E SE - Incipit Quando dal campanile giunse il quinto rintocco, - TopicsExpress



          

E SE - Incipit Quando dal campanile giunse il quinto rintocco, il mio cuore accelerò. Sollevai la testa e mi guardai attorno. Guardingo, nonostante il buio. La piccola cella era rischiarata appena dalla flebile lama di luce che filtrava dalla feritoia alle mie spalle. Di fronte, riflessa dal muro, vidi la stessa luce intrappolata in un rettangolo color piombo. Lombra delle sbarre spezzava il rettangolo in tanti piccoli quadrati. Sentii crescere la paura. Non ero più così sicuro di fare la cosa giusta. Cercai di liberarmi dal dubbio tirandomi su a sedere. Piano, però, senza fare rumore. Sapevo che se li avessi svegliati avrei dovuto rimandare. E Dio solo sa quando avrei trovato di nuovo il coraggio. Le parole del Capo facevano ancora male. «Pensi di scappare ancora?» Io non avevo aperto bocca. Lui mi aveva fissato a lungo. Poi aveva annuito, sistemandosi la maschera sul volto. «Bene. Allora provaci», aveva chiosato. Il tono mite. Ma aspro. «Ti do un consiglio, però: fallo bene, altrimenti sai già cosa ti aspetta». La minaccia era reale. Io lo sapevo. Fino ad allora la forza mi era venuta dallunica certezza: io, a loro, servivo vivo. Non mi avrebbero mai ucciso, ero troppo importante. Ma da quando il Capo mi aveva parlato del sotterraneo le cose erano cambiate. Nessuno usciva più dal sotterraneo. Seduto sul bordo della branda, scrutai la stanza attorno a me. Il riverbero argentato della luce notturna accentuava la desolazione di una cella in bianco e nero. Il piccolo tavolo di metallo ricoperto di fogli sparpagliati, le mensole alle pareti, con sopra i miei libri consunti da troppe riletture in ventanni di detenzione, lo sgabello claudicante, rimesso in pari con le scatole vuote dei farmaci che mi costringevano a ingerire. E poi quella frase, incisa sul muro con la punta di una penna dissanguata. Dove tu finisci, io comincerò. Appena lavevo letta, ero stato travolto da un bisogno impellente di imprimerla da qualche parte, in modo da averla sempre sotto gli occhi. E il muro, in quel frangente, mi era sembrato il luogo più adatto, l’unico permanente, il punto più fermo della mia vita di recluso. I carcerieri, quando se n’erano accorti, l’avevano guardata con ostilità. Loro odiavano tutto ciò che non erano in grado di comprendere. Il Capo mi aveva saggiato in silenzio, scrutandomi con occhi pallidi attraverso le orbite forate della maschera. Poi mi aveva chiesto che diavolo volesse dire quella scritta. Io, come risposta, mi ero limitato a indicargli il libro. Lui allora laveva preso e se lera portato via. Sapevo che lavrebbe letto, accuratamente, per scoprire se tra quelle pagine si annidasse una minaccia. Ma non me nero preoccupato. Non sarebbe mai stato in grado di scoprirne il significato. Era troppo impegnato a distruggere, lui, per poterlo scorgere. Distruggere. In quello sì che era bravo davvero, questo va detto. Talmente bravo che io, più di una volta, la notte, mi ero sentito spacciato. Notti più buie del solito, in cui l’esile fiammella della speranza aveva vibrato pericolosamente alle folate minacciose dello sconforto. Quante volte in ventanni. Al solo pensiero, sentii un brivido scendermi lungo la schiena. Sollevai la testa e cercai inutilmente la luna nella feritoia. Può esistere un buio più buio della notte senza luna? mi chiesi. Sì. Io sapevo che poteva esistere. Per questo dovevo svignarmela al più presto.
Posted on: Tue, 05 Nov 2013 18:40:26 +0000

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