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bugiardo intellettuale intrattenitore polistrumentista che racconta storie John Cale - Vintage Violence (2001 Remaster, Full Album) side A 1. Hello There 0:00 2. Gideons Bible 2:48 3. Adelaide 6:12 4. Big White Cloud 8:35 5. Cleo 12:08 6. Please 14:44 side B 7. Charlemagne 19:04 8. Bring It on Up 24:07 9. Amsterdam 26:33 10. Ghost Story 29:46 11. Fairweather Friend 33:34 Added 12. Fairweather Friend (Alternate Version) 36:08 13. Wall 38:46 John Cale – bass guitar, guitar, keyboards, vocals Harvey Brooks – bass guitar Sanford Konikoff – drums Ernire Coralla - guitar Garland Jeffreys - guitar, backing vocals Stan Szelest - piano Vintage Violence was the first solo album from former Velvet Underground member John Cale. Produced for a mere $15,000, Cale stated in his autobiography Whats Welsh for Zen? that there wasnt much originality on that album, its just someone teaching himself to do something. He also thought the songs were simplistic. He pieced together a band to play on the album, and they named themselves Penguin. However, the group didnt last beyond the recording sessions. The cover of the album features Cale with his face obscured by a glass mask over a nylon stocking, which he would later cite in his autobiography as symbolic of the content of the record: Youre not really seeing the personality. Originally released in 1970, Vintage Violence received mostly positive reviews. Rolling Stone magazines Ed Ward said that the album sounds like a Byrds album produced by Phil Spector who has marinated for six years in burgundy, anise and chili peppers. The album was rereleased in remastered form in 2001. Recensione di Pancamo Puglia (sentireascoltare) (4stars) Chi considera ancora Lou Reed l’unica testa dei Velvet Underground capace di pensare in termini squisitamente pop, relegando John Cale al ruolo di selvaggio sperimentatore votato ad eccessi musicali di ogni tipo, rischia di cadere in un clamoroso e grossolano errore. Vintage Violence, il suo esordio solista, spazza via come un uragano ogni certezza che si credeva saldamente acquisita sulla “vera” natura artistica di questo musicista, ancor oggi purtroppo misconosciuto. Ma andiamo con ordine. Dopo esser stato parte integrante dell’alchimia che generò i capolavori Velvet Underground and Nico e White light white heat, nell’ottobre del 1968 l’acuto polistrumentista gallese viene messo alla porta dallo stesso Reed, in combutta col nuovo manager Steve Sesnick. Già da qualche tempo gli equilibri all’interno del gruppo si erano incrinati: mentre John, fedele alla sua formazione avanguardistica (era infatti giunto in America all’inizio di quel decennio dopo aver vinto una borsa di studio) voleva portare il suono della band verso soluzioni sonore ancora più estreme di quelle sperimentate nei già rivoluzionari primi due album, Lou mostrava invece un’attitudine più melodica e incline a compromessi che, complice l’assenza del compagno, si affermerà prepotente a partire dal terzo album (The Velvet Underground, 1969), caratterizzando in seguito diversi momenti della sua avventura solista (su tutti, il trionfo glam di Transformer con la complicità di Ziggy Stardust/Bowie). Così a Cale non resta che intraprendere una carriera autonoma in cui, tra impegni come produttore, arrangiatore, sessionman di lusso e compositore di colonne sonore, sarà libero di seguire le proprie intuizioni artistiche. E, alla luce di quanto detto sulle dinamiche interne dei Velvet Underground, il suo debutto da solista è più che una sorpresa. Vintage Violence, uscito originariamente nel 1970 per la Columbia Records (ma registrato l’anno precedente in seguito alla produzione di The Marble Index di Nico e dell’album di esordio degli Stooges), è una vera rivelazione. Un disco di una leggerezza spiazzante, melodicamente ineccepibile, arrangiato con gusto: quanto di più lontano ci si poteva aspettare da un allievo di Cage. Indipendente dalle maglie, spesso soffocanti, di una band, Cale può finalmente manifestare la sua quintessenza artistica. Non un semplice musicista: piuttosto un alchimista, una sorta di mad scientist prestato ora al rock, ora all’avanguardia, ora al punk, ora alla sperimentazione “classica”, ma sempre e unicamente guidato da un’intelligente curiosità e da un approccio stimolante verso la materia trattata. In questo caso a venire studiato, esaminato e riplasmato è il pop-rock: il Nostro si diverte a giocare con la tradizione melodica di Beatles e Beach Boys (l’amore verso i quali esploderà definitivamente nella cosiddetta “trilogia pop” con Eno di Fear, Slow Dazzle ed Helen of Troy), rivestendone le intuizioni di arrangiamenti ambiziosi e insaporendo il tutto con spruzzatine country. Vintage Violence potrebbe considerarsi una sorta di prova generale della sensibilità pop di Cale, quasi un’antologia a priori di quello che, negli anni a venire, si troverà ad esprimere in termini di songwriting; ad ogni modo, se si fa eccezione per Paris 1919 (1973), in cui la verve pop si mescolerà in modo sorprendentemente efficace al suo retaggio di musicista classico, difficilmente John Cale ci regalerà un lavoro tanto immediato ed equilibrato. L’ irresistibile piano western di Hello there immerge subito l’ascoltatore in un’atmosfera ironica e goliardica, mettendolo subito a suo agio; Gideon’s Bibleè già in odore di classico: una festa di sovraincisioni dal ritornello memorabile, in un profluvio di pedal steel, chitarre guizzanti, piano, viola e chissà quanti altri strumenti. Adelaide è un delizioso folk che Stuart Murdoch dei Belle and Sebastian deve aver sicuramente ascoltato, mentre in Big white cloudCale si cimenta addirittura in un “wall of sound” spectoriano, occupandosi anche della conduzione dell’orchestra (soluzione che ripeterà, con i risultati alterni, in futuro); la sbarazzina e solare Cleopresenta una melodia tanto orecchiabile che potrebbe essere una sigla di cartoni animati (ricordate “Heidi”?… si potrebbe quasi parlare di plagio da parte degli autori!). Se Please, Charlemagne e Bring it on up possono sembrare “soltanto” freschi esercizi di scrittura country-pop, i due brani successivi sono di diritto due classici del repertorio caleiano e ci presentano, rispettivamente, due facce opposte e complementari della sua personalità. Amsterdam, malinconica gemma acustica densa di umano rimpianto, è la prima di una lunga serie di ballate, ideale antesignana dei momenti più spontanei e intimisti di Paris 1919 e di Music For a New Society (1982); la spettrale (è proprio il caso di dirlo!) Ghost storyinvece mette in luce il lato più oscuro e claustrofobico del musicista gallese, un racconto dell’orrore per chitarra acustica, organi, armonium e chitarre elettriche intrecciati in una danza macabra dai toni jazzati; non siamo troppo lontani dai sabba deliranti di Fear(1974). Quando quest’ultima traccia s’interrompe d’improvviso sembrerebbe la fine, ma è l’ennesima sorpresa: chiude infatti il disco l’allegra Fairweather friend, brano chitarristico uptempo che per il suo piglio spensierato avrebbe potuto, ricevuto un adeguato rivestimento di paillettes e lustrini, essere un successo dell’effimera stagione glam-rock di lì a venire. La ristampa del 2001 aggiunge poco o niente alla sostanza del disco originale: a parte un’abbastanza inutile alternate version di Fairweather friend, l’inedita Wall è un esercizio strumentale per sola viola, un lungo drone memore degli insegnamenti ricevuti alla corte di LaMonte Young e il suo Theatre of Eternal music. Messa a fine disco, ci ricorda prepotentemente che il raffinato songwriter delle canzoni precedenti è lo stesso folle stupratore di viola di Heroin e Venus in furs. Ma forse è solo l’ultimo inganno di John Cale, bugiardo sin dal titolo e dalla copertina del disco: nessuna violenza in queste canzoni, solo dell’ottima e ispirata pop music. Biography by Simon & Schuster (RollingStone) John Cale has brought an avant-garde ear to rock & roll ever since he founded the Velvet Underground with Lou Reed in 1966. His work shows a fascination with opposites: lyricism and noise, subtlety and bluntness, hypnotic repetition and sudden change. Even as a student of classical music, he was an extremist: During a recital at the Guildhall School of Music, London, where he was studying theory and composition, he demolished a piano. Cale studied in Britain with composer Humphrey Searle, came to America in 1963 to work with Iannis Xenakis and Aaron Copland under the auspices of a Leonard Bernstein Fellowship, then settled in New York with such radical composers as John Cage and La Monte Young. That year Cale was one of a group of pianists to perform Erik Saties nearly 19-hour-long Vexations. Through his association with the Lower Manhattan art community, Cale met Reed, who directed him toward electric instruments and rock & roll and helped conceive the Velvet Underground [see entry], for whom Cale played keyboards, bass, and electric viola. After two Velvets albums (The Velvet Underground and Nico and White Light/White Heat), Cale left in 1968 for a solo career. In the early 70s he worked as an A&R man for Warner Bros. and Elektra, and as a consultant for Columbia, remixing albums by Barbra Streisand and Paul Revere and the Raiders in quadrophonic sound. On his solo albums of the decade, he used elegant pop (Paris 1919, with Little Feats Lowell George), hard rock (Fear), Phil Spector/Brian Wilson gloss (Slow Dazzle), minimalism (Church of Anthrax, with fellow La Monte Young pupil Terry Riley), full orchestra (The Academy in Peril), and punk (Sabotage). Lyrically, he displayed equal daring; delivered in a strong baritone, his work ranged from musings about terrorism, espionage, and states of psychological extremity to love songs. His 70s tours, generally featuring guitarist Chris Spedding, were often acts of disturbing theater (recorded at New Yorks CBGB, Even Cowgirls Get the Blues captured the punk ambience of the period); at one point Cale chopped up a chicken onstage, causing his band members to walk out. By the next decade Cale had established himself as a producer/collaborator on some 80 albums, ranging from the debut efforts of Iggy Pop and the Stooges, Patti Smith, Jonathan Richmans Modern Lovers, and Squeeze to four albums by former Velvets singer Nico; he also had worked with Brian Eno, Kevin Ayers, Kate and Anna McGarrigle, Nick Drake, and Mike Heron and scored soundtracks for Andy Warhols Heat and Roger Cormans Caged Heat. While commercial success continued to elude him, he was lauded as one of punks godfathers, a status he contended against with characteristic irony: His primary interest remained classical music. As the 80s waned he continued producing (Happy Mondays), scoring (the soundtrack for Jonathan Demmes Something Wild with Laurie Anderson and David Byrne), and releasing solo work as various as the almost-pop of Wrong Way Up to The Falklands Suite, an orchestration of Dylan Thomas poetry that highlighted Words for the Dying. By 1993 Cale had come full circle: Having, two years earlier, collaborated with Lou Reed on Songs for Drella, a tribute to Velvet Underground mentor Andy Warhol, he teamed with the Velvets on a reunion tour. On his own, he continued to innovate, releasing in 1996, with help from David Byrne and Velvets drummer Maureen Tucker, Walking on Locusts, featuring a moving tribute to Velvets guitarist Sterling Morrison, and, in 1998, Nico, an elegy for Velvets chanteuse Nico.
Posted on: Mon, 21 Oct 2013 11:20:22 +0000

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