreevic Zukovskij. “Quando uscii dal Caffè Greco avevo la mente confusa e le gambe malferme. Tutti avevamo bevuto a profusione vini di varie qualità, l’ Est-est-est , che tu presumo conosca, si mischiò al Frascati ed al Falerno, e da ultimo forse non fu conveniente, dopo lo Champagne, mischiare l’ Aleatico, che in verità trovo eccellente con le ciambelline al vino. Uscendo dal Caffè con gli amici non so cosa avvenne, né perché accadde una tale contrarietà, ma posso solo dire che mi ritrovai solo e che sbagliai direzione. Invece di dirigermi verso la Trinità dei Monti mi ritrovai in piazza del Pantheon. Non so dire come ci arrivai, ma è indubitabile che mi accostai alla fontana per bere. Avevo un’urgenza terribile di acqua, benché avessi bevuto quanto un uomo può ingurgitare della bevanda amata dal glorioso Bacco. Ebbene, non mi credereste, quel mascherone della fontana che ha una scimmia sul capo e avevo visto più volte … si rizzò minaccioso con una espressione talmente furiosa che un pazzo forsennato al confronto mi sarebbe parso un mite e buon fraticello. Capii che se mi fossi accostato per bere mi avrebbe divorato il capo con quelle spaventose fauci munite di zanne tali e quali a scimitarre, e cosi’ battei in ritirata e andai a cercar acqua altrove. Non avendo cognizione di dove le gambe malferme mi portassero, dunque non saprei dire come, ma mi ritrovai all’ingresso di piazza Navona. Non seppi riconoscerla e, non crederete a quel che vi dico, ma quella piazza, che pure è una delle più grandi della città, mi parve senza fine, dilatata, ingigantita oltre l’orizzonte, e come sospesa su una coltre di piume dove affondavo un poco incespicando. Forse fu anche colpa della luna piena che si dice influisca sulle persone stregate, perché io ero stregato. Facevo fatica a procedere, ma la sete premeva e mi accostai alla fontana dei Fiumi, che mi sembrò innalzarsi nel cielo più alta della cupola di San Pietro. Ma non potei bere neppure questa volta perché una biscia, cosi’ mi parve in un primo momento, e che si palesò poi per un braccio che terminava con una enorme mano, sorse dall’acqua e mi respinse bruscamente. Avevo tenuto gli occhi bassi, infatti la mia preoccupazione maggiore era mantenere l’equilibrio, se li avessi alzati perdendo di vista i piedi sarei caduto. Però mi sforzai ad alzare gli occhi ugualmente. Rimasi terrorizzato. Ricorderete che il Bernini raffigurò il Nilo, uno dei quattro fiumi dell’imponente fontana, come un gigante nerboruto, un possente campione che tiene il capo nascosto da una sorta di mantello, una pezza che lo nasconde, a significare che non se ne conoscevano le sorgenti. Ebbene, costui sollevò il cencio che gli copriva il volto e mi apparve il più orrendo ceffo che si possa immaginare. Aveva una faccia di rospo, ma il più brutto rospo non avrà mai quello sguardo feroce di drago malvagio, di presenza maligna che solo il demonio può avere. Probabilmente gridai nella nostra madre lingua parole di spavento, perché mi vidi accanto una sagoma di cristiano che era accorso. Quel buon uomo, un facchino che altre volte era stato al mio servizio e che si godeva il fresco sdraiato sul bordo della vasca, mi riconobbe e venne subito in mio aiuto. Un po’ trascinandomi, un po’ spingendomi mi guidò fino alla gradinata di Trinità dei Monti. La monumentale scala mi apparve un’immensa serpe adagiata sullo scoscendimento dell’altura e mi parve che rimuovesse il gran corpo, mutasse le sue curve e si ponesse di sbieco, che si incavasse e rendesse scivolosa come un’anguilla. Pareva che spigoli e cantoni divenissero dardi e saettando mi colpissero ora in un fianco ora nell’altro, e che quella dannata scalinata alternativamente si ampliasse, si lanciasse in avanti e si ritirasse, e i gradini rimpicciolendosi mi facessero incespicare per la ripida salita. Non so dire come raggiunsi la sommità compiendo quella terribile ascesa. Presumo che il buon facchino mi trasportasse come un sacco di carbone, e difatti il giorno appresso vidi il mio frac divenuto sconcio, un abito indecente e scandaloso. Dunque giunto alla sommità , sentii irrefrenabile la necessità di appoggiarmi al parapetto , e vomitai di sotto tutto ciò che un omaccione più grande e grosso di me potrebbe mai vomitare. Cento coppelle di vino, o barilotti se più vi piace, sarebbero poca cosa al confronto. “ Fin qui il racconto sarebbe già esilarante per lo scotto pagato per la nottata di baldoria ma le visioni non erano finite e d’ altronde casa era ancora lontana 200 metri. “L’impressione più straordinaria fu un’illusione che avevo avuto a Ginevra anni or sono: essa si ripetè e anche questa volta vidi il mio naso ingigantire e staccarsi dal mio viso e andarsene sorvolando i tetti di Roma come fosse Solocka (ndr. Personaggio di alcuni suoi racconti)… Ci pensai molto il giorno dopo, quando passati i postumi della baldoria risi molto tra me e me…”. La lettera fece il giro di tutti gli amici di Gogol in Russia che se ne copiavamo brani di cui ridere poi insieme. Ci viene raccontato che in un’occasione Nikolaj Michajlovic, che soffriva di asma, ne rise talmente da restarne quasi soffocato e dovettero soccorrelo d’urgenza con dell’acqua. L’originale, proprio a causa di questi passaggi di mano, è andato perduto nel tempo, ma proprio alle varie ritrascrizioni effettuate dai vari amici è stato possibile ricostruirla pressochè integralmente.
Posted on: Mon, 25 Nov 2013 14:28:22 +0000

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