PENSIERI L’ideale di un giudice è quando non deve rendere - TopicsExpress



          

PENSIERI L’ideale di un giudice è quando non deve rendere ragione a nessuno del suo operato, se non alle Leggi – intese in senso sempre più lato come risorse per realizzare la vita buona – o quello di un operatore economico tenuto a preoccuparsi solo delle ‘servitù’ imposte dal mercato declassano lo Stato e il governo a braccio secolare del diritto, in un caso, e a qualcosa di (molto) meno di un guardiano notturno nell’altro. E’ la regressione al premoderno se si considera che l’età della secolarizzazione – l’età moderna, appunto – è caratterizzata dalla scoperta dell’autonomia della politica, dalla fine della sua subordinazione all’autorità spirituale in nome di una ‘vitalità’ esuberante che non tollera più precetti e restrizioni che limitino la libera espressione delle energie umane – siano quelle del Principe o dello scienziato, del mercante o del prestatore di denaro. Oggi il potere spirituale, che esige una venerazione assoluta e incondizionata, non è più quello del prete ma sembra essere divenuto quello del magistrato che, come incarnazione della Coscienza morale e della Rettitudine civica, ha la facoltà di ‘scomunicare’ il politico corrotto, esonerando i sudditi/cittadini dall’obbedienza e dal rispetto. Come nel Medio Evo i signori della terra erano investiti della loro autorità per far trionfare la vera fede (cristiana), così oggi le classi politiche trovano la loro legittimazione solo nella misura in cui fanno valere non più l’etica religiosa ma l’etica giuridica – entrambe universali e orientate al Bene e alla salute dell’anima. Non è il Diritto al servizio dello Stato, ma è lo Stato al servizio del Diritto: il Diritto, anzi, tende, più o meno consapevolmente, a rendere superfluo lo Stato, a ridurlo simbolicamente a una grande Questura che riceve ordini quasi soltanto dai Tribunali. In questa nuova, inaspettata, fase della storia d’Italia – che potrebbe prefigurare il destino dell’Occidente – nessuno pare più meravigliarsi delle intercettazioni telefoniche intese a mettere con le spalle al muro un cittadino o politico, su cui cada la mannaia della ‘legge dei sospetti’, né dell’assenza, nella nostra carta costituzionale, dell’habeas corpus – ovvero del diritto, sancito dalla Magna Carta inglese fin dal XIII secolo, a non essere arrestato e detenuto arbitrariamente. L’articolo 13 della “Costituzione più bella del mondo” riconosce che la libertà personale è inviolabile ma poi aggiunge che «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», sono ammesse forme di detenzione, di ispezione o perquisizione personale o altra restrizioni della libertà personale,guardandosi bene dall’indicare, senza margini di dubbio, quali sono i limiti che s’impongono al legislatore e soprattutto al giudice, dalla cui discrezionalità (un potere immenso e de facto privo di controlli) dipende la decisione relativa alla ‘custodia cautelare’. E’ motivo di stupore il fatto che, a parte qualche sparuta pattuglia vetero-libertaria o radicale, passi quasi del tutto inosservata la trave nell’occhio dell’opinione pubblica progressista sempre più determinata a rivendicare “il diritto ad avere diritti”. Quanti esigono, in nome della lotta alla corruzione, che la politica sia l’ancella del diritto non si ribellano alla logica del Grande Fratello che spia, con l’autorizzazione del magistrato beninteso, quanto avviene nelle alcove, quel che i vecchi amici si dicono per telefono, cosa concordano in gran segreto i soci in affari. La ragione di questa indifferenza è semplice e riporta ai vizi antichi di un paese che non si è mai rassegnato a distinguere peccato (teologico), colpa (morale) e reato (penale): le intercettazioni, che tanto indignano i quattro gatti liberali di cui scrive Piero Ostellino (che ne è il decano) sono ‘a fin di bene’, intendono smascherare i corrotti e portarli davanti al giudice – “naturale” o no, poco importa. L’etica giudiziaria, sottesa a questa ‘filosofia pratica’, azzera, con grande disinvoltura, i sacri ‘diritti individuali’ proprio come il censore ecclesiastico, che non dava tregua a libertini e a peccatori, misconosceva le libertà erompenti dalle viscere di una società sempre più ardita e protesa a «diventar del mondo esperta». Il Principe moderno non operava, certo, per i begli occhi dei sudditi, né aveva a cuore i loro interessi e i loro ‘diritti’, ma, rivendicando l’autonomia della politica, sottraeva i sudditi alle scomuniche e ai vincoli tradizionali, li rendeva membri di cerchie sociali diverse la cui stessa pluralità finiva per essere il garante più sicuro della loro autonomia. Oggi tutto questo va scomparendo, la ‘ragion giudiziaria’ assorbe tutte le altre: la salus rei publicae non è più la suprema lex, ne ha preso il posto la salus juris ma il risultato è lo stesso. La minaccia più grande alla libertà individuale proviene, come sempre, dall’imperialismo di una delle sfere vitali – politica, economia, diritto, scienza, religione, arte etc. – sulle altre ma oggi la scomparsa di quell’istanza riequilibriatrice rappresentata dalla ‘comunità politica’, che si faceva carico e contemperava le esigenze di tutte le parti sociali in un compromesso sempre instabile e ogni volta da ricostituire ma sempre poi ricostituito in qualche modo, prefigura una crisi che non è solo di regime politico ma di civiltà. Purtroppo lo sforzo lascia delle tracce. Nel matrimonio il superamento del contrasto da un lato permette i risultati positivi dell’istituzione, dall’altro non è per ciò stesso dimenticato. È questa la ragione per cui, se poi una coppia arriva al divorzio, le due parti sono spesso tanto accanite l’una contro l’altra. Non è che siano passate dall’amore all’odio, come si dice, è che sono passate dalla volontà di sopportare ciò che di negativo impone la convivenza alla volontà di presentare il conto di tutto. Anche di ciò che si è subito in passato. Ecco perché la lista delle doglianze è infinita. Questo atteggiamento per cui si interpreta la realtà in modo fazioso, positivamente o negativamente che sia, fa curiosamente pensare a una caratteristica della professione forense che stupisce molti. La gente si chiede come faccia un avvocato a sposare la tesi del suo cliente con tanto ardore, mentre se avesse ricevuto l’incarico della difesa dall’avversario oggi difenderebbe con pari ardore la tesi opposta. La meraviglia è fuor di luogo. Agli avvocati si richiede di mostrare al giudice l’uno tutto ciò che è bianco e l’altro tutto ciò che è nero, del quadro della realtà, in modo che nessun dato sia trascurato e che le ragioni dei contendenti abbiano sufficiente illustrazione. In occasione di una scissione politica i membri di ogni fazione hanno inoltre il preciso interesse di spiegare ai sostenitori - e un giorno agli elettori - perché sono rimasti nel vecchio partito o perché sono transitati nella nuova formazione: e questo conduce necessariamente ad una condanna della controparte. Infatti, se non ci fossero ragioni di critica, non ci sarebbe stata nemmeno la scissione. Coloro che gioiscono alla rivelazione che all’interno del partito avversario non ci si amava teneramente, farebbero bene a pensare che la cosa avviene anche all’interno degli altri partiti, incluso il loro. Le famiglie per i terzi sono il nido degli affetti, per chi c’è dentro e ne conosce le magagne sono a volte nidi di vipere. CASTA Di Massimiliano Scafi per il Giornale «In questi sei mesi di governo ho visto cose che voi umani...». Non è Blade Runner, è Enrico Letta che parla. Non dà la caccia a replicanti e transformer, ma trasforma gli ingegneri idraulici in supermanager della cultura. Non è un film di fantascienza, è la realtà. Pier Francesco Pinelli, una carriera allEni e allErg, grande esperto di start-up e di piattaforme digitali, è infatti il nuovo commissario straordinario di governo per le fondazioni lirico-sinfoniche. Scelto dal premier, nominato per decreto da Massimo Bray, approvato da Fabrizio Saccommani, Pinelli cercherà di salvare i dissessati bilanci delle fondazioni. Una scelta sul filo della competenza? Chissà, magari serviva proprio un ingegnere idraulico per sbloccare lerogazione di liquidi.Il suo compenso non potrà superare i centomila euro e dovrà gestire i 75 milioni del fondo di rotazione. La battuta è già pronta: sicuramente capisce di tubi ma forse di opere e teatri non capisce un tubo. Dubbi, mugugni, perplessità, esternati persino dal senatore del Pd Andrea Marcucci, presidente della commissione Cultura di Palazzo Madama. «Mi auguro che il profilo scelto sia quello giusto - dice - e che sia possibile una collaborazione fattiva con il Parlamento. Si tratta infatti di un incarico molto delicato, vista la situazione complessiva del settore e lurgenza con la quale molti teatri stanno aspettando i fondi previsti dalla legge “Valore e cultura”». Luomo giusto al posto giusto? Marcucci sottolineando di aver «appreso della nomina dalla agenzie di stampa», ne prende le distanze. Politicamente, Pier Francesco Pinelli passa per un uomo di Letta ma per il Mibact non si tratta di un corpo estraneo. «Il neo commissario - si legge nel comunicato del ministero - è stato per molti anni consulente sui temi delleconomia, della cultura, interessandosi principalmente di organizzazione e sviluppo di differenti società operanti nei settori dei beni culturali». Sarà. Il Parlamento, tagliato fuori dalla decisione, lo aspetta con il fucile puntato. «La commissione - spiega ancora Marcucci - valuterà nella prima seduta utile il curriculum del manager, così come avevamo già assicurato al ministro Bray». Dal fronte dei teatri lirici, le prime reazioni sembrano invece positive. «Dobbiamo essere grati per questa scelta che accolgo con grandissimo favore - dice Francesco Bianchi, commissario della Fondazione del Maggio fiorentino - Era previsto dalla legge ed è pure unottima nomina. Pinelli ha le competenze per svolgere questo lavoro. Tecnicamente è molto preparato, sono convinto che potremo fare buone cose insieme, nel rispetto dei ruoli». Bravo, bravissimo. Ma pure Bianchi ammette che Pinelli con il mondo della lirica ha poco a che vedere. «Sì, è volto nuovo, è uno al di fuori dellambiente delle fondazioni. Questo però non è un difetto. Anzi, gli assicurerà imparzialità di giudizio». Novità pure per la Scala, che godrà di un emendamento ad hoc. «Tenerla insieme alle altre istituzioni sinfoniche è stato un errore», assicura Letta. Nel nostro Paese, aggiunge «con la cultura si deve mangiare». Da qui lidea di scegliere ogni anno «il progetto di una città che diventi la capitale italiana della cultura», in modo da «metterle in concorrenza e stimolare gli investimenti privati». Di Emiliano Fittipaldi per lEspresso Il pirata dei Caraibi tornerà presto sullisola del tesoro. E, come accade al cinema, scenderà dalla nave con i ceppi ai polsi e un drappello di guardie inglesi a scortarlo in gabbia. Michael Misick non avrà le fattezze di Jack Sparrow, ma la sua storia è assai simile a quella del bucaniere interpretato da Johnny Depp. Potente premier di Turks and Caicos, minuscolo atollo e paradiso fiscale a unora di volo dalla Florida, il giovane leader del Partito nazionale progressista, che prima di entrare in politica vantava un conto in banca da 50 mila dollari, nel 2009 è scappato in Brasile con un mega bottino da 180 milioni. Soldi sottratti allo Stato (un protettorato britannico) grazie a tangenti, concussioni e ruberie che Misick ha messo a segno tra il 2003 e il 2009, quando era primo ministro in carica. Qualche giorno fa la Corte costituzionale brasiliana ha però dato lok definitivo alla sua estradizione, e Michael dovrà lasciare le spiagge di Ipanema e tornare in patria davanti ai giudici. Che, come ha scoperto lEspresso, gli chiederanno conto anche dei soldi ricevuti dai figli di Francesco Bellavista Caltagirone, il costruttore romano che controlla il gruppo Acqua Marcia. La storia del novello pirata (che non rischia la forca, ma solo qualche lustro di galera) ha sconvolto il tranquillo tran-tran dellarcipelago tropicale, patria di finanziarie offshore e di vip come Bruce Willis e Bill Clinton, che amano svernare sulle spiagge coralline. La vicenda è iniziata nel 2008, quando il ministero degli Esteri di Londra diede il via a unindagine (pubblicata nel 2011 con il nome di The Auld report, dal nome del capo della commissione dinchiesta sir Robert Auld) sui presunti abusi di Misick e di altri colleghi del suo esecutivo. Gli inglesi scoprono di tutto: il primo ministro e suo fratello Chal si sarebbero fatti pagare da aziende americane ed europee per favorire i loro business sullisola, mentre i fondi pubblici dellex colonia venivano utilizzati per gli aerei privati di Michael e per la Rolls-Royce Phantom che il premier regalava a sua moglie (unattrice di soap a cui lufficio del turismo girò 300 mila dollari per diventare testimonial di Turks and Caicos). Anche altri ministri hanno partecipato al banchetto, che ha portato larcipelago e la sua banca più importante, la Tci, sullorlo della bancarotta. Tra le varie accuse da cui Misick dovrà difendersi cè anche quella di aver intascato una tangente da 250 mila dollari da Ignazio e Gaetano Bellavista Caltagirone, due dei cinque figli di Francesco, finito nei guai, in Italia, per evasione fiscale e per le indagini giudiziarie sui porti di Imperia e di Fiumicino. Negli atti della commissione di inchiesta di sir Auld si legge che il 29 luglio 2005 Misick ha ottenuto un «presunto prestito dai fratelli Caltagirone (che vivono tra Roma e Miami ma sono fuori dallazienda del padre, ndr.) di 250 mila dollari, denaro transitato sul conto bancario del fratello dellallora primo ministro, Chal». Secondo gli inglesi la somma potrebbe essere «un possibile pagamento corruttivo» per favorire gli «interessi immobiliari dei fratelli Caltagirone»: il prestito, infatti, non sarebbe mai stato restituito, né Misick lo avrebbe mai dichiarato alle autorità. Gli inglesi ipotizzano che lex premier fosse in affari con i Caltagirone e che avesse chiesto la tangente per autorizzare gli imprenditori italiani a costruire un albergo di lusso nella cittadina di Providenciales, zona in cui papà Francesco possiede da tempo una villa vista mare. In effetti - come confermano fonti dellattuale governo - la famiglia romana progettava tramite una società estera di edificare un residence a cinque stelle, dotato di piscina, ristorante, bar, sauna e spa. I lavori del resort, però, terminarono quasi subito per mancanza di soldi. Se il pirata di Turks and Caicos è alla sbarra, a Roma Acqua Marcia ha rischiato il fallimento ed è oggi in concordato preventivo. LUNANELPOZZOSENZAFONDO Di Fabio Pavesi per Il Sole 24 Ore È la più grande azienda di trasporto pubblico in Italia, ma a livello contabile è un pozzo senza fondo, una sorta di buco nero che inghiotte e consuma risorse milionarie. Anche questanno lAtac di Roma chiuderà in perdita. Si stima per almeno 200 milioni. Un caso? Tuttaltro, dato che negli ultimi 10 anni non cè stato mai un bilancio in utile. Se si sommano i 200 milioni di buco di questanno alle perdite di 2011 e 2012 siamo a mezzo miliardo di rosso. In tre anni. Ma come dimenticare la maxi-perdita del 2010 da 319 milioni e quella del 2009 da 91? E così via fin dal 2003. Un decennio che è costato quasi 1,6 miliardi di perdite cumulate. Una cifra mostruosa, più delle perdite da 1,2 miliardi della disastrata Alitalia. Il costo è già stato pagato una volta dalla collettività. Nel 2010 Atac si è mangiata tutto il patrimonio e due anni fa è stata ricapitalizzata per un miliardo. Altri due anni come il 2013 e Atac sarà di nuovo senza capitale. Vista così, lo scandalo della truffa dei biglietti falsi che sta agitando la città e prima ancora la Parentopoli delle assunzioni facili, appaiono solo la punta delliceberg di un sistema malato in profondità. Da Atac sono passate giunte di centrosinistra e centrodestra e una decina di amministratori delegati succedutesi senza che nulla cambiasse. Anzi. La situazione è andata peggiorando. Basta sfogliare le relazioni dei collegi sindacali in questi anni. Già da anni i controllori dei bilanci mettevano in guardia: ricavi troppo bassi e costi troppo elevati. Impossibile in queste condizioni chiudere senza perdite. Già i ricavi. La truffa dei biglietti clonati ha distratto risorse ma il nodo gordiano è più profondo. Il nuovo assessore alla Mobilità, Guido Improta, denuncia senza mezzi termini come levasione tariffaria sia del 30-40%. La prova? Atac ha aumentato il prezzo del biglietto a 1,5 euro poco più di un anno e mezzo fa. I ricavi dalla vendita dei ticket avrebbero dovuto salire a parità di traffico del 50%. Non è successo nulla. Anzi i ricavi da biglietti valgono solo il 30% del miliardo circa di fatturato. Mezzo miliardo viene dal contributo pubblico del contratto di servizio con Comune e Regione. È vero che quei soldi spesso rimangono sulla carta come crediti perché la Regione (soprattutto) tarda a versare, ma è sempre una poderosa stampella pubblica. Nessuna azienda di trasporti in Italia riceve mezzo miliardo lanno di sussidi pubblici. E nonostante ciò si sono cumulate perdite. Si poteva fare di più? Certo. Ma se su un organico di 12mila dipendenti (che costano 550 milioni lanno) fai fare il controllore a poco più di 70 persone significa che a nessuno degli amministratori è mai interessato contrastare levasione tariffaria. Oltre mille dipendenti stanno alla scrivania e uno degli ultimi amministratori delegati di Atac ha detto che il 30% sono di troppo. Ma a nessuno è venuto in mente di potenziare gli organici per il controllo dei biglietti. Del resto gli amministratori, con rarissime eccezioni, hanno più pensato a loro stessi che allazienda. Basti pensare a uno degli amministratori delegati degli anni passati, Bertucci che, non contento della retribuzione (oltre 300mila euro) da ad, si fece approvare dal cda nel 2010 un contratto di consulenza in materia giuslavoristica da 219mila euro. Dovette intervenire il collegio sindacale a stoppare la maxi-consulenza. O a Giocchino Gabbuti, passato da ad di Atac ad ad di Atac patrimonio che nel 2013 oltre al fisso di 350mila euro si è fatto riconoscere un premio da 245mila euro. Premio per cosa? Per aver guidato per anni il malato cronico di Atac senza successo? Così funziona una municipalizzata. Vertici strapagati (solo ora con la nuova Giunta è stato messo un tetto da 200mila euro alle retribuzioni dei massimi dirigenti) e incapaci di affrontare le difficoltà in cui versa strutturalmente lazienda romana; personale in eccesso e mal distribuito e continui casi di malagestio. Più volte i collegi sindacali sono intervenuti nel tentare di mettere un freno a ruberie varie. Come quella del 2011 sulla gara per i servizi di pulizia: un appalto da 95 milioni gonfiato di oltre il 30% rispetto ai valori sul mercato. O la denuncia sullacquisto di mille dischi freni (7 milioni di euro) che in realtà costavano meno di 2 milioni. Per non parlare (siamo nel 2009) delle consulenze varie per oltre 20 milioni di euro a fronte di risorse interne per 12mila unità che costano di loro oltre 500 milioni lanno. E ancora. Gli effetti di un derivato capestro (Us Cross border lease) stipulato nel 2003, definito temerario dai revisori dei conti e chiuso di recente con una perdita per Atac di 28 milioni. Sono solo alcuni dei casi palesi di malagestio in un poderoso cahier de doléances che contrassegna in tutti questi anni i verbali dei collegi sindacali. La politica (bipartisan prima con Veltroni poi con Alemanno) non ha fatto nulla per arginare la deriva di inefficienza e cattiva gestione di Atac, così come nessuno della decina di amministratori delegati e presidenti succedutesi in due lustri ha mai inciso sulla struttura di unazienda che se fosse sul mercato sarebbe fallita molti anni fa. Ora Atac ha visto rinnovare laffidamento al 2019 del servizio pubblico. Se non si cambia rotta al più presto il costo per la collettività sarà esoso. Tra contributi pubblici e perdite Atac è costata ai romani 6,4 miliardi negli ultimi 10 anni. Si spera che il copione non si ripeta di nuovo. INKIESTA DAI VERBALI LIGRESTI Il giorno 16 aprile 2012 alle ore 15,10, in Milano Uffici della P.G. sede, in Piazza Umanitaria, avanti al Pubblico Ministero dotto Luigi ORSI è comparso FULVIO GISMONDI, docente universitario, attuario libero professionista. D.: Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr) le spiegò qualcosa nel merito dei numeri delloperazione prospettata? R.: Come le ho detto il senso del discorso che mi ha fatto Cimbri era quello di rappresentarmi che si trattava di unoperazione di sistema la riuscita della quale dipende dai concambi. A questo proposito Cimbri è stato estremamente chiaro perché mi ha detto che Unipol avrebbe proceduto a condizione che allesito della fusione controllasse il 70% della nuova società. D.: Erano presenti altre persone al vostro dialogo? R.: Nellufficio dove abbiamo parlato non cera nessuno, però nel corso della conversazione Cimbri ha telefonato a Nagel che ha contattato con il cellulare e con il quale ha poi parlato su rete fissa. Cimbri ha detto al suo interlocutore che era a colloquio con me definendomi come il professore che tu conosci. Nel corso di quella telefonata Cimbri. ha raccontato a Nagel lesito del suo colloquio con Giannini (Giancarlo, ex presidente Isvap), del tutto positivo. D.: Allinterno dellIsvap chi sono i dirigenti o funzionari che si occupano del procedimento di autorizzazione della fusione Unipol-Fonsai? R.: Se ne occupano le due articolazioni della vigilanza rispettivamente guidate da Giovanni Cucinotta e Roberto Roberti. Il primo si occupa di Unipol e il secondo di Fonsai. D.: Che lei sappia, Cucinotta e Roberti sono allineati alle indicazioni pregiudiziali di Giannini in ordine allautorizzazione di cui parliamo? R.: Intanto devo dire che Giannini mostra di essere favorevole alloperazione, come Cimbri mi ha riferito. Ma non va sottovalutata la posizione della dottoressa Mazzarella la quale, se possibile, mostra un atteggiamento ancora più esplicitamente favorevole. La dottoressa Mazzarella ha una familiarità esibita con Nagel. Posso tuttavia ricordare un episodio significativo della speciale relazione che Nagel ha instaurato con i vertici dell Isvap. Il 15 marzo scorso ho incontrato Nagel negli uffici di Mediobanca a Milano. Ragione dell incontro era quello di discutere i lavori che sono in corso e che sono mirati alla fusione. Nagel mi ha rappresentato la sua preoccupazione per la serietà dellimpegno dei Ligresti nei confronti di Unipol e mi ha chiesto cosa pensassi in proposito. lo gli ho detto quello che pensavo e che penso e cioè che è legittimo dubitare della coerenza dei Ligresti, i quali hanno sì stipulato un accordo con Unipol ma non sembrano perfettamente allineati alla sua esecuzione. Non mi è chiaro perché i Ligresti siano così poco prevedibili, tuttavia limpressione è quella della loro inaffidabilità. Nagel mi ha detto qualcosa come bisogna che la vigilanza dia un messaggio ai Ligresti e li riporti in carreggiata. ln effetti il giorno dopo, venerdì 16 marzo, lui si è recato in lsvap e quello stesso giorno è partita la lettera indirizzata a Premafin da parte di Isvap. Di Alberto Statera per la Repubblica Via il prefetto! era il titolo di un articolo di Luigi Einaudi pubblicato sotto pseudonimo nel 1944, che proponeva labolizione del ruolo prefettizio introdotto con decreto napoleonico del 1802. Viva il prefetto! è invece sempre stato il motto del clan di Paternò, che ha coccolato in ogni modo schiere di cosiddetti servitori dello Stato: alti burocrati, direttori generali, magistrati amministrativi, autorità di controllo. Ma soprattutto prefetti. Non solo Annamaria Cancellieri. Ma una generazione intera di quegli alti burocrati che in ogni parte dItalia sono spesso lanello di congiunzione tra la politica e le borghesie locali del potere e del denaro, che possono aprire o chiudere le porte di relazioni, carriere e spesso di affari. Annamaria Cancellieri, che mercoledì alla Camera ha proclamato la sua innocenza con parola di re, non è lunico prefetto che alberga da decenni nel cuore della famiglia Ligresti, che lei a sua volta ha nel cuore. Nella scuderia prefettizia ligrestiana tra i più intimi figurano Gian Valerio Lombardi e Bruno Ferrante, entrambi ex prefetti di Milano. Ed entrambi, come il ministro Cancellieri, abituali ospiti di riguardo dei Ligresti alla Cascina di Milano o al Tanka Village di Villasimius. Ma non proprio innocenti. Il primo, dopo aver guidato la prefettura di Firenze, dove Ligresti andò sotto processo per lo scandalo dellarea di Castello, approdò a Milano dove si distinse per aver ricevuto come se fosse unalta autorità Marysthell Garcia Polanco, una delle olgettine delle cene eleganti di Arcore, facendole addirittura parcheggiare lauto - onore riservato a pochi - allinterno della prefettura. Il figlio Stefano, avvocato, ha lavorato per Ligresti, come il figlio della Cancellieri. Il prefetto Ferrante, sconfitto dalla Moratti nella corsa a sindaco di Milano, dai Ligresti è stato addirittura assunto in una società del gruppo, prima di passare alla presidenza dellIlva. Sono i nipotini di Enzo Vicari, famoso prefetto dellera democristiana che Cossiga con ironia preconizzava Papa e che finì la carriera come amministratore delegato del gruppo Ligresti, che seguono le orme dellaugusto predecessore perché hanno scoperto che nellitalica democrazia di relazione da servitori dello Stato si fa presto a diventare uomini (o donne) di potere. Annamaria sarà pure innocente, come auto certifica dicendo da controllore di sé stessa che se avesse riscontrato qualche propria azione meno che corretta si sarebbe dimessa di sua iniziativa. E don Salvatore potrebbe mentire quando dice che le ha dato un aiutino con Berlusconi. Ma della scuola dei nipotini di Vicari il ministro fa parte a pieno titolo. Correva il 1987 quando nella Milano craxiana da bere, di cui la famiglia Ligresti era azionista di maggioranza, la viceprefetto faceva le pierre in prefettura, ma anche per Antonino Ligresti, fratello di don Salvatore e proprietario di cliniche. Almeno questa fu limpressione che ebbe il giornalista che intervistava Antonino con Annamaria al fianco. Il Ligresti fratello allora non era un qualunque medico vicino di casa dei Cancellieri- Peluso al 161 di via Ripamonti, ma era già un ricco imprenditore proprietario di case di cura, un impero che andò via via crescendo fino allincidente della camera iperbarica del Galeazzi, che nel 1997 uccise 11 persone. Condannato per quellincidente, cedette lintero gruppo per 290 miliardi a Giuseppe Rotelli e si trasferì in Francia, dove ha creato la Générale de Santé, 106 ospedali e centri di riabilitazione con 24 mila dipendenti, tra i cui azionisti figurano Mediobanca e la De Agostini, con Lorenzo Pellicioli vicepresidente. Quando lestate scorsa intervenne presso la Cancellieri per sollecitare lattenzione in favore di Giulia Maria che non sopportava il regime carcerario, Antonino stava perfezionando la vendita di 28 ospedali psichiatrici in Francia, un affare da centinaia di milioni, questa volta di euro. Per cui è un po risibile la sottolineatura che il ministro ha fatto dellantica professione di medico della mutua di Antonino, come a lasciare intendere che le telefonate con lei e con il marito Sebastiano Peluso riguardassero la salute di uno dei due coniugi. Niente cure, ma solidarietà si, tanta. Perché quando nel 1981 Sebastiano Peluso finì in prigione a Lodi, lamico Antonino si mise a disposizione. Il farmacista fu arrestato per lo scandalo delle fustelle false spacciate nella sua farmacia di via Val di Sole, ma ne uscì senza neanche la decadenza della licenza grazie a una sentenza del Consiglio di Stato ottenuta dallavvocato Carlo Malinconico, che poi fu sottosegretario nel governo Monti insieme alla Cancellieri e incappò nello scandalo delle vacanze di lusso pagate dalla Cricca degli appalti. Certe volte sembra che tutto si tenga nei circoli del potere. Non sembra però più tempo di amorosi sensi tra le due famiglie di establishment sopravvissute ai tempi di Craxi. Il capostipite Salvatore lancia sospetti sullintegrità del ministro, lasciando intendere di aver favorito la sua straordinaria carriera. La sua compagna Gabriella Fragni, intercettata al telefono con la figlia, dopo la telefonata umanitaria con la Cancellieri, rincara: Gli ho detto: ma non ti vergogni di farti vedere adesso? Tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona. Ecco, don Salvatore e la sua compagna forse millantano, ma è certo che mentre il gruppo Ligresti franava massacrato dalla folle megalomania della famiglia, don Totò era ancora in grado, come ai tempi di Craxi, di mettere a frutto il rapporto con Berlusconi, intervenire, inquinare e forse persino suggerire nomi di ministri. Annamaria Cancellieri è una donna simpatica, forse è stata anche una brava funzionaria dello Stato. Ma non si può fare a meno di chiedersi: come può un prefetto (e poi un ministro dellInterno e della Giustizia) intrattenere rapporti così intimi con un pregiudicato pluricondannato e con la sua famiglia? La risposta è sconfortante, perché può solo essere: così fan tutti in una democrazia di relazione, nella quale contano soprattutto clientela e parentela, circoli di potere, gruppi dinteresse, clan arroganti che compongono unoligarchia sfacciata. Le reti di relazioni si fanno così network di complicità. Volete vedere che il caso Cancellieri non è affatto chiuso? INTERNI CAVALIERE-Da La Stampa.it «Non si ravvisano gli estremi per una nuova convocazione del Consiglio di Presidenza ai fini del prosieguo di un dibattito su una questione già dichiarata formalmente chiusa il 6 novembre». Lo scrive Pietro Grasso in risposta ai senatori ex Pdl che avevano chiesto una nuova riunione e un rinvio del voto sulla decadenza di Berlusconi. La replica del centrodestra arriva a stretto giro attraverso Schifani: «Lei considera chiusa la vicenda ma i lavori non erano stati conclusi nellufficio di presidenza perchè è mancato il numero legale. Nel momento poi in cui viene violato il segreto della camera di consiglio cè bisogno di una risposta, davanti a tali anomalie bisogna sapere qual è lorganismo che sanziona queste anomalie. La sua risposta è piena di dotti richiami al regolamento ma è priva di una risposta al tema sostanziale» ha concluso Schifani. Nel pomeriggio interviene anche il leader del Nuovo centrodestra Angelino Alfano: «Sulla decadenza non ci muoveremo di un millimetro. In Aula faremo battaglia fino in fondo». Angelino Alfano dà la linea ai senatori di Ncd in vista del 27 novembre e, secondo quanto viene riferito, dà il via libera alla presentazione di odg o pregiudiziali contro la decadenza. Ma sottolinea che il voto non avrà riflessi sul governo. Nel corso dellassemblea dei senatori del Nuovo centrodestra, convocata per eleggere il capogruppo e definire le questioni organizzative, il vicepremier Angelino Alfano, secondo quanto si apprende, dedica un passaggio anche allimminente voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi. E ribadisce che anche dopo la separazione da Forza Italia, la linea del gruppo resta immutata: no alla decadenza. I senatori di Ncd si preparano dunque a presentare ordini del giorno o questioni pregiudiziali in Aula per contestare la perdita della carica di senatore da parte di Berlusconi per effetto della legge Severino. Ma resta fermo il principio per cui, anche se passerà il sì alla decadenza, ciò non potrà influire sulla tenuta del governo, che per Ncd non è in discussione ECONOMIA 1. MISTER PRADA: LA CRISI È UN FALSO IDEOLOGICO Da Liberoquotidiano «Per me la crisi non cè, è un falso ideologico. È stata inventata per giustificare le nostre insufficienze». È la tesi dellamministratore delegato di Prada, Patrizio Bertelli, intervenuto agli Stati generali della cultura a Milano. Secondo lamministratore delegato di Prada «le persone non vogliono accettare che il mondo è cambiato, si è globalizzato». La crisi dunque è una «scusa», dietro la quale si trincerano quanti «si rifiutano di affrontare le sfide di un mondo globalizzato». Secondo Bertelli «il Paese si è incagliato a un punto tale che non riesce a venirne fuori » e non è in grado neppure di valorizzare una delle risorse che ci potrebbero far recuperare il terreno perduto, vale a dire il turismo. 2. BERTELLI: INVESTIRE NEL LUNGO PERIODO E GUARDARE IL MONDO di Marigia Mangano per Il Sole 24 Ore Patrizio Bertelli, amministratore delegato del gruppo Prada, tenta di evitare giudizi e polemiche sulla gestione del nostro patrimonio culturale - «Non voglio dare nessuna opinione» -. Poi però snocciola numeri e dati, uno dopo laltro, che parlano da soli e dipingono un quadro che dimostra come lItalia non sia allineata con gli altri Paesi europei e alla fine investa meno in cultura, istruzione e anche nel turismo, sebbene questo rappresenti circa il 9,5% del Pil dallalto dei suoi 232,37 miliardi di fatturato. E così dal palco della seconda edizione degli Stati Generali della Cultura, organizzata dal Sole 24 Ore in collaborazione con Fondazione Roma, Bertelli decide di lanciare un messaggio preciso: «Servono investimenti di lungo periodo destinati alla cultura e va affrontato il problema sul territorio». Il manager, appassionato di arte e impegnato in prima persona insieme alla moglie Miuccia Prada nel far funzionare alla perfezione quel binomio moda-cultura attraverso il sostegno di progetti e investimenti nel mondo dellarte contemporanea, dellarchitettura e della letteratura, sceglie un approccio scientifico per spiegare cosa non funziona in Italia quando si parla di cultura. «Non ho mai capito cosa sia successo al Paese o alla classe politica che non ha protetto il proprio patrimonio», ha dichiarato. Fatto ancor più grave se si pensa, come evidenzia a più riprese il manager, che lItalia, su questo terreno, ha teoricamente un vantaggio rispetto al resto del mondo grazie al patrimonio storico e culturale che vanta. In proposito racconta un aneddoto: «Ho conosciuto un dirigente Audi che mi ha detto: noi tedeschi nasciamo con il motore in testa. Io ho risposto: e noi italiani nasciamo con la cultura in testa». Un motivo in più per dare alla cultura quei mezzi e quegli strumenti che servono per farle trovare una propria identità nel panorama mondiale. Tanto più se si pensa che il rilancio del patrimonio culturale, appunto, è «la base di partenza per le nuove generazioni che hanno la fortuna di avere un dna storico che altri Paesi non hanno e non è replicabile». Fin qui la premessa. Poi i fatti. Lamministratore delegato di Prada, che ha annunciato che nel 2014 Prada assumerà 500 giovani, ha quindi aperto una finestra sui numeri. «La spesa in istruzione, ricerca, cultura, ad esempio - ha dichiarato - in Gran Bretagna è di 265 miliardi, in Francia di 247 miliardi, in Germania di 226 miliardi, in Italia di 137 miliardi e in Spagna di 132 miliardi». Anche sul fronte del turismo lItalia è messa peggio visto che quello che gli italiani spendono allestero è 30,8 miliardi, mentre quello che gli stranieri spendono in Italia è di 20,5 miliardi. Esiste insomma un saldo negativo di 10 miliardi. In questo preciso ambito, secondo Bertelli, occorrerebbe attirare più stranieri in Italia: «Gli aeroporti di Roma e Milano attraggono 78,7 milioni di persone allanno, contro i 103 milioni della sola Londra, i 93 di Francoforte e Monaco, gli 88,8 di Parigi e gli 88 di Madrid insieme a Barcellona». Ma se si guardano i voli che partono dagli aeroporti verso le principali località del mondo, il confronto è clamoroso, con Roma che non offre voli tutti i giorni verso lOriente e Milano che si ferma a 7 voli per Hong Kong contro i 20 di Parigi e i 56 di Londra. Un sistema che deve essere radicalmente cambiato, secondo il manager, per poter incentivare gli stranieri a visitare il Paese e investirci. A livello di musei, ha sottolineato ancora Bertelli, se la Città proibita di Pechino attira 12 milioni di visitatori, il Louvre 9,7 milioni e il Metropolitan di New York 6,1 milioni, i Musei Vaticani attirano poco più di 5 milioni e gli Uffizi di Firenze solamente 1,7 milioni di persone. «Io ci vado spesso agli Uffizi - ha detto Bertelli - ma purtroppo trovo spesso una cassa chiusa, la fila o qualcosa che non funziona». Insomma, e qui si arriva allaffresco conclusivo del manager del gruppo Prada, «il vero problema è del sistema italiano: un meccanismo organizzativo disatteso e sbagliato non può generare ricchezza, bensì genera un danno enorme». Da qui la necessità di investimenti di lungo periodo, anche se - ha avvertito Bertelli - «questo Paese è incagliato, soffre e non riesce a venirne fuori. Qualcuno dovrebbe accettare che il mondo è globalizzato». Poi, in chiusura, laffondo: «Non sono nemmeno convinto, come tutti dicono, che si viva una crisi: non cè la crisi, ma questa è solo un modo per giustificare le disattenzioni e le inefficienze e per non confrontarsi con un mondo globalizzato». CULTURA LIBRI di r.d’agostino-Basta con gli inutili thriller che ti costringono a leggere 200 pagine per rivelarti che il colpevole è il maggiordomo. Provate a seguire dappresso il commissario Manente, protagonista de La tela del Doge (Cairo editore), sulle tracce di un assassino e non scoprirete solo una fitta trama criminale nella quale si muovono i superstiti della Mala del Brenta, qualche ragazzo traviato della Venezia-bene e anche un politico di primo piano: scoprirete anche, attraversando con il segugio il Ponte delle Tette, il Campo di S. Isepo o il Rio terrà degli Assassini, calli e fondamenta di una Venezia minore, non ancora percorsa da frotte di turisti, eppure ricca di storia e di leggende. CHIESA IOR di r.d’agostino-Ior in dirittura di arrivo per diventare una banca normale dalla gestione trasparente; lApsa, gestione immobiliare e patrimonio finanziario, sotto la lente di Promontory, la più importante società di consulenza finanziaria americana. Il Governatorato al setaccio del miglior team internazionale a disposizione di EY (già Ernst & Young). In arrivo altre manovre per efficentare tutti gli organismi economici e finanziari della Santa Sede. A questo punto, il presidente dello Ior, il glaciale ‘Von Iceberg, può ritenersi soddisfatto. Ha gestito due operazioni fondamentali: il manuale della trasparenza e la redazione dello statuto del nuovo regolamento dellAIF (Autorità Informazione Finanziaria). E Papa Bergoglio se lo coccola, felice, a Santa Marta. Dove è stato visto recarsi ultimamente con faldoni e dossier sotto il braccio. AllApsa - operazione passata dai giornali in sordina ma è la vera rivoluzione messa a punto dal papa - le nuove regole rendono impossibile la possibilità di condurre in porto operazioni poco trasparenti, non in linea con le regole della finanza internazionale. Chi è lautore di tale riforma? Il cardinale Calcagno. Rinnegato il suo mentore Bertone a suon di critiche, Calcagno è riuscito a rientrare nelle grazie del Santo Padre, tanto da essere uno dei pochi a aver conservato il posto (per il momento), dopo il repulisti papalino. Va detto che il Sacro Bordello non va addebitato unicamente a Tarcisio Bertone, come stanno pitturando ora i giornali. Gli stessi che, imbeccati opportunamente dalla Curia, lo osannavano appena un anno fa. Bertone era di sicuro un malato di potere ma lo sapeva condividere lasciando autonomia gestionale ai vari cardinali posizionati a capo dei dicasteri (Versaldi, Piacenza, Filoni, Calcagno); che pur di conservare il posto hanno tempestivamente provveduto a girargli le spalle. Sic transit gloria Tarcisio... Amareggiato dal tradimento, Bertone continuerà a scrivere libri avendo a disposizione ben 300 mq del suo nuovo ‘appartamento con fantasma: prima ci abitava il capo dei gendarmi pontifici, il commedatore Cibin, noto per le scorribande cui si abbandonava con un Wojtyla in abiti civili, in libera uscita dalla capitale). Intanto, la commissione pontificia delle riforme economiche e amministrative, capitanata dal monsignore Vallejo con al seguito la camerlenga Immacolata Chaouqui, avvistata in sella a una moto Yamaha con giubbotto di pelle, casco integrale e dossier in cartella mentre scorrazza nei quartieri papalini, attende i risultati della bonifica del Vaticano per raccomandare al papa, come si legge sulla nota del Governatorato, le migliori soluzioni per chiudere un brutto capitolo della Chiesa. ESTERI IRAN-di Daniele Raineri per Il Foglio Delusione al colosso dellenergia francese Areva, che a fine ottobre è stato sconfitto dai russi di Rosatom nella gara dappalto per costruire la prima centrale nucleare della Giordania, pur essendo sostenuto con forza dal governo di Parigi. Non è la prima volta che Areva, controllata al 90 per cento dallo stato, fallisce lingresso in medio oriente. Nel 2009 fu battuta dai sudcoreani per un contratto da quattro reattori nucleari per uso civile e quaranta miliardi di dollari negli Emirati arabi uniti. Questa sconfitta in Giordania però squilla come un segnale dallarme per lazienda francese, perché è accaduta sotto gli occhi dei sauditi, che mettevano una parte dei soldi nel contratto giordano ora finito ai russi. Questa gara è il preludio a un appalto decisamente più grande e remunerativo. LArabia Saudita pensa al nucleare perché ha un consumo elettrico che cresce dell8 per cento ogni anno e ha un piano per passare allenergia atomica e risparmiare sul petrolio - destinato invece al mercato internazionale. Il piano prevede, per ora soltanto sulla carta, la costruzione di 16 reattori nucleari in ventanni e una gara dappalto che vale 80 miliardi di dollari. Areva non toglie gli occhi di dosso al super contratto saudita prossimo venturo, assieme a Edf - Electricité de France, la più grande azienda produttrice e distributrice di energia della Francia. Nei primi mesi del 2011 le due aziende francesi hanno aperto un ufficio a Riad, capitale saudita, per offrire esperienza tecnologica e formazione del personale e per prendere contatti con le imprese locali che concorreranno per i subappalti. Elogi ai guastafeste atomici dellEliseo Il terzo incontro per i negoziati atomici (da settembre) che finisce oggi a Ginevra - ma forse si protrarrà nel fine settimana - tra lIran e il gruppo dei Cinque più uno è diverso dal primo perché cè meno ottimismo e perché al tavolo si presenta una coalizione neonata: quella formata da Francia, Arabia Saudita e Israele. I tre paesi - ma soltanto la Francia fa parte del negoziato e può prendere posizione - temono che gli americani siano troppo teneri con Teheran e che il patto finirà per essere troppo vantaggioso per gli iraniani e non fermerà davvero il loro programma atomico militare. Questa alleanza è spuntata a sorpresa agli ultimi negoziati, facendoli fallire - secondo la versione di molti analisti, altri sostengono che fosse lIran a pretendere troppo. Il nuovo asse Parigi, Riad e Gerusalemme ha riempito i titoli per due settimane. Dalla visita trionfale del presidente francese, François Hollande, in Israele, dove è stato portato con una deviazione fuori dal programma originale a parlare alla Knesset, il Parlamento israeliano, che gli ha riservato una standing ovation; alle esercitazioni congiunte tra forze speciali saudite e francesi, cominciate sette giorni fa in Arabia Saudita e ora destinate a spostarsi sulle Alpi per una seconda parte. Per spiegare lintesa è stato citato un accordo di agosto, raccontato dal giornale La Tribune: un miliardo di euro dai sauditi per sei navi da guerra da costruire nei cantieri francesi. Non cè una correlazione diretta provabile tra i contratti e la posizione da guastafeste del governo francese. Parigi sta riscuotendo elogi per questo suo soprassalto con lIran, perché sta dimostrando di saper entrare nei negoziati con durezza e scaltrezza (vedi per esempio tra gli elogi Vive la Freeze di Jeffrey Lewis su Foreign Policy, gioco di parole tra Vive la France e il freeze, il congelamento, del programma atomico iraniano). E certamente da notare, tuttavia, che il contratto bellico citato dai maligni come possibile ragione dellallineamento vale un ottantesimo del contratto per lenergia nucleare civile per cui Areva ed Edf intendono gareggiare. LArabia Saudita ha già dichiarato che si doterebbe di armi nucleari se lIran diventasse una potenza nucleare. I negoziati a Ginevra potrebbero continuare con larrivo dei ministri degli Esteri, compreso il segretario di stato John Kerry. CULTURA LIBRI di r.d’agostino.Leroe del primo romanzo del giornalista-economista Paolo Forcellini, veneziano doc, oltre a essere un provetto segugio è anche un gran gaudente, il lettore che lo accompagna nel suo girovagare per la città lagunare ha anche lopportunità di conoscere bacari e trattorie spesso fuori dal circuito dei foresti, nelle callette più sconte, cioè nascoste, dove si possono trovare i migliori cicchetti e i meno conosciuti ma più tradizionali piatti di pesce della laguna e dellAdriatico. Una chance non da poco in una città dove, se non hai la dritta giusta, gli osti e i ristoratori ti levano anche le mutande o ti propinano una pizza surgelata della peggior specie. Quello che a prima vista appare a Manente un omicidio causato dalla gelosia o un regolamento dei conti nellambito della mala, poco a poco si rivela un affaire complesso nel quale entrano il furto di una famosissima opera darte, malviventi professionisti e balordi dilettanti. Fra questi ultimi, alcuni giovani di buona famiglia che hanno frequentato il liceo classico più quotato della Serenissima, il Marco Polo, dove, per intenderci, hanno studiato i Cacciari e i De Michelis, e altri, con più muscoli che testa, la cui scuola principale è stata il riformatorio. Il commissario, malgrado le molte ombre di vino e gli spritz che si scola a ogni piè sospinto, come si muove a suo agio nel caigo veneziano e tra le maschere di quei giorni di Carnevale, riesce a diradare anche il nebbione dietro cui si nascondono i colpevoli di efferati delitti. E ci riesce anche perché, oltre a essere un segugio con un gran naso, è uomo che ha un concetto molto elastico di tutela dellordine: è politicamente scorretto, capace di finire a letto con unindiziata e comunque disposto a dribblare tutte le regole, anche le più sacre, pur di arrivare a mettere in gabbia quello che lui ritiene un colpevole. Manente non si nega niente: fuma come un vulcano attivo, beve quasi solo i migliori vini del triveneto e non sa resistere alla bellezza femminile, per la verità a resistere non ci prova proprio. E poi mangia, senza curarsi troppo della linea: da solo, nelle pause del lavoro, o più spesso in compagnia di donne fascinose, si concede prelibatezze come le canoce, gli scampi fritti, le moeche, le capesante e i peoci gratinati, i folpeti e la polenta con le schie. Gli indirizzi giusti? Li trovate tutti ne La tela del Doge. AFORISMIASSIOMI Cravatta: ultimo formalismo nascosto dietro al colletto delle divise.
Posted on: Fri, 22 Nov 2013 17:46:21 +0000

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