Anita « (…) Il nome Anita, lo avrete già capito, mi fu dato - TopicsExpress



          

Anita « (…) Il nome Anita, lo avrete già capito, mi fu dato un mese dopo la rivolta studentesca di Parigi ad onorare la famosa e sfortunata rivoluzionaria d’oltreoceano. Che le due cose siano prive di legame non importa, rientrava nella logica bizzarra dei miei folli genitori e, nel contesto in cui il concepimento avvenne, la cosa aveva un senso strepitoso. (…) » « (…) Da circa un anno abito da sola. Vivo in quattro mura abbarbicate sull’incrocio che conduce al palazzotto dello sport. M’abbiglio d’occasione: dai miei studi all’ultimo mio acquisto. Saldo le bollette con ritardo, non faccio mai le pulizie di casa, non perdo tempo a riparare i guasti che si fanno consistenti ( tapparelle, frigorifero, moquette ). Là fuori credono io finga, che tutto sia una posa, il vezzo d’una bimba. D’accordo: io vivo in quattro mura abbarbicate sull’incrocio che conduce al palazzotto dello sport, come una bimba. Però possiedo un’anima, per caso l’ ho scoperto, e ancora stento a crederci. Capita d’avere una bellezza e non accorgersi di nulla, vero? Sono in questo mondo, connessa come oggetto ad altri oggetti senza cui non sarei io, ovvero parte di un sistema. Ed è un sistema fragile e precario in cui nessuna cosa va toccata, riparata, manomessa. La luce che mi porto dentro è già riparatrice d’ogni cosa, utensile perfetto di cui il mondo è solamente emanazione... Non dovrei dirle queste cose (di anima e di altre amenità): io sono uno scienziato, anticattolica e abortista, abituata ad una logica stringente, figlia del positivismo, avvezza ad apprezzare l’evidenza del concreto, riluttante nei confronti dell’immaterialità. Nemmeno dovrei flettermi a sondare territori circonfusi di superstizione, abitati da fanatici bigotti che si pentono ed indossano il cilicio in espiazione di peccati immaginari. Mi dolgo d’aver detto queste cose (di anima e di altre amenità), mi sento una cretina per aver solo pensato di pensarle, queste cose. Confesso che non è la prima volta che succede, che, sovente, qualche demone mi invade e sfido tutto quello che ho imparato nella vita, lo rigetto come cibo andato a male. È un’idiozia poiché, di quello che ho studiato, io ci vivo ( ebbene sì, la cattedra ed il ruolo hanno importanza ) e vorrei giungere alla carica accademica più alta ( e non intendo certo solo il rettorato ). Ma succede, mi ghermisce, mi possiede questo raptus... A dirla tutta, ciò mi accade molto spesso. A dir di più, quasi ogni sera quando, giunta a casa e smessi i panni di scienziato, io mi vesto. Mi travesto. Non sto a scegliere il trucco, getto in faccia ciò che capita al momento: sommergo le mie ciglia nel mascara fino a che non cola viscido di lato come linfa d’edera mozzata; devasto guance, mento e fronte con il fard, finché non grondo come asfalto sotto al sole; mi spalmo di rossetto come se pulissi un vetro lercio, fino a che non cola un rivolo amaranto e, sparso e impiastricciato lungo il collo, giunge al seno. E il seno si rigonfia, come un monte impervio con il terremoto dentro, una canzone che ti esplode forte in gola e vuoi succhiarla come fosse un biberon. Mi vesto: io mi travesto. Non sto a scegliere l’ora, il quando, il come. Afferro l’ascensore e vengo proiettata in strada, sorretta dalla luce di un lampione, ogni lampione. Io non mi vendo, io non mi svendo: io mi regalo. Straccio questo velo alieno – la mia consunta educazione imposta – e cerco quella cosa che non sono o che non ho. Le strade che conducono a me stessa sono molte, ognuna ha qualche cosa del mio volto: il naso, l’occhio, il polso, la caviglia, il fianco, il cuore. Le luci delle auto si confondono in ghirlande di orbitali, scie di celeri lumache rese fosforo da nuove, imprevedibili emozioni. Ed è un abradere il cervello sull’asfalto, una dissoluzione di me stessa in monadi ancestrali desiderose d’unità, ma condannate ad esserne frammenti in un perenne affanno di rincorse, in un eterno amplesso senza orgasmo. Che cosa c’è dentro al mio corpo, a questo corpo che non sono io? Venti anni fa mi regalarono un vascello, un modellino di gran pregio, interamente lavorato a mano. Mio padre ne era fiero: lo aveva barattato con un orologio russo, in occasione di un suo viaggio in medio oriente. Le vele ricamate, i piccoli cannoni che sparavano proiettili di piombo, la juta di minuscole gomene col diametro di un ago, i boccaporti verniciati con estrema precisione; a poppa, le finestre smerigliate, decorate in punta di pennello. Più osservavo quel gioiello, più pareva che mancasse qualche cosa in quell’enorme perfezione. Quell’oggetto era stupendo, ma non ne capivo il senso: la bellezza ne era il senso? Non bastava, ci doveva essere altro. Un significato intrinseco, celato, sottinteso ( proprio là, da qualche parte ). Mi convinsi che, al suo interno, il modellino trattenesse dei tesori. Il costruttore – sospettai – s’era servito di tanto splendore per nascondervi qualcosa di invisibile e grandioso ( un nascondiglio eccezionale, senza dubbio: chi oserebbe profanare la bellezza? ). Un pomeriggio in cui rimasi a casa sola lo smontai, pezzo per pezzo, con alacre precisione, ma tenace accanimento. Mano a mano che ne intravedevo il cuore, la tenacia si mutava in apprensione. L’apprensione in delusione. Poi, la delusione in rabbia. Di fronte a me, gettati alla rinfusa – montagnole di inservibile pattume – giacevano dei cocci: avevo fatto a pezzi la bellezza e questa, dentro, non celava nulla. (…) » ( “Anita”, tratto da « Le due madri » )
Posted on: Sun, 04 Aug 2013 20:28:57 +0000

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