Questa non è una vita. Reportage su Chouchavie. (Tunisia - TopicsExpress



          

Questa non è una vita. Reportage su Chouchavie. (Tunisia giugno/agosto 2013) 1. Giugno 2013. L’Unhcr e il governo tunisino annunciano la chiusura del campo di Choucha con un accordo sugli ultimi rifugiati rimasti al campo a due anni e mezzo dalla sua apertura: 600 persone, circa, anche se stabilire il numero esatto non è possibile. Non è difficile immaginare quanti contatti siano stati necessari per giungere a negoziare tale accordo, reso pubblico il 17 luglio 2013. In base a quanto reso noto sulla stampa, il governo tunisino riconosce la possibilità di rimanere sul proprio territorio sia ai rifugiati riconosciuti dall’Unhcr, ma esclusi dal programma di reinstallazione in altri paesi, sia ai richiedenti asilo a cui l’Unhcr non aveva riconosciuto lo status di rifugiato. Nello stesso contesto, ma con un’ambiguità che non permette di capire se anche il secondo gruppo sia incluso, il ministro degli affari sociali annuncia che i rifugiati avranno diritto a un alloggio e a un lavoro. 2. Tra il primo e l’8 luglio 2013 il campo viene chiuso, senza una grande risonanza sulla stampa. Lo si capisce, invece, dagli scambi mail del mondo associativo, da cui si riesce a sapere anche che alcuni rifugiati di Choucha sono ancora lì a protestare contro la chiusura del campo e contro l’accordo concluso tra il governo tunisino e l’Unhcr. Conoscendo le condizioni di vita dei rifugiati tra le tende e il deserto di Choucha dalle immagini diffuse durante i due anni trascorsi dalla sua apertura, nel febbraio del 2011, si sarebbe potuti rimanere stupiti di questa stravagante lotta contro la chiusura del campo. Ma conoscendo meglio quello che era successo nei due anni di gestione del campo non c’era, in realtà, nulla di cui stupirsi. La lotta dei rifugiati permetteva di far vedere ancora una volta le scelte politiche dell’Unhcr a loro proposito. Una volta terminato il programma di rimpatrio di centinaia di migliaia di migranti arrivati nel 2011, dopo l’inizio delle prime fasi di rivolta in Libia, e in seguito con la guerra contro Gheddafi condotta dalla “coalizione dei volenterosi”, a Choucha erano rimasti solo i richiedenti asilo, 3000, 4000 persone. E’ in questo momento che l’Unhcr inizia un lungo processo di categorizzazione, stabilendo diverse categorie, per pervenire, dopo un lungo lavoro di selezione, alla categoria dei rifugiati da reinstallare in altri paesi e a un “resto”. Un “resto” composto dalle persone rigettate, i “rifugiati rifiutati”, e, in secondo luogo, dalle persone appartenenti alla categoria dei rifugiati riconosciuti ma non aventi diritto alla reinstallazione perché arrivati in ritardo: ossia, attraverso un piccolo trucco da parte dell’Unhcr, tutti i rifugiati arrivati a Choucha dopo il dicembre 2011. Perché questa scelta politica adottata dall’Unhcr, quando sarebbe stato così semplice riconoscere come rifugiati tutti i richiedenti asilo di Choucha che hanno cercato di sopportare questa vita di tende in una zona quasi desertica della Tunisia a causa della guerra in Libia? “Fuggiamo tutti dalla Libia a causa della guerra. Nessuno di noi, altrimenti, avrebbe mai avuto l’idea di venire in Tunisia”, è stata la loro rivendicazione per più di due anni. Perché non riconoscerla? In realtà, si trattava, da un lato, di un gioco relativo alla cosiddetta “transizione democratica” tunisina dopo la rivoluzione. Evidentemente, tra i criteri per valutare lo stato di democrazia di un qualsiasi paese c’è anche quello di una legge sull’asilo politico, non importa poi quanto rispettata. Dall’altra parte, si trattava di un gioco un po’ più sottile, ben noto in Europa alle politiche migratorie dei paesi di “democrazia avanzata”: quello di esternalizzare al massimo tutte le possibilità di asilo scaricandole ai paesi in “transizione democratica” o semplicemente non democratici. Per raggiungere questo doppio obiettivo in un paese interessato nella sua fase di transizione democratica a risolvere ben altri problemi, bisognava però avere un elemento a partire dal quale costringerlo ad accordare un po’ di attenzione anche a questo “piccolo dettaglio” della “democrazia”: quello dell’asilo politico. Poco importava che questo elemento fossero degli uomini, delle donne e dei bambini: i “rifugiati-rifiutati” così come i rifugiati riconosciuti ma non aventi diritto ai programmi di reinstallazione in altri paesi perché arrivati in ritardo. Da questo punto di vista, bisogna riconoscere alla Tunisia la sua disponibilità a rispondere tanto ai criteri democratici dell’asilo quanto a quelli dell’esternalizzazione stabiliti dalle “democrazie avanzate”. Ma bisogna riconoscerle anche la sua disponibilità a dimostrarsi capace di giocare sull’ambiguità delle parole nei suoi comunicati al fine di poter esercitare la legge suprema dell’arbitrio così cara alle “democrazie avanzate”: i rifugiati-rifiutati avrebbero avuto diritto all’alloggio e alle offerte di lavoro come gli altri rifugiati? Era una domanda che rimaneva senza risposta, mentre non c’era alcun dubbio sul fatto che, proprio come gli altri, anche loro dovevano presentarsi ai posti di polizia per l’identificazione. 3. Luglio-agosto 2013. Nessuna notizia, o quasi, sulla stampa. Il silenzio sulla « vita oltre la vita » del campo di Choucha viene interrotto soltanto da qualche mail tra le associazioni. Grazie ad esse, si può intuire che la lotta dei rifugiati-rifiutati e dei rifugiati-non-reinstallati continua in modo più discreto e sotterraneo. Sono lì, nella loro vita di tende a cui sono già abituati da più di due anni. Ma questa volta sono lì, nella loro vita di tende, senza acqua, senza elettricità, senza cibo. Una vita di nulla, nemmeno di vere tende perché la maggior parte di esse sono state smantellate dall’Unhcr alla chiusura del campo. Quando leggiamo le mail, si può cercare di immaginare la loro condizione, ma il tutto resta nel mondo dell’immaginario. 4. 30 agosto 2013. La strada per arrivare a Choucha è sempre la stessa: una lunga zona quasi desertica alla frontiera con la Libia. Ma prima ancora di parcheggiare, la nostra macchina, questa volta, viene presa quasi d’assalto. Una fila di donne e bambini che domandano acqua e un po’ di cibo alle automobili di passaggio. L’immaginario costruito grazie alla lettura delle mail è subito spezzato, siamo nella realtà del campo di Choucha a due mesi dalla sua chiusura. “Benvenuti nella realtà del nuovo campo di Choucha”, come ci dice qualcuno dei suoi attuali abitanti. Una realtà difesa dai rifugiati-rifiutati e dai rifugiati-non-reinstallati che all’inizio ci impedisco di prendere immagini della loro condizione di non-vita. Nella lunga discussione con loro e fra loro sull’inutilità delle immagini, “questa non è una vita” è una delle frasi più ricorrenti e su cui tutti sono d’accordo. Per accorgersene, basta in effetti scendere dall’automobile e gettare un colpo d’occhio dai bordi del campo. Nessun bisogno di immagini, nessun bisogno di filmare, né di parlare. Si parla, comunque, o meglio, si continua una lunga discussione sull’inutilità delle immagini e sulla loro delusione rispetto al lavoro dei giornalisti e degli attivisti delle organizzazioni e delle associazioni che, per quanto abbiano fatto il loro lavoro di informazione, non hanno saputo evitare la loro attuale situazione. E durante la discussione cominciano ad emergere alcuni elementi di che cosa significhi “questa non è una vita”. Una donna con un lungo mantello nero e uno scialle sulle spalle che nasconde un neonato. Dalle automobili di passaggio, forse non attende soltanto qualche bottiglia d’acqua ma anche un po’ di latte. Un uomo che aspetta la propria moglie e il proprio figlio senza poterli cercare: sono usciti dal campo un mattino e non vi hanno fatto ritorno, impossibile per lui cominciare la loro ricerca perché è un rifugiato-rifiutato. “Qui la gente diventa pazza”, “siamo tutti pazzi”. Ce lo dicono varie volte, ma quando passiamo davanti a una tenda ci sono evidentemente “pazzi più pazzi degli altri”, dal momento che ci domandano di fare veloce perché la nostra presenza potrebbe infastidirli. Ecco qualche immagine di “questa non è una vita”. E, tuttavia, vivere questa “vita” è una “scelta” degli abitanti del campo di Choucha dopo la sua chiusura. Una resistenza di fronte all’accordo tra l’Unhcr e la Tunisia che a loro avviso non rappresenta una soluzione. Anche in questo caso, e soprattutto dopo aver visto la realtà del campo che spezza il nostro immaginario, si potrebbe rimanere sorpresi. Come? Perché scegliere questa “vita” quando ti offrono un alloggio e persino un lavoro se sei un rifugiato-non-reinstallato e comunque perlomeno un titolo di soggiorno temporaneo se sei un rifugiato-rifiutato, secondo il comunicato del ministero degli affari sociali? Vivere questa « vita » è, in realtà, una strana forma di resistenza, forse la sola resistenza possibile per opporsi alla “vita di rinvio” negoziata sulla loro pelle. Una soluzione, o una non soluzione, o ancora una soluzione-rinvio che permetterebbe ai differenti attori implicati nella gestione delle loro “vite umanitarie” di uscirsene degnamente e “democraticamente” pur avendoli prodotti come “resti” del campo di Choucha. Una soluzione rinvio: qualche mese ancora di “presa in carico” con due uniche possibilità. Quella, innanzitutto, di accettare di vivere tra le case-rovine delle due città designate dalla Tunisia come loro luogo di installazione sul territorio tunisino; oppure, quella di scegliere di utilizzare la piccola somma data dall’Unhcr a chi accetta l’integrazione in Tunisia per inventare invece il proprio modo reinstallarsi all’estero attraversando la frontiera con la Libia e prendendo il largo verso Lampedusa. In base a queste due possibilità, ci si potrebbe allora ritrovare a vivere una vita di rinvio a Medenine o a Ben Guerdane, due delle città con il più alto tasso di disoccupazione della Tunisia, o essere bloccati in alto mare dalla polizia tunisina. Dinanzi a ciò, allora, scegliere di vivere una vita che non è una vita significa da parte loro sfidare la scelta politica che li ha prodotti come “resti”: rimanere nella discarica del campo chiuso e vivere una vita-discarica, dire “siamo qui, siamo la vostra discarica e non potrete cancellarci degnamente o democraticamente, nemmeno in una transizione democratica”. O ancora, sfidare questo gioco politico scegliendo di vivere l’invisibilità ma un’invisibilità che fa problema perché qualcuno dovrà occuparsene, rilevando la loro presenza e, al limite, espellendoli dal campo chiuso di Choucha. Al contrario, accettare la vita-rinvio che gli viene proposta permetterebbe ai differenti attori di giocare sino in fondo il loro gioco di discarica senza assumersi alcuna responsabilità. Permetterebbe, infatti, al governo tunisino di apparire “democratico” per il lasso di tempo di un permesso di soggiorno temporaneo a breve scadenza e all’Unhcr di apparire come l’istanza che ha saputo negoziare un permesso per i rifugiati, e dunque “democratizzare” la Tunisia pur esternalizzando di nascosto la politica d’asilo. Ma permetterebbe anche ai differenti stati deputati alla reinstallazione dei rifugiati di non apparire come i responsabili dell’aver creato le non-vite di Choucha attraverso la loro guerra in Libia. Wafema Hilali 18 Settembre 2013 Storiemigranti
Posted on: Thu, 19 Sep 2013 20:13:59 +0000

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